RACCONTI
Settimio Marcelli
Sherazade.com: Nina
Domani è l'onomastico di Nina. Dobbiamo proprio farle un bel regalo. Qualche pila per la sua radiolina è quello che può renderla felice. Se passiamo da Remo all'Argentina vedrai ce ne darà qualcuna nuova; quelle avanzate dalle scatoline, aperte per i giochi o per le sveglie. Lui non sa cosa farsene di certo, che tanto non le compra più nessuno, ma se gli dico che sono per la Nina, apre il cassetto e ce lo svuota tutto. Vedrai che ci fa pure un bel pacchetto, con la carta brillante e il nastro rosso.
Se la incontri adesso ti fa pena, è il minimo che si possa dire, ma non immagini neanche chi era Nina e quello che ha passato da ragazza. L'ho conosciuta che era già barbona, intuendola nei suoi occhi fieri, poi me ne han parlato così tanto che mi sembra d'esser cresciuta insieme a lei. La famiglia proviene da Venezia e, dopo aver girato mezza Europa, da tanto tempo s'è fermata a Roma, dove commercia in tessuti e tele, con un negozio alle Botteghe Oscure e un magazzino al Portico d'Ottavia. Famiglia ebrea, ma senza pregiudizi; Nina frequenta scuole dei Gentili e si battezza già grande da cristiana, senza per questo esser mai rimproverata.
Bella coi suoi capelli crespi e corvi. Il portamento altero e gli occhi neri, frotte di bulli a farle da corona, cuori trafitti della sua collana. A tutti regalava un suo sorriso, neanche a uno offriva più di quello, per questo ci voleva ancora tempo, prima gli studi di scienze e medicina. Mentre splendeva per il suo intelletto, passò la tempesta alla Sapienza, spazzando in un istante aria stantia polvere fumo muffa e ragnatele, creando nuovi sogni e ipocrisia, portando via con sé anche la Nina. Travolta in un gorgo senza fine, la bella perse d'incanto la corazza; convinta di dar l'assalto verso il cielo, divenne regina del manifestino, vestale della rabbia popolare, angelo di rivolta femminista, orfana e vedova di rivoluzione. Il vuoto che la colse all'imbrunire di quella tempesta di speranze e grida, si trasformò in buco nella pelle, in cui fluiva chimico piacere, lampo di gioia senza rombo e tuono, un tanto per sognare un altro giorno.
Remo l'amava già da ragazzino. Come tutti i monelli del quartiere, sottomessi e devoti alla pischella che li batteva nei giochi all'Argentina. Ma la passione sbocciò più prorompente, in tempo luogo e atto inaspettati, pensa, agli esami di licenza media, alla prova di ginnastica in palestra. Appena li divisero per file, femmine e maschi tenuti separati, lui la perse di vista, poi riapparve mentre saltava sulla cavallina. Nel toccar terra con lieve fruscio, lei voltò il capo proprio verso Remo, lanciandogli uno sguardo malandrino, d'intesa oppur, chissà, soddisfazione, fatto sta che il buon Remo in quell'istante perse la testa il cuore e anche le gambe, che a momenti lo bocciavano all'esame. Da quel momento in poi fu un'altra vita. Di giorno consumava unghie e suole nel passeggiare sotto la sua casa, sperando d'incontrarla per la via o almeno di mirarla alla finestra; di notte stemperava la sua febbre nelle ore lunghe e languide passate limando le parole da donarle, sognandosi risposte trepidanti. Poi, proprio quando meno te l'aspetti, ecco che entra la Nina alla bottega, compra una presa o una lampadina e Remo parla d'altro, come sempre. Lo stesso in tutti gli anni della scuola, trascorsi a corteggiarla alla lontana, poco alla volta sempre più vicini divennero due grandi e buoni amici, mettendo così fine a ogni speranza: mai veri amanti son sinceri amici. Dopo la scuola si persero di vista. Remo l'ha rincontrata da barbona, non sa cosa è successo nel frattempo. Lei nega di sapere chi egli sia, come del resto fa con tutti e tutto, ma quando c'è qualcosa che va storta ci pensa sempre Remo a raddrizzarla.
Una sera d'estate come questa, Don Carlo la raccolse a Caracalla, in quella che lui chiama la parrocchia di Lazzaro rinchiuso nel sepolcro. Nascosta da un cespuglio d'oleandro, Nina giaceva come addormentata, stretta col ventre a quella madre terra incapace a difenderla dal male. Dalla strada si scorgeva solo un piede, vicino al quale brillava una siringa, gocce di sangue sopra questa e quello, gocce sull'erba a farle da corona. Seguendo l'orme lasciate sul terreno dalle già fredde stille della vita, Don Carlo giunse a vedere il grande scempio consumato su un corpo che fu fiero e ora trasformato in vile mezzo, buco esso stesso in cambio di una dose.
"Svegliati, Nina, dimmi ch'è successo". Gridava Carlo e lei non rispondeva. "Dimmi chi t'ha ridotta in questo stato. Guardami Nina, alzati e cammina". Lei non si scuoteva dal torpore, schiudeva gli occhi ma non lo guardava, la bocca aperta senza dir parola. La ricoprì con i suoi scarsi panni, in forma di bende più che di vestiti, cercando di celare la vergogna, non del suo corpo ma dell'altrui violenza, poi, certo non senza far fatica, la trascinò fino alla sua vettura, la depose con cura sul sedile, s'asciugò gli occhi e se la portò a casa.
Tre volte sorse il sole all'orizzonte e Nina sempre stesa su quel letto, anima incerta sul fine del suo viaggio, ritratta col suo fiato sullo specchio. Don Carlo l'assisteva con amore, le detergeva il viso dal sudore, le parlava pian piano in un orecchio, pregava ricordandola al Signore. Infine al terzo giorno la creatura ebbe un sussulto e si girò su un fianco, alzò la mano destra verso Carlo, gli accarezzò una guancia, prese da bere. Dell'uno e l'altra senza distinzione, le lacrime si mischiarono nell'acqua, salandola a lenire le ferite di un'anima risorta e non più uguale.
Col tempo arrivò la guarigione. Di un corpo che restava sempre bello. Le gambe ritrovarono la forza di sostenere il busto ritto e fiero, su cui poggiava l'ovale del suo viso incorniciato dai capelli neri. Nulla sembrò restar di quella sera, se non un certo sguardo un poco obliquo, da preda che si reca alla sorgente per bere mentre beve il predatore, e la bocca sottile quasi esangue, che mai più conobbe la parola. Tutto l'inverno stette da Don Carlo, fino alla festa di San Benedetto, quando raccolse le sue poche cose, riempì tre o quattro buste della spesa, firmò un biglietto in bianco e prese il volo. Da allora gira in tondo all'Argentina, si spinge fino al Portico d'Ottavia, s'affaccia a fiume sopra Tor di Nona, riposa all'ombra della Sinagoga. Nessuno riconosce, a nessun parla. L'aiuto di chi l'ama non rifiuta. Sempre attaccata alla sua radiolina, prende ciò che le serve e fugge via.
Se la incontri adesso ti fa pena, è il minimo che si possa dire, ma non immagini neanche chi era Nina e quello che ha passato da ragazza. L'ho conosciuta che era già barbona, intuendola nei suoi occhi fieri, poi me ne han parlato così tanto che mi sembra d'esser cresciuta insieme a lei. La famiglia proviene da Venezia e, dopo aver girato mezza Europa, da tanto tempo s'è fermata a Roma, dove commercia in tessuti e tele, con un negozio alle Botteghe Oscure e un magazzino al Portico d'Ottavia. Famiglia ebrea, ma senza pregiudizi; Nina frequenta scuole dei Gentili e si battezza già grande da cristiana, senza per questo esser mai rimproverata.
Bella coi suoi capelli crespi e corvi. Il portamento altero e gli occhi neri, frotte di bulli a farle da corona, cuori trafitti della sua collana. A tutti regalava un suo sorriso, neanche a uno offriva più di quello, per questo ci voleva ancora tempo, prima gli studi di scienze e medicina. Mentre splendeva per il suo intelletto, passò la tempesta alla Sapienza, spazzando in un istante aria stantia polvere fumo muffa e ragnatele, creando nuovi sogni e ipocrisia, portando via con sé anche la Nina. Travolta in un gorgo senza fine, la bella perse d'incanto la corazza; convinta di dar l'assalto verso il cielo, divenne regina del manifestino, vestale della rabbia popolare, angelo di rivolta femminista, orfana e vedova di rivoluzione. Il vuoto che la colse all'imbrunire di quella tempesta di speranze e grida, si trasformò in buco nella pelle, in cui fluiva chimico piacere, lampo di gioia senza rombo e tuono, un tanto per sognare un altro giorno.
Remo l'amava già da ragazzino. Come tutti i monelli del quartiere, sottomessi e devoti alla pischella che li batteva nei giochi all'Argentina. Ma la passione sbocciò più prorompente, in tempo luogo e atto inaspettati, pensa, agli esami di licenza media, alla prova di ginnastica in palestra. Appena li divisero per file, femmine e maschi tenuti separati, lui la perse di vista, poi riapparve mentre saltava sulla cavallina. Nel toccar terra con lieve fruscio, lei voltò il capo proprio verso Remo, lanciandogli uno sguardo malandrino, d'intesa oppur, chissà, soddisfazione, fatto sta che il buon Remo in quell'istante perse la testa il cuore e anche le gambe, che a momenti lo bocciavano all'esame. Da quel momento in poi fu un'altra vita. Di giorno consumava unghie e suole nel passeggiare sotto la sua casa, sperando d'incontrarla per la via o almeno di mirarla alla finestra; di notte stemperava la sua febbre nelle ore lunghe e languide passate limando le parole da donarle, sognandosi risposte trepidanti. Poi, proprio quando meno te l'aspetti, ecco che entra la Nina alla bottega, compra una presa o una lampadina e Remo parla d'altro, come sempre. Lo stesso in tutti gli anni della scuola, trascorsi a corteggiarla alla lontana, poco alla volta sempre più vicini divennero due grandi e buoni amici, mettendo così fine a ogni speranza: mai veri amanti son sinceri amici. Dopo la scuola si persero di vista. Remo l'ha rincontrata da barbona, non sa cosa è successo nel frattempo. Lei nega di sapere chi egli sia, come del resto fa con tutti e tutto, ma quando c'è qualcosa che va storta ci pensa sempre Remo a raddrizzarla.
Una sera d'estate come questa, Don Carlo la raccolse a Caracalla, in quella che lui chiama la parrocchia di Lazzaro rinchiuso nel sepolcro. Nascosta da un cespuglio d'oleandro, Nina giaceva come addormentata, stretta col ventre a quella madre terra incapace a difenderla dal male. Dalla strada si scorgeva solo un piede, vicino al quale brillava una siringa, gocce di sangue sopra questa e quello, gocce sull'erba a farle da corona. Seguendo l'orme lasciate sul terreno dalle già fredde stille della vita, Don Carlo giunse a vedere il grande scempio consumato su un corpo che fu fiero e ora trasformato in vile mezzo, buco esso stesso in cambio di una dose.
"Svegliati, Nina, dimmi ch'è successo". Gridava Carlo e lei non rispondeva. "Dimmi chi t'ha ridotta in questo stato. Guardami Nina, alzati e cammina". Lei non si scuoteva dal torpore, schiudeva gli occhi ma non lo guardava, la bocca aperta senza dir parola. La ricoprì con i suoi scarsi panni, in forma di bende più che di vestiti, cercando di celare la vergogna, non del suo corpo ma dell'altrui violenza, poi, certo non senza far fatica, la trascinò fino alla sua vettura, la depose con cura sul sedile, s'asciugò gli occhi e se la portò a casa.
Tre volte sorse il sole all'orizzonte e Nina sempre stesa su quel letto, anima incerta sul fine del suo viaggio, ritratta col suo fiato sullo specchio. Don Carlo l'assisteva con amore, le detergeva il viso dal sudore, le parlava pian piano in un orecchio, pregava ricordandola al Signore. Infine al terzo giorno la creatura ebbe un sussulto e si girò su un fianco, alzò la mano destra verso Carlo, gli accarezzò una guancia, prese da bere. Dell'uno e l'altra senza distinzione, le lacrime si mischiarono nell'acqua, salandola a lenire le ferite di un'anima risorta e non più uguale.
Col tempo arrivò la guarigione. Di un corpo che restava sempre bello. Le gambe ritrovarono la forza di sostenere il busto ritto e fiero, su cui poggiava l'ovale del suo viso incorniciato dai capelli neri. Nulla sembrò restar di quella sera, se non un certo sguardo un poco obliquo, da preda che si reca alla sorgente per bere mentre beve il predatore, e la bocca sottile quasi esangue, che mai più conobbe la parola. Tutto l'inverno stette da Don Carlo, fino alla festa di San Benedetto, quando raccolse le sue poche cose, riempì tre o quattro buste della spesa, firmò un biglietto in bianco e prese il volo. Da allora gira in tondo all'Argentina, si spinge fino al Portico d'Ottavia, s'affaccia a fiume sopra Tor di Nona, riposa all'ombra della Sinagoga. Nessuno riconosce, a nessun parla. L'aiuto di chi l'ama non rifiuta. Sempre attaccata alla sua radiolina, prende ciò che le serve e fugge via.
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