ATTUALITA'
Giulio Lascàris
Signornò!
Chi ne sa più di me, garantisce che la tragedia greca per antonomàsia - nel '900 sarà Edipo Re - fu nel XIX secolo Antigone. La storia è nota: i suoi fratelli, Eteocle e Polinice, si litigherebbero il trono di Tebe, non fosse che vengono invitati a regnare un anno l'uno, il successivo l'altro - a chi tocca n'z'ingrugna. Se male non ricordo - ma non ha importanza - Polinice sarà il primo. E siccome comandare è meglio che fottere, giunto il momento di rimettere lo scettro nelle mani germane, accànna il fratello e lo manda a spasso, proclamandosi unico sovrano - d'altronde, fratelli coltelli. Eteocle (o chi per lui) ci va in puzza: radunato un esercito, muove contro la città. "Equarrissage pour tous": entrambi ci rimettono la pelle. E qui sorge un problema. Benché Polinice avesse imbruttito il fratello, dàndogli quella sorte di calcio-falso, era morto per Tebe. Ergo, doveva venir seppellito, secondo le leggi della pòlis e il regolamento di "police", entro le mura. Extra moenia, invece, toccava infossare l'aggressore, che aveva ragione, ma aveva avuto torto ad aver ragione, muovendosi in armi contro la patria. Ma a questo punto, confortata, se non sbaglio, da Atena, non t'arriva Antigone? La quale, contro il costume del paese, interra la coppia di parenti entro la cerchia di mura - l'editto di Saint-Claude era da venire. Morale: ci sono leggi più alte di quelle civili, ed esse e solo esse vanno ubbidite quando si dà contrasto. A egregie cose l'urne de' forti, eccetera (o Pindemonte).
E Socrate? Sembrerebbe raccontare una storia diversa, e opposta. Platone, e un plotone di amici suoi, lo vanno a trovare in galera, dove l'hanno carcerato perché lui faceva prima a perdere un amico che una risposta, e perché corrompeva la meglio gioventù. E gli propongono di pigliare l'erba fumaria: una biga spàider lo aspetta in cortile, e lo condurrà fuori porta, al tristo esiglio. Ma quel maieuta, con quella sua maieutica fina - "tanto stretta al punto che s'indovinava tutto" (A. Pezzi) - li smonta. Ma come!, dice, non m'hanno sopportato i miei, dovrebbero sopportarmi gli altri? Non solo: sono Ateniese, nato e cresciuto nelle leggi d'Atene. Queste m'han fatto cittadino. M'hanno formato alla democrazia, educato alla civiltà, protetto nel mio essere animale politico, assicurandomi i diritti e forgiandomi nei doveri. E ora, dopo che le leggi della città m'hanno in ogni momento guidato e sorretto, recandomi ogni ausilio e consiglio, dovrei rinnegarle? Cosa sarebbe del povero me? Mi bevo la cicuta.
Così, dopo averli fatti tant'agùti, Socrate tracanna 'sto centerbe, e va all'alberi pizzùti. Non rinunciando però a un'ultimo tratto: ricorda infatti che deve "un gallo ad Esculapio". In antico - ma pure nelle moderne pratiche di medicheria tradizionale -, offrire un gallo al dio della cura significava che la malattia era stata vinta. Ma i pederasti lo davano per ringraziare d'una buona erezione, ovvero d'una conquista amorosa: d'altra parte, il gallo è simbolo di virilità, di prestanza - ovvero di "resurrezione della carne" (il che lo lega al mito cristiano, in cui tanta pittura - cfr. il Cristo morto del Mantegna - segnala la natura umana di Gesù evidenziandone il sesso). E quello scioperato di Schopenhauer individuerà nell'intero apparato del corteggiamento e della chiacchiera amorosa null'altro che un inganno della natura, un belletto intellettuale apposto alla fisionomia della fisiologia umana. (1) Socrate, in morte, fa un gioco di parole: un gioco di maschere col quale forse intende svelare il reale significato della sua ubbidientissima disubbidienza. Essì: queste sane raccomandazioni all'osservanza delle leggi, Socrate le dètta dal carcere dov'era rinchiuso per aver solennemente disubbidito (2). E vi aggiunge in coda quel che prova che il suo discorso doveva essere inteso non letteralmente, ma in altro modo. Quale? Alla luce di Antigone, è chiaro: l'unica ubbidienza alle leggi ingiuste è volerne di migliori. Socrate muore osservando non la lettera, ma lo spirito della legge: muore in coerenza con la sua vita, durante la quale altro non aveva fatto che spingere i concittadini a riflettere sulle proprie convinzioni, sugli usi, dimodoché li mutassero migliorandoli - sublime calembour per cui non c'è modo migliore di rispettare la Legge se non evadendo le leggi e pagandone le conseguenze. Muore cosicché la propria vita porti a riflettere sull' ingiustizia della sua condanna ingiusta, e dunque sul funzionamento e sull'applicazione delle leggi - perché migliorino, e non si debba più trarre in biasimo un altro Socrate. Vuole che la sua morte sia di farmaco a chi resta, lo risvegli (lo arràzzi!!!) e lo rianimi in quell'Eros che, come spiega nel "Simposio", è vettore di conoscenza - particolarmente quand'è problematico, quando contrasta con "la natura", cioè col dato pacifico, con l'uso accetto (una coloritura che avrà, tra le altre, la riflessione di Pasolini).
Ecco dunque che Socrate e Antigone s'integrano: lei afferma un principio generale, lui lo specifica così da far chiarezza - è la missione del parresiaste, di colui che dice la verità francamente. (3) Si può disubbidire alle leggi, quando si testimonia con la propria opera (magari opera vivente) che le si vuole migliori - cioè che le si ubbidisce fino all'osso, nella sostanza e non nella forma. La pietà di Antigone è un avvertimento della perfettibilità delle istituzioni umane. La fine di Socrate ne è l'applicazione. Insieme, sono il "di più" degli utopisti: di quelli per cui, come per James Bond, "the world is not enough". (4) Di quelli che sanno - come il signorino Lorenzo Milani Comparetti - che i lampioni, le strade, i dopolavoro li san fare anche i monarchici. O i nazisti. E che dunque nessuna politica può essere solo buona amministrazione. Ricordava Fernando Birri che l'utopia è come l'orizzonte: se fai un passo avanti, quello si sposta di un passo. Se ne fai due, di due. Ecco a cosa servono, l'orizzonte e l'utopia: a camminare.
E la politica è questo cammino.
*****
1) Seguo da: F. Savater (curatore), Filosofia e sessualità, Tranchida, Milano 1992; P. Coppo, Etnopsichiatria, il Saggiatore, Milano 1996; G. Reale, Eros demone mediatore, Rizzoli, Milano 1997; A. Schopenhauer, Metafisica della sessualità, Mondadori, Milano 1993; P. Camporesi, La carne impassibile, il Saggiatore, Milano 1991(3); L. Steinberg, The sexuality of Christ in renaissance art and in modern oblivion, Pantheon/October Book, New York 1983;
2) Lo farà anche san Pietro, vedi L. Milani, L'obbedienza non è più una virtù, L. E. F., Firenze 1978, p. 54. Inutile dire che quanto scrivo in questa nota è glossa degli scritti milaniani, e ad essi va in gloria;
3) cfr. Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1996;
4) Ma una cifra simile la reincotriamo nei brani del gruppo rock Garbage (cfr. Guido Zingari, Ontologia del rifiuto, le nubi edizioni, Roma 2006, p. 111).
E Socrate? Sembrerebbe raccontare una storia diversa, e opposta. Platone, e un plotone di amici suoi, lo vanno a trovare in galera, dove l'hanno carcerato perché lui faceva prima a perdere un amico che una risposta, e perché corrompeva la meglio gioventù. E gli propongono di pigliare l'erba fumaria: una biga spàider lo aspetta in cortile, e lo condurrà fuori porta, al tristo esiglio. Ma quel maieuta, con quella sua maieutica fina - "tanto stretta al punto che s'indovinava tutto" (A. Pezzi) - li smonta. Ma come!, dice, non m'hanno sopportato i miei, dovrebbero sopportarmi gli altri? Non solo: sono Ateniese, nato e cresciuto nelle leggi d'Atene. Queste m'han fatto cittadino. M'hanno formato alla democrazia, educato alla civiltà, protetto nel mio essere animale politico, assicurandomi i diritti e forgiandomi nei doveri. E ora, dopo che le leggi della città m'hanno in ogni momento guidato e sorretto, recandomi ogni ausilio e consiglio, dovrei rinnegarle? Cosa sarebbe del povero me? Mi bevo la cicuta.
Così, dopo averli fatti tant'agùti, Socrate tracanna 'sto centerbe, e va all'alberi pizzùti. Non rinunciando però a un'ultimo tratto: ricorda infatti che deve "un gallo ad Esculapio". In antico - ma pure nelle moderne pratiche di medicheria tradizionale -, offrire un gallo al dio della cura significava che la malattia era stata vinta. Ma i pederasti lo davano per ringraziare d'una buona erezione, ovvero d'una conquista amorosa: d'altra parte, il gallo è simbolo di virilità, di prestanza - ovvero di "resurrezione della carne" (il che lo lega al mito cristiano, in cui tanta pittura - cfr. il Cristo morto del Mantegna - segnala la natura umana di Gesù evidenziandone il sesso). E quello scioperato di Schopenhauer individuerà nell'intero apparato del corteggiamento e della chiacchiera amorosa null'altro che un inganno della natura, un belletto intellettuale apposto alla fisionomia della fisiologia umana. (1) Socrate, in morte, fa un gioco di parole: un gioco di maschere col quale forse intende svelare il reale significato della sua ubbidientissima disubbidienza. Essì: queste sane raccomandazioni all'osservanza delle leggi, Socrate le dètta dal carcere dov'era rinchiuso per aver solennemente disubbidito (2). E vi aggiunge in coda quel che prova che il suo discorso doveva essere inteso non letteralmente, ma in altro modo. Quale? Alla luce di Antigone, è chiaro: l'unica ubbidienza alle leggi ingiuste è volerne di migliori. Socrate muore osservando non la lettera, ma lo spirito della legge: muore in coerenza con la sua vita, durante la quale altro non aveva fatto che spingere i concittadini a riflettere sulle proprie convinzioni, sugli usi, dimodoché li mutassero migliorandoli - sublime calembour per cui non c'è modo migliore di rispettare la Legge se non evadendo le leggi e pagandone le conseguenze. Muore cosicché la propria vita porti a riflettere sull' ingiustizia della sua condanna ingiusta, e dunque sul funzionamento e sull'applicazione delle leggi - perché migliorino, e non si debba più trarre in biasimo un altro Socrate. Vuole che la sua morte sia di farmaco a chi resta, lo risvegli (lo arràzzi!!!) e lo rianimi in quell'Eros che, come spiega nel "Simposio", è vettore di conoscenza - particolarmente quand'è problematico, quando contrasta con "la natura", cioè col dato pacifico, con l'uso accetto (una coloritura che avrà, tra le altre, la riflessione di Pasolini).
Ecco dunque che Socrate e Antigone s'integrano: lei afferma un principio generale, lui lo specifica così da far chiarezza - è la missione del parresiaste, di colui che dice la verità francamente. (3) Si può disubbidire alle leggi, quando si testimonia con la propria opera (magari opera vivente) che le si vuole migliori - cioè che le si ubbidisce fino all'osso, nella sostanza e non nella forma. La pietà di Antigone è un avvertimento della perfettibilità delle istituzioni umane. La fine di Socrate ne è l'applicazione. Insieme, sono il "di più" degli utopisti: di quelli per cui, come per James Bond, "the world is not enough". (4) Di quelli che sanno - come il signorino Lorenzo Milani Comparetti - che i lampioni, le strade, i dopolavoro li san fare anche i monarchici. O i nazisti. E che dunque nessuna politica può essere solo buona amministrazione. Ricordava Fernando Birri che l'utopia è come l'orizzonte: se fai un passo avanti, quello si sposta di un passo. Se ne fai due, di due. Ecco a cosa servono, l'orizzonte e l'utopia: a camminare.
E la politica è questo cammino.
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1) Seguo da: F. Savater (curatore), Filosofia e sessualità, Tranchida, Milano 1992; P. Coppo, Etnopsichiatria, il Saggiatore, Milano 1996; G. Reale, Eros demone mediatore, Rizzoli, Milano 1997; A. Schopenhauer, Metafisica della sessualità, Mondadori, Milano 1993; P. Camporesi, La carne impassibile, il Saggiatore, Milano 1991(3); L. Steinberg, The sexuality of Christ in renaissance art and in modern oblivion, Pantheon/October Book, New York 1983;
2) Lo farà anche san Pietro, vedi L. Milani, L'obbedienza non è più una virtù, L. E. F., Firenze 1978, p. 54. Inutile dire che quanto scrivo in questa nota è glossa degli scritti milaniani, e ad essi va in gloria;
3) cfr. Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1996;
4) Ma una cifra simile la reincotriamo nei brani del gruppo rock Garbage (cfr. Guido Zingari, Ontologia del rifiuto, le nubi edizioni, Roma 2006, p. 111).
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