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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Maurizio Antonetti

Toilets

immagine
dedicato a Tycho Brahe (1546 -1601),

illustre astronomo danese prematuramente scomparso

per averla trattenuta troppo a lungo






"TOILET 60 M."

La scritta, in bianco su fondo nero, fa parte di un insieme di cinque cartelli orientati in ogni direzione, all'angolo fra Rådhuspladsen e lo Strøget. Le altre frecce indicano luoghi-cartolina, di sicura attrazione turistica. "Nyhavn", "Den Lille Havfrue", "Tivoli". Luoghi romantici, luoghi divertenti, luoghi da birra-con-gli-amici. Luoghi da portarci Paola. Se solo non se la fosse presa così tanto, per quella cazzata di Kaoshiung.

Okay, dacci un taglio, ripeto a me stesso stancamente. Sei venuto fino a Copenaghen per guadagnarti la pagnotta, al diavolo Paola e la Sirenetta.

Eppure, quel pensierino di rimediarci pane e companatico continua a ronzarmi nel cervello. Sono trascorsi tre mesi da quando ho accettato il servizio e già mi sembra di non aver concluso altro, nella vita. Un'intera esistenza sprecata a rincorrere Paola, nei cessi di quattro continenti.

Quando si dice una vita di merda!

Per non parlare del resto. La gente non ha idea di ciò che si nasconde dietro la porta del bagno: palloncini gocciolanti annodati alle maniglie e lampadine incrostate di sangue; pozzanghere di succhi gastrici in cui affiorano le olive indigerite dei Martini; aghi disposti in fila sul bordo del water come piccoli cosacchi sull'attenti. Che si tratti di un cesso di strada o di un resort a cinque stelle, non fa molta differenza. Se non che le sorprese, di solito, sono proporzionali al numero di stelle.



La toilet del cartello sta sotto una mucca Cowparade che sembra la tavolozza di Mirò. Non è uno di quei cessi chimici a metà strada fra una cabina telefonica e una campana per la raccolta dei rifiuti. E' un signor bagno. L'ingresso profuma di candeggina, disinfettante al limone, vaniglia. L'ultima essenza diffonde da un gruppo di orchidee, sistemate ad arte lungo il corridoio. Più che un vespasiano, ricorda una clinica privata.

Infilo la porta centrale, quella con la scritta "herrer" sotto una bombetta stilizzata. Delle altre due porte me ne sbatto alla grande: il contratto dice che devo occuparmi dei "servizi igienici maschili". I bagni frequentati da donne e disabili, a quanto pare, non interessano a nessuno.

L'interno è asettico, essenziale, vagamente allucinante per eccesso di quiete. In una parola, danese. Una saletta di quattro metri per due piastrellata in bianco-ghiaccio, con pavimento di una gradazione appena un po' più azzurra. Sui muri non c'è traccia di disegnini osceni o numeri di cellulare. E' da particolari come questi che si misura la distanza tra Milano e Copenaghen. Non dai 1.472 km di GoogleMap.

Alla mia destra si aprono tre gabinetti. A sinistra, dietro un lavandino immacolato, munito di distributore di sapone e pedalino per l'acqua, c'è l'angolo degli orinatoi. Sono ravvicinati e senza divisori, così splendenti da metterti voglia di pisciare. Non è una battuta, succede veramente. Alla lunga, a forza di frequentare cessi, tendi a reagire in modo compulsivo. Puoi finire come Tycho Brahe (lo scienziato che si fece scoppiare la vescica, pur di non recarsi in bagno); oppure cominci a marcare il territorio come un bastardo di strada. In genere reagisco nel secondo modo. Ma stavolta riesco a controllarmi.

Con rapidità professionale estraggo i tamponi dallo zaino e li strofino sulle superfici più toccate: uno sulla levetta per il sapone, un altro sulle maniglie, un altro ancora sul pulsante dell'asciugatoio elettrico. Lo scarico è regolato da una fotocellula, per cui il tampone riservato allo sciacquone non è necessario. Infilo gli altri in sacchettini numerati, e ripongo il tutto nella borsa-frigo, all'interno dello zaino. L'operazione richiede non più di tre minuti, come da protocollo. Entro due ore i campioni saranno affidati a un corriere, che li consegnerà al più vicino centro analisi convenzionato. Tra settantadue ore troverò i risultati sulla mia casella di posta elettronica, con i rispettivi codici. Poi, dopo averli tradotti in un italiano comprensibile, li girerò all'indirizzo di Paola, che a sua volta deciderà se e come farne uso, nel suo reportage. La stessa cosa vale per le foto, anche se lei, di foto, non capisce un cazzo. E' una questione di luce, di occhio per i particolari. E Paola proprio non ne ha. A me, invece, le inquadrature giuste vengono da sole. Come in questo caso: senza bisogno di pensarci, so già che basterà piazzarsi nell'angolo fra i cessi e i lavandini e lavorare di grandangolo. E' un dono di natura, lo so e basta. Quello che non so, è da dove sia sbucato il tizio alle mie spalle, con la mano sullo zip dei pantaloni. Faccio appena in tempo a nascondere la compatta in tasca. Il tizio mi rivolge un'occhiata infastidita e si accosta all'orinatoio più distante. Un inutile senso di pudore, così poco scandinavo. Probabilmente è un italiano. Forse uno spagnolo. Mediterraneo, tracagnotto, sulla cinquantina, quasi calvo. Divisa turistica classica, con tutti gli ammennicoli: giacca sportiva, macchina fotografica a tracolla, guida Lonely Planet affacciata a una delle tasche laterali. Del titolo riesco a leggere soltanto le lettere finali, "...MARCA", non sufficienti a sciogliere il dubbio sulla nazionalità. Per arrivare al livello dell'orinatoio, destinato a utenti un po' più alti della media italiana (o spagnola), il turista è costretto a sollevarsi sulla punta delle scarpe. Lancia un'occhiata furtiva dietro la spalla sinistra, armeggia un po' con le mani (ostacolato dalle oscillazioni della reflex che cozza ripetutamente con il cellulare appeso al collo), e finalmente si rilassa.

Un'occasione troppo ghiotta per non approfittarne.

Mi piazzo a sinistra del tizio, avendo cura di sfiorargli il braccio con un gomito, e comincio a farla insieme a lui. L'uomo si sposta decisamente a destra, allontanandosi il più possibile da me. Mentre svuoto la vescica, faccio in modo di tenere lo sguardo fisso sul suo uccello. Il tizio, allora, se lo rinfila in fretta e furia nella patta, col rischio di pisciarsi addosso. Finisce che se la da a gambe, sulle note del motivetto mondiale di "Seven Nation Army", sparate dal suo cellulare.

Italiano, senza dubbio. Probabilmente tifoso della Roma.

Prima che sbatta la porta, lo sento ansimare un inutile "Pronto!". Poi la sua voce si disperde nel traffico di Copenaghen.



La telefonata di Paola, sei mesi prima, mi aveva colto in un brutto momento. Terzo anno fuori corso in biotecnologie, tesi più di là che di qua, relatore dato per disperso.

A stento pagavo l'affitto dispensando birra fino a tardi al "Drugo", un barrettino così laido, che a chiamarlo pub ci devi mettere del tuo. A finanziare il vizio delle foto, invece, ci pensavano i sacramenti. Matrimoni, soprattutto. Più alcuni "servizietti" extra che piazzavo a prezzi dignitosi sul mio sito porno di fiducia.

Sfortunatamente, al di qua dell'obiettivo, di fiche neanche l'ombra. Non sfioravo un pelo femminile dal giorno in cui la gatta dei vicini aveva deciso di attraversare la statale. Risultato: una preoccupante tendenza a prendermi la sbornia triste. E la birra del Drugo è la peggiore di tutta la città.

Vuoi per mancanza di pelo, vuoi per mancanza di soldi, quando arrivò la chiamata di Paola pensai che, dopotutto, esisteva anche un dio degli sfigati.

Paola non ha cancellato il mio numero. Paola mi ha chiamato!

Ragazzi, ero così eccitato che, di tutta la telefonata, realizzai solo che mi stava offrendo la possibilità di viaggiare gratis insieme a lei.

«Ne parliamo stasera davanti a una birra, ti va?» aveva concluso, con quella sua vocetta da call-center, per non dire di peggio.

«Mi va eccome. Quanto alla birra, ti ci posso riempire una Jacuzzi," dissi "se ti accontenti di quella del Drugo»

«Ci sto».

Ci sta. Paola ha detto che ci sta, e l'ha detto a me!

Forse non intendeva proprio dire che "ci stava", in quel senso lì, ma era pur sempre un inizio.



Quella sera, mentre ascoltavo Paola, mi resi conto per la prima volta che a ventotto anni si può essere felici anche senza ubriacarsi.

La sua proposta era abbastanza folle da scardinare gli assi cartesiani della mia esistenza. Paola mi conosceva troppo bene, per non far leva su certe mie inclinazioni personali. Si presentò al Drugo poco dopo mezzanotte, attopatissima, e con l'artiglieria pericolosamente in vista. Tanto per chiarire che la sua era un'offerta che non si poteva rifiutare.

Aveva in mente una serie di articoli sulle tipologie e le condizioni igieniche dei bagni pubblici nel mondo.

La rivista per cui lavora (un mensile in carta patinata pieno di pubblicità, rivolto a un pubblico di palestrati danarosi che considerano la fitness uno status symbol) era disposta a pagarle il servizio profumatamente. Asia, Africa, Oceania e, naturalmente, Europa, i continenti in cui scegliere le destinazioni. Teatri, bar, caserme, discoteche, spogliatoi e tutti i pubblici esercizi dotati di bagno gli obiettivi da monitorare. L'idea di fondo è che i cessi pubblici possono essere considerati perfetti indicatori del grado di civiltà di un popolo.

Geniale.

Quanto alla suddivisione del lavoro, niente di più semplice: a Paola la scelta delle destinazioni, le interviste e la stesura degli articoli; a me la documentazione fotografica e le analisi ambientali. Il resto (vitto, alloggio, laboratori, corrieri, mezzi di trasporto) era a carico dell'editore.

Quando le chiesi quanti sacchi ci spettavano, Paola restò un po' nel vago. Mi assicurò che la rivista tirava alla grande, e se avessimo fatto un buon lavoro, le cifre le avremmo stabilite noi. Senza contare lo sballo di un intero anno in giro per il mondo, lei ed io da soli. Casualmente, decise di sciogliersi i capelli proprio in quel momento, piegando la testa di lato come se volesse farsi mordere sul collo.



Sette giorni dopo, la birra rancida del Drugo era un fumoso ricordo. Paola ed io stavamo volando alla volta del Nepal, il "Regno degli Dei". Prima tappa del nostro grandioso reportage sui luoghi del bisogno, e inizio di una nuova vita.



In realtà, dopo appena due notti a Katmandu, la nuova vita faceva già rimpiangere la vecchia.

Il budget risultò incredibilmente limitato. E questo perché diaria ed indennizzi spettavano soltanto a Paola. Il contratto, come lei stessa finì per ammettere, copriva le spese per un solo giornalista. In pratica, si era assicurata i miei servizi in subappalto. E sebbene continuasse a ripetere che potevamo tranquillamente starci dentro in due, tolte le spese di viaggio, ne restava appena di che sopravvivere. Pasti a base di lenticchie e "momo" (una specie di raviolo cinese cotto al vapore, ma più insipido), alloggi economici in guest-houses al limite della decenza, vita notturna regolarmente fuori budget. L'unico lusso al quale Paola non sapeva rinunciare era quello di dormire in stanze separate. Guarda caso, il solo di cui avrei fatto volentieri a meno.

Ma le sorprese non erano finite. In un quartiere periferico di Bakhtapur avevo adocchiato un gruppo di ragazze seminude intente a lavarsi in una fontana pubblica, stupenda quasi quanto i loro corpi. Era una scena incredibilmente naturale. Potevano saltarne fuori due o tre scatti da far invidia al National Geographic.

Fu allora che Paola mi informò che i bagni da fotografare erano quelli riservati agli uomini. Un dettaglio di cui ero stato prudentemente tenuto all'oscuro, ma che poteva spiegare molte cose. Prima fra tutte la ragione per cui lei aveva bisogno di me.

Ancora m'interrogo sul perché l'altra metà del cielo non sia stata presa in considerazione. Forse è a causa del pubblico maschile a cui è destinata la rivista. O forse no, e in tal caso preferisco non sapere. L'unica certezza è che i cessi pubblici degli uomini, a Bakhtapur, sono luoghi tutt'altro che spirituali.



Di città in villaggio, di nazione in continente, lo schifo diventò presto una routine. Almeno per quanto riguarda l'Asia, l'Oceania e buona parte dell'Europa, da Copenaghen in giù. L' Africa dobbiamo ancora farcela, ma qualcosa mi dice che non sarà un'esperienza esaltante.

A Kakarbhitta, nel Terai orientale, l'unico accessorio per l'igiene è un secchio, generalmente vuoto. Il resto è appannaggio della mano sinistra (che, non a caso, è ritenuto sconveniente usare per nutrirsi o stringere amicizia).

Nel cesso alla turca di una gelateria, a Phu-Tho, c'era così tanta merda da poterci asfaltare un'autostrada fino a Hanoi.

Alla stazione di Firenze Santa Maria Novella ho dovuto sborsare un Euro per entrare, e molti di più per uscire, dal momento che mi hanno accusato di violazione della privacy (contraddizioni della video-sorveglianza).

In un villaggio vicino a Qandahar, i bagni neppure ci sono. Gli uomini defecano per strada, ed è lì che ho dovuto strofinare i miei tamponi. Vi risparmio i risultati delle analisi.

A Queenstown, Nuova Zelanda, c'è un albergo rispettabilissimo in cui sei costretto a svuotarti la vescica davanti a ragazze sorridenti che ti fissano da poster a grandezza naturale. Ne hanno sistemata una dietro ogni orinatoio. La mia era una biondina niente male, munita di un metro da sarto per misurarti l'uccello.

A Berlino, invece, c'è una discoteca dove puoi pisciare contro una parete azzurra, sulla quale scorre acqua in continuazione. E' un po' come farla dentro una cascata, ma con meno spruzzi. Peccato che sul pavimento ci siano tanti profilattici da darti l'impressione di pattinare sullo sperma.



Giorno dopo giorno, cesso dopo cesso, Paola non si lamentava mai. Almeno fino a quando ho potuto avere sue notizie.

Mentre io ci davo dentro col lavoro sporco (nel senso orrendo del termine), lei si piazzava all'esterno e, microfono alla mano, dispensava sorrisi a chiunque facesse uso dei servizi.

Be', non proprio a "chiunque". Di solito intervistava giovanotti fra i 16 e i 35 anni, preferibilmente atletici e dall'aria disinvolta. Per permettere al suo pubblico di farsi dei sani modelli culturali, sosteneva. In realtà, i modelli se li faceva lei, e in un senso del tutto diverso. A meno che, la notte, non trascorresse ore a saltare sul letto, con la tele sintonizzata sul canale porno.

Ero così seccato di addormentarmi contando i suoi orgasmi al posto delle pecorelle, che una sera, a Kaoshiung, mi rifiutai di accettare la camera accanto alla sua. O mi invitava alla festa, oppure mi sarei cercato un altro albergo.

Per farsi perdonare, prenotò un tavolo nel ristorante più esclusivo della zona porto, lasciandomi intendere che la serata non finiva lì. Il nome suonava familiare, ma non ricordavo il motivo. Credevo che fosse per la qualità del pesce. Ma, ovviamente, mi sbagliavo.

Si trattava di uno di quei locali a tema, dove ogni cosa ha la forma di un cesso. Toilet-restaurant, li chiamano. Ti siedi sulla tua tazza del water, e ti gusti il pollo al curry servito in un vaso da notte. I tavoli riservati alle coppiette sono dei vecchi lavandini, sormontati da lastre di vetro. Per gruppi più numerosi, hanno anche le vasche da bagno.

Grandioso. Una scelta perfetta, per chi ha trascorso gli ultimi tre mesi a ispezionare gabinetti. Per poco non mi mettevo a strofinare i tamponi sui piatti.

Paola, al contrario, aveva l'aria di sentirsi incredibilmente a proprio agio. Rideva in continuazione. Ma piuttosto che dalle bizzarrie del ristorante, le sue risate scaturivano dal guardare me. Più mi guardava, più rideva. Più lei rideva, più io m'innervosivo.

Quando arrivò il gelato, a forma di stronzo ed esattamente dello stesso colore, dovetti cercarmi un bagno vero per andare a vomitare. E quasi mi aspettavo di trovarci una tavola imbandita. Come in un film di Luis Buñuel.

A pensarci adesso, mi rendo conto che Paola stava solo cercando di stemperare la tensione. Non sarà stata una scelta romantica, ma almeno poteva riuscire divertente. Invece, come al solito, ho finito per rovinare tutto. Sono fatto così, non posso farci niente. Se m'innervosisco, bevo. E se bevo divento nervoso. Soprattutto quando la birra mi viene servita in un pitale.

Al momento di scappare in bagno, ero fuori di me. Tanto da sbagliare porta e finire nel reparto donne. Impegnato com'ero a centrifugarmi lo stomaco, non mi ero neppure reso conto della differenza. Né avevo notato le ragazze. Un attimo prima non c'erano e, subito dopo, la stanza echeggiava dei loro gridolini alcolici.

Dischiusi appena la porta, incerto se cacciarle via (credevo ancora di stare nel cesso degli uomini), oppure invitarle ad entrare. Ma sembravano cavarsela benissimo anche senza di me.

Erano in due, occhi a mandorla affogati nel mascara e caschetto viola con extentions rosse e gialle. Indosso avevano solo pelle nera e borchie, ma forse c'era più metallo sulle parti esposte, visto il gran spolvero di piercing. Si stavano dando da fare con la lingua, e non scherzavano neanche con le mani. A giudicare da come barcollavano, dovevano avere in corpo un bel po' di schifezze. Però si divertivano, questo è poco ma sicuro. Avvinghiate come due lucertole, s'infilarono nel bagno accanto al mio e i mugolii raddoppiarono d'intensità. Di lì a poco fu un autentico concerto per organi caldi.

Sebbene avessi la mente annebbiata dall'alcol, l'istinto del fotografo riuscì a prevalere anche in quella circostanza.

"Che cos'è il genio?" recitai mentalmente, in omaggio a Monicelli. "Fantasia, intuizione, colpo d'occhio e rapidità di esecuzione".

Il colpo d'occhio fu che le pareti fra una cabina e l'altra finivano a due centimetri dal pavimento. Quanto al resto, mi limitai a impostare l'ultra-compatta in modalità filmato e a spingerla di là. Videoclip del genere sono molto ricercati. Ci si può rimediare un bel gruzzolo, più che a spazzolare cessi per quella dannata rivista. Rimpiangevo solo di non potermi gustare la scena in diretta.

Dopo che le ragazze si furono sfogate, mi chinai per ritirare il laccetto della fotocamera. Ero ansioso di valutare se avessi fatto buona pesca. Mentre cercavo di agganciarla, tuttavia, arrivò un'altra donna che non vedeva l'ora di calarsi le mutande sopra il mio obiettivo.

Cazzo! Non sapevo neppure come fosse fatta. Poteva essere una vecchia come una donna incinta, o magari era solo una bambina. In ogni caso, mi dissi, perché non sfruttare l'occasione fino in fondo? Calcolai che avevo memoria sufficiente per una buona mezz'ora di riprese, e fra i clienti del mio sito porno ci sono pervertiti d'ogni genere. Pronti a sborsare una fortuna per ogni goccia d'intimità rubata all'altro sesso. Specie se con gli occhi a mandorla.

Quel puzzolente cubicolo non era una toilette, era una miniera d'oro.

Dovevo soltanto aspettare.



Trentacinque minuti più tardi feci ritorno al "lavandino", molto più allegro di quando l'avevo lasciato. Ad occhio e croce l'ultima mezz'ora era stata la più redditizia di tutta la mia vita.

L'umore di Paola, al contrario, non ci aveva guadagnato.

«Si può sapere perché ci hai messo tanto?» mi aggredì, agitando le braccia come uno di quei pupazzoni gonfiabili che sventolano sopra le stazioni di servizio. «Credevo che fossi svenuto nel cesso. Ti ho cercato dappertutto, ero sul punto di dare l'allarme!»

«Intestino pigro» commentai.

In taxi non parlammo molto. Ma il fatto che Paola se la fosse presa tanto a cuore, lasciava ben sperare per la notte.

Vuoi vedere che questo è il mio giorno fortunato? pensai, mentre la riaccompagnavo in camera.

Il resto fu perfino troppo facile: una bottiglia di champagne dal frigo-bar, una rinfrescatina in bagno, e un letto enorme che aspettava solo di essere scaldato. Tutto come da copione.

O quasi.

Quando uscii dalla doccia, sorpresi Paola seduta al tavolo, con la testa stretta fra le mani. Invece di aspettarmi buona buona sotto le lenzuola, si era messa a curiosare nella mia scheda fotografica.

«Vuoi spiegarmi che cazzo significa?» gridò, impugnando la fotocamera come una bomba a mano.

«Quello che riprendo dopo l'orario di lavoro sono affari miei!»

«Ah, sì? Che strano... avrei giurato che questa, invece, fosse roba mia!» mi sbatté in faccia un videoclip con lei che si abbassava il perizoma, inquadrata dal basso.

Occazzo, al ristorante era andata in bagno pure Paola!

Strappò via la scheda dalla digitale e la spezzò in due senza battere ciglio.

«Io... giuro che non avevo idea di chi...» balbettai, sentendomi come uno stronzo nello scarico del water.

«Sei soltanto un povero imbecille!»

Mi spintonò fuori dalla stanza prima che riuscissi a infilarmi pantaloni. Mentre cercavo di arrangiarmi con l'asciugamano, la sentii aprire di nuovo la porta. Ma solo per il tempo necessario a restituirmi la fedele ultra-compatta. Dritta in mezzo agli occhi.

Il mattino seguente, sotto la porta trovai una busta anonima. Dentro c'era un biglietto aereo per la Nuova Zelanda, un fax con la prenotazione di una stanza singola a Queenstown, e una lista di bagni pubblici da fare.

Da quella maledetta sera, a Kaoshiung, è così che funzionano le cose.



Sono trascorsi tre mesi, due continenti e un numero di cessi tendente a infinito.

Da quando il tifoso della Roma se n'è andato, sono nuovamente solo, in questo bagno dal profumo di orchidea. Sto fissando la ceramica dell'orinatoio, con l'uccello in mano. L'interno è bianco, modellato in modo insolito. Due rigonfiamenti ai lati e una fessura al centro, in cui defluisce l'urina. Sul lato destro, vicino alla fessura, c'è disegnata una mosca. Ne avevo già visto uno simile a Schipol, l'aeroporto di Amsterdam. Pare che sia un espediente psicologico per indurre gli utenti a centrare il bersaglio.

Mi chiedo se funzioni anche con gli animalisti. Probabilmente sì. C'è un grande spreco di cervelli, intorno a queste cose. E di denaro.

Alla fine decido di spararci sopra un paio di scatti. Chissà che un po' di quel denaro non finisca anche nelle mie tasche. Nelle foto, scattate dall'alto verso il basso, l'orinatoio ha proprio la forma di un sedere. Un bel culo bianco di donna, con una mosca posata sulla chiappa destra. In una delle inquadrature si riconosce la punta del mio glande, un po' sfuocata. Forse riesco a piazzarla sul mio sito di fiducia.

Da fuori giunge un rumore di passi affrettati, risate, frammenti di conversazione in una lingua che sembra una mitragliatrice. Un attimo dopo, il bagno viene invaso da un gruppetto di ragazzini giapponesi, armati di gameboy. Sono talmente assorbiti dal giochino che neppure mi vedono.

Potrebbero ridere di me, che guardo le foto del mio uccello sopra il cesso. Invece no, ridono e basta. Cedo loro il posto volentieri, e mi allontano il più in fretta possibile. Uscendo, mi domando come faranno a centrare la mosca, già troppo alta perfino per un italiano adulto.

Mentre aspetto il bus, ne approfitto per dare una ripassata all'agenda di lavoro. Prossima tappa: castello di Rosenborg Slot. Residenza estiva di Cristiano IV e fulgido esempio del rinascimento olandese a Copenaghen. Una meta irrinunciabile, per il turista. Solo un altro cesso della lista, per me.

Forse Paola ha deciso di invertire l'ordine dei campionamenti.

In questo stesso istante, magari, sta uscendo dai bagni del museo di Erotika per dirigersi, anche lei, verso il castello. Oppure scenderà dal bus un attimo prima che io salga, e non lo saprò mai.







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