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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Marco Filabozzi

Sorrisi e lacrime

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Una specie di primo giorno di scuola.

Le sensazioni provate allora dovevano essere più o meno le stesse anche se stavolta non avrebbe trovato classi vivaci o maestri severi.

Si guardava attorno incrociando gli sguardi di camici verdi e bianchi, tutti indistintamente attratti dal tessuto bianco a pois multicolore che spuntava dalla sacca di tela e dalle enormi scarpe blu con la punta bombata appese per un laccio alla maniglia del borsone.

Che buffa coincidenza cominciare proprio da là.

Forse qualcuno l'avrebbe riconosciuto, ma ne dubitava: era cresciuto ormai e da quelle parti giravano parecchie facce nuove.

Una di quelle l'indirizzò verso lo spogliatoio dove gli altri si stavano già cambiando.

I lineamenti truccati si voltarono all'unisono quando entrò.

Dentro quei panni sgargianti parevano tutti a loro agio, lui invece era imbarazzato ancor prima di indossarli.

Ce ne avrebbe messo di tempo, pensò, per abituarsi ad andare in giro conciato così.

Le presentazioni furono rapide, perché l'entusiasmo che permeava l'ambiente spingeva a buttarsi subito nella mischia, ed in un baleno i clown sciamarono in corsia diretti da questo o quel paziente.

Quando lo specchio lo convinse della bontà del trucco anche lui infilò il naso rosso di plastica e squadrando la sua immagine al di sotto del parruccone arancione non la trovò poi così male.

Sorrise ed il pagliaccio nel riflesso rispose.



Con l'andatura imposta dalle goffe ed ingombranti calzature, che lo faceva somigliare ad un buffo arlecchino in parata militare, passò in rassegna le stanze indicate dalla direzione dell'ospedale ma in ognuna c'era già un Patch Adams alle prese con la sua missione.

Cosa l'avevano chiamato a fare, rimuginò, se di volontari ce n'erano abbastanza per tutti?

Poco male, ne avrebbe approfittato per sbirciare il lavoro degli altri rubando con gli occhi i segreti del mestiere.

Forse non subito però.

Le facce potevano essere cambiate da quelle parti ma la strada no, la strada era sempre la stessa, e l'arlecchino in parata marciò spedito spandendo smorfie lungo il cammino.

Cominciava a starci comodo nei panni del pagliaccio.



Cocci e schizzi di minestra arrivarono fino al corridoio.

- Non le mangio le vostre schifezze, specie questa minestra di merda! Quante volte ve lo devo dire che non la voglio!

- Sono stufa! Ogni volta la stessa storia con lei. Non ce la faccio più. Non vuole mangiare? Continui con le flebo.

L'infermiera, sull'orlo di una crisi di nervi, saettò fuori dalla stanza battendo in ritirata.

Il parruccone arancione fece capolino dalla soglia della camera e valutando l'aria grave dell'occupante si meravigliò che non fosse stato inserito nel programma di terapia del sorriso.

Una mancanza alla quale si poteva rimediare, si disse.

Del resto era là per quello, no?

La punta bombata delle scarpe entrò ben prima di lui e del suo:

- Buongiorno.

- Ma vaffanculo – fu il saluto dell'uomo nel letto mentre si tirava le lenzuola sulle spalle voltandosi dall'altra parte.

Non se l'aspettava.

L'offesa fu come uno schiaffo che lo lasciò stordito.

L'impasse di quel buffone parve innervosire ancora di più l'uomo sotto coperta:

- Sei ancora qui? Senti bello, ho firmato per rifiutare questa cazzata da circo, perciò vattene prima che ti faccia sbattere fuori a calci nel culo.

- Io...

- Tu cosa, eh? – incalzò l'uomo in furiosa emersione dalle lenzuola e poggiando poi tutto il peso della sua collera sulla spalliera del letto – Tu pure vorresti aiutarmi, no? Mi avete rotto le palle! Tutti! Lasciatemi stare. Lasciatemi crepare in pace! Non la faccio un'altra operazione per sentirmi dire, ancora, tra quattro o cinque mesi, che non è servita a niente e devono aprirmi un'altra volta. Basta! Avete sentito? – urlò più forte perché tutto l'ospedale lo sentisse – Basta!

Il pagliaccio ferito nell'anima si tolse il naso rosso: non erano sorrisi che servivano là dentro.

Là dentro serviva speranza perché quella che c'era stata ormai era sbiadita da un pezzo.

E finalmente capì.

Capì che le coincidenze non esistevano, soprattutto quando di volontari ce ne sono già abbastanza per tutti.

Il trucco prese a sciogliersi in lacrime grumose che colavano lungo la guancia trasformandola in un impiastro colorato di ricordi mescolati d'emozione.

E questo era l'uomo, nel letto, a non esserselo aspettato.

Ora, mentre s'avvicinava, l'andatura d'arlecchino non aveva nulla di allegro o ridicolo ed i pois del vestito sarebbero parsi tutti grigi a chi avrebbe saputo guardarli.

L'uomo seguì perplesso le movenze del pagliaccio triste.

Aveva tante cattiverie pronte per lui che, da così vicino, forse gli avrebbero fatto ancora più male, ma stranamente decise di tenerle per se.

Poggiato il naso rosso sul comodino, il pagliaccio triste s'accucciò piegando le ginocchia abbassandosi fino al livello del materasso.

Fece scorrere le dita lungo la facciata interna del montante del letto e la struttura di metallo sussurrò ai familiari polpastrelli che, come la strada, anche lui era sempre lo stesso.

Il viso impiastricciato s'addolcì un po'.

Non troppo.

Un caffè amaro a cui finalmente viene aggiunto un cucchiaino di zucchero ma a cui ne servirebbe almeno un altro per essere bevuto con gusto.

La mano del clown cercò e trovò quella dell'uomo e l'accompagnò nell'incontro con il montante di ferro.

I segni si rivelarono ai polpastrelli sconosciuti.

Il pagliaccio risollevò il parruccone arancione e si diresse alla porta.

Non uscì.

Si fermò ed il volto a cui mancava un solo cucchiaino di zuccherò fissò brevemente quello a cui ne mancavano molti di più.

- Li ho fatti io – parlò adagio – Una croce per ogni giorno passato in quel letto.

Poi uscì.

L'uomo sotto le lenzuola non seppe cosa dire perché di segni ce n'erano davvero tanti.



Quello stupido di un clown aveva dimenticato il naso rosso sul comodino.

Di certo sarebbe tornato a riprenderselo perché un pagliaccio senza il suo naso non è un pagliaccio.

L'uomo sotto le lenzuola se lo rigirò tra le dita.

La malinconica e rabbiosa voce interiore che ben conosceva, quella apparsa quando il vuoto della malattia l'aveva ingoiato derubandolo della sua esistenza, gli suggeriva di schiacciarlo.

Per quel sottile strato di plastica sarebbero bastati un pollice ed un indice neppure troppo impegnati. Eppure, inspiegabilmente, la voce stavolta pareva parlare da più lontano del solito, così lontano che quasi non riusciva a sentirla.

Non lo schiacciò.

Se lo infilò, invece, il naso rosso.

Perché?

Non lo sapeva ma se lo infilò lo stesso.

Accidenti se dava fastidio.

Arricciò il viso con delle smorfie per provare a calzarlo meglio, lo sistemò con le dita, ma sembrava che naso e fastidio fossero un duo inseparabile.

Se ne fece una ragione.

Estrasse dal cassetto del comodino lo specchio rettangolare e si guardò.

Si trovò stupido.

Ma si piacque.

Sorrise.

La voce malinconica e rabbiosa, oltraggiata da quelle labbra arcuate nella direzione sbagliata, gridò più feroce che mai scavalcando la distanza che l'aveva ridotta all'impotenza un attimo prima. Allora sì che l'uomo si sentì davvero stupido.

E non si piacque stavolta.

Mentre le labbra s'incurvavano nuovamente nella direzione giusta si sfilò il naso scagliandolo furiosamente lontano.

Il piccolo pomodoro di plastica rimbalzò sulla parete nascondendosi poi intimidito sotto l'armadietto degli oggetti personali.



Perché non tornava a prendersi il suo naso?

Diavolo, un pagliaccio senza il suo naso non è un pagliaccio!

Allora che aspettava?

Quel dannato clown aveva lanciato un sasso, un sorriso a tradimento infilato dentro al piccolo pomodoro di plastica, e poi via.

Facile così!

Tornasse a svelargli il segreto di come si può ridere quando provi solo sconforto, rassegnazione e rabbia.

Gli svelasse dove si può trovare speranza quando attorno non ce n'è.

- Sei come tutti gli altri!

Strillò, attirando l'attenzione della gente in corridoio che però, abituata com'era alle sue scenate, non se ne curò.

Stavolta però non era una della sue scenate perché il sasso l'aveva colpito in pieno e lui piangeva per il dolore, anche se di ferite non se ne vedevano.

- Fate promesse che poi non mantenete! M'avete illuso fin dall'inizio ed io invece sto morendo! Cazzo – un singhiozzo – sto morendo!

Si tirò le lenzuola sul viso rintanandolo sotto come quando il pagliaccio era entrato nella sua stanza, quel giorno.

Nell'appannamento degli occhi gonfi di lacrime s'insinuò un riflesso rosso.

Là, in fondo, sotto l'armadietto dei suoi vestiti, quelli che non avrebbe più indossato, il naso del pagliaccio triste lo fissava.

Non più intimidito però.

Comprensivo e sereno gli donò la sua consapevolezza, la stessa che aveva provato a trasmettergli con quel sorriso a tradimento prima che la vocina rabbiosa s'intromettesse.

Anche stavolta ci provò ma le lacrime l'avevano diluita abbastanza da trasformala solo in un gorgoglio incomprensibile.

L'uomo carezzò le croci incise nel letto.

Si asciugò il viso e riemerse dalle lenzuola premendo il tasto di chiamata per il personale.

L'infermiera arrivò subito ma temendo di finire di nuovo sull'orlo di una crisi di nervi mise prontamente le mani avanti:

- Senta, se ha intenzione di...

L'uomo la guardò bonariamente:

- Per favore, mi porterebbe un piatto di minestra?



Il letto è in ordine, perfettamente a posto, con la biancheria pulita.

Vuoto.

Le finestre aperte rinfrescano la stanza e l'armadietto spoglio con le stampelle ciondolanti.

Doveva succedere prima o poi.



Lo spogliatoio, come ogni mattina, è gonfio dell'entusiasmo che spinge i clown a buttarsi nella mischia più in fretta che possono.

In quell'ospedale come in tutti gli altri dov'è stato.

Sono lontani i tempi del primo giorno di scuola ed i panni del pagliaccio ormai sono come una seconda pelle per lui.

Ma come il primo giorno è l'ultimo ad uscire in corsia.

Gli piace truccarsi con calma, assaporare la freschezza del cerone colorato che spande sul viso e fissare quell'espressione strana, di pagliaccio senza pomodoro sul naso.

E' l'unico a non averlo ma va bene così.

Il naso rosso gli ricorda una rassegnazione ed una rabbia che vuole dimenticare per evitare il rischio di trasmetterla a qualche paziente anche solo di striscio.

Non l'ha sentito entrare ma quando si volta, ormai pronto sotto al parruccone arancione, se lo trova davanti.

Lo riconosce subito.

- Grazie – dice soltanto l'uomo.

- Non l'hanno lasciata crepare in pace? – risponde il viso al quale finalmente avevano aggiunto l'ultimo cucchiaino di zucchero che un tempo mancava.

- No. Non mi sono lasciato crepare in pace – sta un attimo zitto poi riprende – Ti ho odiato. Credevo che come tutti m'avessi promesso speranza e poi te la fossi portata via. Invece poi l'ho capito. Ho capito che la speranza non stava in quello che dicevi. Eri tu. Un sopravvissuto. Ed ho pensato che se da quella stanza ne era uscito uno poteva uscirne anche un altro. Forse non sarei morto comunque, forse ce l'avrei fatta lo stesso, ma tutto è stato più facile da quel giorno.

L'uomo mise una mano in tasca.

Quando la estrasse il pollice e l'indice reggevano il naso rosso, mostrato come una reliquia, poi lo poggiarono sul tavolo dello spogliatoio:

- Grazie, davvero. Grazie! – uscì prima di mettersi a piangere.

L'anima del pagliaccio non era mai stata così in sintonia con il trucco studiato per farlo sorridere sempre.

Prese il naso di plastica facendolo rimbalzare nel palmo, lo guardò, poi lo indossò ed uscirono insieme.

Perché un pagliaccio senza il suo naso non è un pagliaccio.







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