RACCONTI
Danilo Laccetti
Testuggine
Lui l'avrebbe chiamata così. Altro che i bei nomi di principi e ammiragli, l'isola che non c'era e poi ci fu e che oggi ancora non c'è e forse domani tornerà.
Lì, a nemmeno duecento braccia di mare una mattina t'appare e ti dici: cos'è? Galleggia? Affonda?
Segni della croce, fiumi di rosari, interrogazioni di vetuste quanto inutili mappe marine. Testa ciondoloni, sconforto, un po' di euforia in qualche altro. Tutti gobbi a compulsare i professoroni venuti da fuori, per trarsi d'impaccio, darci una ragione.
In mezzo a un mare che borbotta, sbuffa, ribolle, quel suo rugoso, diseguale dorso, strano coccio con la punta che pare, dicono i marinai, il capo ritto e vigile di una tartaruga. Un po' sconnesso il suolo, molle, chiazzato di terriccio più duro e caldissima sabbia. Proprio il guscio, il guscio di una tartaruga.
Presagio, nerissimo. Chissà quali malefizi, un'isola che spunta fuori dal mare. Eppure ricchezze, potrebbe darsi, sconosciute. Tutta questa foga di piantarci sopra una bandiera; nemmeno trovato un nome o cacciatolo fuori a fatica, eccoti stendardi, altisonanti carte bollate, diritti imperituri e infallibili possessi. I franzosi, quei miscredenti, è terra nostra. E anche voi, anglomanni, inglesini biondicci, alla larga. Sua Maestà Ferdinando II: Ferdinanda. Più poetico, qualcuno disse: Ferdinandea.
Lui, il mio folle amico, il mio più caro amico, vedeva ancora e soltanto quel dorso sconnesso, il profilo sghembo di un pezzaccio di terra e chissà cosa ci immaginava dentro che gli altri non potevano capire.
Per trovare riposo e conforto, così credevo, tutte le notti ci sbarcava sopra, quando aveva termine il vagabondaggio ozioso di pescatori e nobildonne con l'ombrellino, studentelli pruriginosi in cerca d'ispirazione. Calava la luce del sole che pareva sommergere l'isola, nasconderla una seconda volta. Nel buio e nel silenzio del mare. Lui era lì.
Giù al porto il giorno che facevamo festa, e che festa, a tutti i marinai in divisa bianchissimi che proprio da Palermo erano venuti e sopra una fregata lucida, tutta lucida e splendente, a noi ci pareva d'aver toccato il cielo e che il destino ci avesse baciato a tutti quanti. Lui impallidì. Aveva avvertito qualcosa. Qualcosa che doveva averlo ferito e in profondità.
Pensavamo noi altri che magari pure il re, proprio il re in persona, giacché era ormai notizia certa di non so che studiosi in arrivo da Napoli, anche la corte e il re sarebbero venuti. Non per niente era cosa quasi fatta; altrimenti che senso aveva che il banditore comandasse che nessuno, nessuno assolutamente poteva più avvicinarsi all'isola né sbarcarci sopra, per nessunissima ragione. Nessuno.
Non c'era verso di parlarci al mio amico, di convincerlo che quello che ci stava accadendo era davvero una gran fortuna, bisogna gioire. Stava pallido, consumato, quasi non toccasse cibo e acqua da giorni. Un'anima di Purgatorio al tramonto o la mattina prestissimo sulla punta del molo a guardare fisso verso quel collo storto di tartaruga. A disegnarne con le mani nell'aria i contorni.
Ognuno ha certe sue malinconie, passerà. Certune oscurità, un poco spigolose che non c'è verso di aprirle in nessuna maniera.
Nemmeno un mese era passato e venne il re.
Pieno di fiori dappertutto, tappeti, lenzuola alle finestre, corone agli angoli della chiesa, le barche tirate in secco con le cime in mano ai pescatori, vestiti per l'occasione di rosso e di blu. Il re e quelli della sua corte: che abiti, che gioielli, che colori. Dalla prua del reale vascello la benedizione del vescovo sulla gente, immersa in mezzo a nuvole e sciami di petali di rose gettati in mare, al passaggio del corteo e di tutte le altre barche. Una gioiosa fanfara venuta dal capoluogo riempiva l'aria di spensierati minuetti.
Ci piantarono una croce sull'isola, e una ghirlanda e pure una messa di ringraziamento alla Madonna. Barche e barchette dondolavano intorno pigre in mezzo a tutti quei petali che galleggiavano lucidi al sole di un primo pomeriggio un poco nuvoloso, ma caldo e sereno. Senza vento.
Così parve strano che proprio senza vento le onde iniziassero a gonfiarsi.
S'accavallavano una dopo l'altra, percuotendo le barche e facendo vibrare il pennone del vascello reale. La spiaggia e il molo venivano battuti da spruzzi minacciosi, mentre il sole con qualche fatica squarciava le nubi e toccava quel mare senza vento che si gonfiava.
Confuse al rumore della mareggiata si elevarono dalla piazzetta le prime grida. Chi correva verso casa le mani in testa e chi s'avviava verso le colline o si sbracciava per richiamare le barche, che a fatica remavano verso terra. Quando si vide il piccolo palco di legno, dove la banda aveva suonato, sgretolarsi da sé in un secondo, si capì che la terra anche, e non solo il mare, stava tremando.
Qualche barca s'andò a scontrare con gli scogli e qualche altra, più fortunata, fu tuffata sulla spiaggia con tutti quelli che ci stavano dentro a trarsi fuori dall'acqua, vicino alla riva, a forza di funi gettate, di corde che s'intrecciavano fra loro cui mani e braccia e schiene, mezze emerse dal mare, si avvinghiavano furiosamente. Il re e la sua corte s'arenarono a poca distanza dalla spiaggia, accasciandosi su un fianco, martoriati da sonori ceffoni d'acqua che certo non potevano ribaltarli, ma inzuppavano e di molto le loro eleganti vesti.
Intorno all'isola tutto un vapore denso e schizzi, spruzzi altissimi e tremare di quel collo storto, che pareva dire di no bonariamente, rifiutare qualcosa con gentile accondiscendenza.
Piangendo e bestemmiando, pieni di sabbia, i capelli appiccicati alle orecchie e le vesti zuppe, ci si chiamava, ricordando i nomi, scrutando impauriti le carene sfondate di molte barche alla deriva o sbattute sulla spiaggia. Allora la terra pareva lamentarsi di meno e proprio allora ci accorgemmo che era rimasta ancora in mezzo al mare una barca, una sola, disperata cavalcando le onde coi remi. Le volte che appariva sulla cima di un'onda, prima di sparire di nuovo, sembrava che ci fosse solo uno ai remi, anzi, uno solo era dentro la barca. Ma remava, era chiaro, in senso opposto alla riva.
Stremato in mezzo alle onde combatteva il mio amico per avvicinarsi all'isola in tutto quel ribollire. Si capovolse che mancavano pochi metri.
Tremava il collo della tartaruga come smarrito, balbettava, quasi una mano feroce dal fondo del mare lo smuovesse tutto. Finalmente, penetrato tra le nuvole, il sole l'illuminava tutta l'isola, bagnata da giganteschi sbuffi di mare e a vedersi sembrava brillare luminosa fra la penombra circostante, il buio pesante dell'orizzonte e le nuvole che rimanevano belle cariche di pioggia.
Un minuscolo, nervoso ragno lo vedemmo abbrancarsi, mani e piedi, fuori dall'acqua, alla costa spugnosa dell'isola. Più volte cadendo e rialzandosi riuscire infine a salire di qualche metro verso il collo sghembo con il mare tutto attorno che borbottando cresceva.
Il sole ferì per bene tutto il dorso di Ferdinandea. Lui era lì, aggrappato mani e piedi a un pezzo di quel collo con l'acqua del mare che gli ringhiava sui piedi. Quasi ormai arrivato sulla cima, la terra da noi aveva smesso di tremare, lenta verso il basso, verso il mare, che l'accoglieva, s'inabissò quel che restava della punta dell'isola.
Salutata da un rigurgito selvaggio di mare e da un prolungato bollore, tutta quanta scomparve.
Rimaneva una macchia argentea di mare disegnata dal sole, a galleggiare incerta.
Le onde carezzevoli sulla spiaggia ci rendevano i petali di rose, alquanto martoriati.
Danilo Laccetti
Insegnante di Italiano e Latino, collabora sin dalla fondazione con la Leone Editore, per la quale, fra le altre attività, cura la pubblicazione di tutti i classici della letteratura italiana. Nel 2009 esordisce con la Leone pubblicando il cortoromanzo ingannevole Trittico della Mala Creanza, seguito nel settembre del 2010 dal romanzo satirico Storie di Pocapena.
Lì, a nemmeno duecento braccia di mare una mattina t'appare e ti dici: cos'è? Galleggia? Affonda?
Segni della croce, fiumi di rosari, interrogazioni di vetuste quanto inutili mappe marine. Testa ciondoloni, sconforto, un po' di euforia in qualche altro. Tutti gobbi a compulsare i professoroni venuti da fuori, per trarsi d'impaccio, darci una ragione.
In mezzo a un mare che borbotta, sbuffa, ribolle, quel suo rugoso, diseguale dorso, strano coccio con la punta che pare, dicono i marinai, il capo ritto e vigile di una tartaruga. Un po' sconnesso il suolo, molle, chiazzato di terriccio più duro e caldissima sabbia. Proprio il guscio, il guscio di una tartaruga.
Presagio, nerissimo. Chissà quali malefizi, un'isola che spunta fuori dal mare. Eppure ricchezze, potrebbe darsi, sconosciute. Tutta questa foga di piantarci sopra una bandiera; nemmeno trovato un nome o cacciatolo fuori a fatica, eccoti stendardi, altisonanti carte bollate, diritti imperituri e infallibili possessi. I franzosi, quei miscredenti, è terra nostra. E anche voi, anglomanni, inglesini biondicci, alla larga. Sua Maestà Ferdinando II: Ferdinanda. Più poetico, qualcuno disse: Ferdinandea.
Lui, il mio folle amico, il mio più caro amico, vedeva ancora e soltanto quel dorso sconnesso, il profilo sghembo di un pezzaccio di terra e chissà cosa ci immaginava dentro che gli altri non potevano capire.
Per trovare riposo e conforto, così credevo, tutte le notti ci sbarcava sopra, quando aveva termine il vagabondaggio ozioso di pescatori e nobildonne con l'ombrellino, studentelli pruriginosi in cerca d'ispirazione. Calava la luce del sole che pareva sommergere l'isola, nasconderla una seconda volta. Nel buio e nel silenzio del mare. Lui era lì.
Giù al porto il giorno che facevamo festa, e che festa, a tutti i marinai in divisa bianchissimi che proprio da Palermo erano venuti e sopra una fregata lucida, tutta lucida e splendente, a noi ci pareva d'aver toccato il cielo e che il destino ci avesse baciato a tutti quanti. Lui impallidì. Aveva avvertito qualcosa. Qualcosa che doveva averlo ferito e in profondità.
Pensavamo noi altri che magari pure il re, proprio il re in persona, giacché era ormai notizia certa di non so che studiosi in arrivo da Napoli, anche la corte e il re sarebbero venuti. Non per niente era cosa quasi fatta; altrimenti che senso aveva che il banditore comandasse che nessuno, nessuno assolutamente poteva più avvicinarsi all'isola né sbarcarci sopra, per nessunissima ragione. Nessuno.
Non c'era verso di parlarci al mio amico, di convincerlo che quello che ci stava accadendo era davvero una gran fortuna, bisogna gioire. Stava pallido, consumato, quasi non toccasse cibo e acqua da giorni. Un'anima di Purgatorio al tramonto o la mattina prestissimo sulla punta del molo a guardare fisso verso quel collo storto di tartaruga. A disegnarne con le mani nell'aria i contorni.
Ognuno ha certe sue malinconie, passerà. Certune oscurità, un poco spigolose che non c'è verso di aprirle in nessuna maniera.
Nemmeno un mese era passato e venne il re.
Pieno di fiori dappertutto, tappeti, lenzuola alle finestre, corone agli angoli della chiesa, le barche tirate in secco con le cime in mano ai pescatori, vestiti per l'occasione di rosso e di blu. Il re e quelli della sua corte: che abiti, che gioielli, che colori. Dalla prua del reale vascello la benedizione del vescovo sulla gente, immersa in mezzo a nuvole e sciami di petali di rose gettati in mare, al passaggio del corteo e di tutte le altre barche. Una gioiosa fanfara venuta dal capoluogo riempiva l'aria di spensierati minuetti.
Ci piantarono una croce sull'isola, e una ghirlanda e pure una messa di ringraziamento alla Madonna. Barche e barchette dondolavano intorno pigre in mezzo a tutti quei petali che galleggiavano lucidi al sole di un primo pomeriggio un poco nuvoloso, ma caldo e sereno. Senza vento.
Così parve strano che proprio senza vento le onde iniziassero a gonfiarsi.
S'accavallavano una dopo l'altra, percuotendo le barche e facendo vibrare il pennone del vascello reale. La spiaggia e il molo venivano battuti da spruzzi minacciosi, mentre il sole con qualche fatica squarciava le nubi e toccava quel mare senza vento che si gonfiava.
Confuse al rumore della mareggiata si elevarono dalla piazzetta le prime grida. Chi correva verso casa le mani in testa e chi s'avviava verso le colline o si sbracciava per richiamare le barche, che a fatica remavano verso terra. Quando si vide il piccolo palco di legno, dove la banda aveva suonato, sgretolarsi da sé in un secondo, si capì che la terra anche, e non solo il mare, stava tremando.
Qualche barca s'andò a scontrare con gli scogli e qualche altra, più fortunata, fu tuffata sulla spiaggia con tutti quelli che ci stavano dentro a trarsi fuori dall'acqua, vicino alla riva, a forza di funi gettate, di corde che s'intrecciavano fra loro cui mani e braccia e schiene, mezze emerse dal mare, si avvinghiavano furiosamente. Il re e la sua corte s'arenarono a poca distanza dalla spiaggia, accasciandosi su un fianco, martoriati da sonori ceffoni d'acqua che certo non potevano ribaltarli, ma inzuppavano e di molto le loro eleganti vesti.
Intorno all'isola tutto un vapore denso e schizzi, spruzzi altissimi e tremare di quel collo storto, che pareva dire di no bonariamente, rifiutare qualcosa con gentile accondiscendenza.
Piangendo e bestemmiando, pieni di sabbia, i capelli appiccicati alle orecchie e le vesti zuppe, ci si chiamava, ricordando i nomi, scrutando impauriti le carene sfondate di molte barche alla deriva o sbattute sulla spiaggia. Allora la terra pareva lamentarsi di meno e proprio allora ci accorgemmo che era rimasta ancora in mezzo al mare una barca, una sola, disperata cavalcando le onde coi remi. Le volte che appariva sulla cima di un'onda, prima di sparire di nuovo, sembrava che ci fosse solo uno ai remi, anzi, uno solo era dentro la barca. Ma remava, era chiaro, in senso opposto alla riva.
Stremato in mezzo alle onde combatteva il mio amico per avvicinarsi all'isola in tutto quel ribollire. Si capovolse che mancavano pochi metri.
Tremava il collo della tartaruga come smarrito, balbettava, quasi una mano feroce dal fondo del mare lo smuovesse tutto. Finalmente, penetrato tra le nuvole, il sole l'illuminava tutta l'isola, bagnata da giganteschi sbuffi di mare e a vedersi sembrava brillare luminosa fra la penombra circostante, il buio pesante dell'orizzonte e le nuvole che rimanevano belle cariche di pioggia.
Un minuscolo, nervoso ragno lo vedemmo abbrancarsi, mani e piedi, fuori dall'acqua, alla costa spugnosa dell'isola. Più volte cadendo e rialzandosi riuscire infine a salire di qualche metro verso il collo sghembo con il mare tutto attorno che borbottando cresceva.
Il sole ferì per bene tutto il dorso di Ferdinandea. Lui era lì, aggrappato mani e piedi a un pezzo di quel collo con l'acqua del mare che gli ringhiava sui piedi. Quasi ormai arrivato sulla cima, la terra da noi aveva smesso di tremare, lenta verso il basso, verso il mare, che l'accoglieva, s'inabissò quel che restava della punta dell'isola.
Salutata da un rigurgito selvaggio di mare e da un prolungato bollore, tutta quanta scomparve.
Rimaneva una macchia argentea di mare disegnata dal sole, a galleggiare incerta.
Le onde carezzevoli sulla spiaggia ci rendevano i petali di rose, alquanto martoriati.
Danilo Laccetti
Insegnante di Italiano e Latino, collabora sin dalla fondazione con la Leone Editore, per la quale, fra le altre attività, cura la pubblicazione di tutti i classici della letteratura italiana. Nel 2009 esordisce con la Leone pubblicando il cortoromanzo ingannevole Trittico della Mala Creanza, seguito nel settembre del 2010 dal romanzo satirico Storie di Pocapena.
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