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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Fabrizio Ferretti

Trasparenze

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Sono io che ti faccio

la serenata: fammi entrare, fammi entrare...




Alceo



Le mie due sorelle non traspaiono. Hanno spalle larghe come il segmento esterno orizzontale delle vecchie piste playmobil. Ed una monumentalità che non sfiata nemmeno nelle pause tra un respiro e l'altro.

Una, bionda un po' stopposa, con gli occhi obliqui ed un sorriso accattivante, mi dice che non ne può più del marito, s'augura che un terremoto lo possa trascinare nelle viscere della terra, e che al divorzio preferirebbe un altro figlio.

L'altra, castana con riflessi ramati, che coltiva struzzi per far milioni a palate, sfinita da una dieta liquida e senza sale, al divorzio preferirebbe la solitudine più assoluta, magari in compagnia di un vecchio cavallo ormai non più avvezzo alle corse.

- Mi sono innamorato. – Dico loro.

Sorridono come due acquasantiere. E parlano in stereofonia.

- Dài, non fare come i ragazzi. Loro si innamorano... non puoi tu.



La prima volta che l'ho visto indossavo una maglietta grigia che m'attillava il petto e il ventre. Mi sentivo pronto nel caso in cui alla lucentezza degli occhi avesse preferito la matematica dello sguardo.

Così fu, perché non mi tolse di dosso nemmeno le mani, che giocavano in aria anche un pochino languide, per posarsi senza vento sulle spalle e sui fianchi.

Roma era il solito frastuono, appena smorzato da un caldo che decimava la gente per le strade. Trentatre, forse trentacinque gradi, che trasformavano i volti in saline di dolore, in rigagnoli maleodoranti, un miliardesimo del Nilo, ma non per questo meno limacciosi.

Lui mi colpì, davvero, ma non aggiungerei metafore. So solo che cominciai a trasparire.



Carola non traspare, ormai è invisibile. A cena m'ha rivelato la perfezione della sua anatomia e l'inquietudine della sua passione.

Il marito, oltre ogni misura e peso, s'aggrappa ad un'idea del matrimonio che ormai è muffa.

- Le ho detto che se vuole, può andare via... io non la trattengo, ma le bimbe sono mie.

Carola ingoia saliva: la vedo che lentamente scivola lungo l'esofago, anch'esso trasparente.

- Ma in fondo non chiedo nulla, un po' di tranquillità, un marito avrà anche il diritto alla pace... ma se vuole sono disposto a concederle il divorzio, sono disposto a concederle tutto... ma le bimbe sono mie.

Le bimbe non ci sono, ma spezzano il cuore lo stesso, mentre il cibo, a secondo di chi lo mangia assume colori e sfumature diverse. In Carola s'ingrigisce appena finisce nello stomaco, come insetti spiaccicati sul parabrezza delle auto.

M'alzo dalla sedia e cerco di pontificare, di esporre le mie ragioni, che non lo saranno mai, perché non ne ho mai abbastanza per nessuno.

- L'altra sera m'ha detto che stava cercando casa – aggiunge l'uomo con un sorriso appena accennato – bene, sono contenta per te, ma non sai che con lo stipendio che hai farai fatica anche a mangiare?

Carola è ora davanti a me, con la colonna vertebrale esposta come panni sporchi. Ha un leggerissimo accenno di scoliosi, ma sottile come un filo soffiato di vetro.



Loro dicono che non posso, eppure sono innamorato. Per un po' ho creduto che fosse il rimasticamento di luoghi comuni, o le ossessioni di chi si sente perseguitato dal destino. Invece era solo paura, che dichiarai subito al nostro secondo incontro.

- Non voglio innamorarmi di te.

- No, non farlo. – Si limitò a dire lui sorridendo con sicurezza.

Ora sono certo dei miei limiti e di una leggera fluorescenza sul petto che ogni giorno s'allarga e che si illumina al tramonto quando le cose invece scolorano, ingiallendosi e imputrescendosi.

Mi guardo le mani: così faceva mio nonno prima di morire, perché sull'azzurro delle vene che contava la sua sopravvivenza. L'inizio di un bluore a macchia d'olio significava la morte.

Non so cos'abbiano le mie mani, se devastate da colori innaturali o dalla solita grana a cui sono abituato perché sono sempre le mie e sempre sotto gli occhi, ma in attesa di una trasformazione, ne verifico la resistenza, contraendole.

Ecco allora che il pallore delle nocche si fa più cristallino: un segno tutt'altro che ferale.

Poi gioco con lo specchio della stanza.

Così mi sorprendono le mie sorelle, convinte ancora che chi soffre d'amore lo fa perché gli anni sono ancora scontati, come nei magazzini del popolo.

- Il telefono.

- Chi è?

- Un'amica.

E' Carola, vuole un consulto, un freno ai suoi desideri. L'ho verificato anch'io, chiama un amico o un'amica e il tempo sgrava. Mi dice che ha bisogno di vedermi per riappropriarsi di un corpo, perché gli altri vedono solo vetro o una cristalleria di riporto.

- E quando?

- Anche subito se vuoi.

Voglio, ma chissà perché alzo il bavero della camicia per nascondere la fluorescenza del petto e intasco le mani.



Non so come si senta un ballerino circondato da imitatori di stagione, o un cosmonauta, per eccesso, a riparare un guasto nell'immensità del cosmo, ma quando spasimo m'accorgo dello spazio che manca. Come se lo tagliassero tutt'intorno, lungo i bordi di chissà che cosa, perché non offro appigli.

- Mi piacciono le date, le ricorrenze... - dico.

- Perché?

- Non lo so: scandire il tempo è un male, ma piuttosto che ignorarlo.

M'abbraccia: lo fa ogni volta in maniera diversa. Ne approfitto per togliergli la camicia. Gli occhi svirgolano, impazziti come palle da biliardo. Cercano una fluorescenza che non c'è. Nemmeno un modesto pallore. La pelle è invece abbronzata, integra e sana.

Sorrido perché il profumo che ha mi restituisce i primi attimi, quando ancora potevo affascinarmi senza piegarmi.

S'accorge di qualcosa.

- Che c'è?

- Niente.

- Sembri cercare qualcosa...

Tento il bluff e cambio argomento.

- Una mia amica è diventata trasparente.

- Come trasparente?

- Traspare... è invisibile. Riesco a guardarle il cuore che pulsa.

- E' questo che cercavi?

Gli accarezzo il petto, mentre fermo l'indice sul costato.

- Lo sento lo stesso, cosa credi?







Carola ha i capelli raccolti in uno chignon che sembra una pigna dorata. Ha una gonna lunga che fatica a nascondere le caviglie, ma la scarpa estiva lascia scoperto un collo del piede che è esattamente quello che dovrebbe essere: un malleolo biancastro.

- Ho deciso – mi fa.

- Cioè?

- Lo lascio.

- E le bambine?

Qui non regge e lo sapevo. Ma non potevo nasconderle quello che in realtà era l'unico ostacolo alla sua fuga.

Cerco di guardarla attraverso i vestiti, come se il paesaggio sopra sotto e ai lati della sua figura dovesse non bastare. Ma le cose sono sempre lì. Carola sembra non accorgersene: io m'accorgo della meteorologia come fosse rumore. Dirigo lo sguardo ogni volta che un vocio o un refolo di vento mi strania la testa.

- E dove vai?

- Con l'altro no?

- Tutto deciso?

- E me lo chiedi ancora? Sono quattro anni che va avanti questa storia.

- Potevi pensarci prima...

- E le bimbe ?

Tanto il discorso è sempre quello. Per non piangere Carola pesta i piedi. Il rumore mi distrae, ancora più del solito vociare o del sole che picchia, perché siamo ancora in estate.

- E le bimbe dove andranno?

- Rimarranno con lui... è questo che voleva.

Nel dirlo s'appoggia a me. Non so se è una richiesta d'aiuto o una perdita d'equilibrio. Ma il pianto sulla spalla non è una finta, né uno scherzo. Quando rialza il volto le orbite degli occhi sono come un piccolo lago artificiale.

- Cos'hai qui? – Mi fa.

- Qui dove?

- Sotto il collo.

M'accorgo che la camicia è sbottonata, che rivela l'alone trasparente.

- Una macchia.

- Una macchia?

- Sì, domani andrò dal dermatologo.

Non l'ho mai vista ridere così. Ma è brutta perché le labbra ormai rivelano quel che c'è sotto: il corpo della mandibola e la dentatura che ormai è una tastiera scheletrica.





E' più basso di me, ma la cosa non mi disturba, anzi. Ma ha occhi a iosa, come se le ceste degli incantatori fossero piene di sguardi da vendere. Farebbe soldi a palate ad incantare ladri e turisti.

- E la tua amica?

- A quest'ora dovrebbe essere andata via.

- Parlavo della sua vita... o della sua trasparenza.

- Ormai è uno scheletro.

Non posso nascondergli l'alone perché sono nudo davanti a lui. Sembra non accorgersene, oppure fa finta di niente, ma con un dito all'improvviso lo attraversa.

- Lo senti come batte il cuore? – Mi fa.

- Beh, è facile ascoltarlo.

- Lo vedo pure... non era così anche per la tua amica?

Respiro a fatica e le parole non escono. Faccio di sì con la testa.

- E' bello vederti così scoperto.

Lui è ancora vestito: un pantalone kaki e una camicia a quadri. Una sorta di divisa militare. Su cui spicca la qualità dei capelli. Ma non mi piace insistere sui dettagli: lo trasformano in un articolo da fiera, in uno scoop scientifico. Mi fermo appena all'altezza del naso perché oltre dovrei svestirlo.

- Ma per te è tutto normale? – Chiedo.

- Cosa?

- Questo qui.

E anch'io attraverso l'alone.

Ma lui con le mani va ancora più giù. La trasparenza che mi mangia sembra incredibilmente seguirlo. Come un cane. Vorrei vedere se le sue mani all'improvviso gettassero un bastone. Chi lo rincorrerebbe?

Sulle gambe la muscolatura ora è rossastra.

- Mi piace attraversarti... una sensazione che non ho mai provato.

- E il colore?

- Quale?

- Quello della mia carne.

Mi spinge sul letto. In piedi procede a svestirsi. Ne approfitto per microfotografarlo: niente sulle braccia, niente sul torace. Le gambe sono di chi ha sfruttato il sole fregandosene dell'ozono e dei filtri di protezione.

- E la mia ti piace?

- Sei abile: cambi discorso.

Si getta su di me. A questo punto oltre le sfumature è complicato accorgersi della tinta del soffitto.





M'ha svegliato alle tre di notte.

Al telefonato ha urlato più volte, poi mi ha detto di correre a casa.

- Ma hai visto che ore sono?

- Certo, ma devi vedere una cosa.

Non ho idea di cosa possa essere, ma mi vesto ed esco di casa. L'appartamento di Carola e di suo marito non è molto lontano: due piani uguali a molti altri in un complesso affogato in una valle artificiale.

- Se n'è andata.

L'uomo è disfatto, appoggia prima la pancia e poi il gomito sul bordo del tavolo del soggiorno. Quando si siede la sedia gracchia.

- Se n'è andata... e senza nulla dietro.

- Non capisco.

- Ha lasciato tutto qui, le sue cose, i suoi ori... le sue bambine.

- Ma avevi detto che le bambine...

Con l'indice sulle labbra mi dice di parlar piano. Per rialzarsi poggia tutte e due le mani sulle cosce. Sembra un ponte levatoio.

- Vieni che ti faccio vedere...

- Ma cosa?

- Per questo t'ho chiamato... dài, seguimi.

La stanza da letto è in disordine e le lenzuola sono piegate a fazzoletto lasciando scoperta la parte che intuisco dell'uomo.

- Guarda – dice alzando quella di Carola.

- La vedi?

- Ma cosa?

- Quella macchia gialla. Ieri sera non c'era... è l'unica cosa che mi è rimasta di lei.

Piange senza far rumore: così dovrebbe essere, perché l'acqua non ha mai schiamazzato. Lo fa solo quando dietro ce n'è ancora per molto.

Istintivamente mi copro il collo e chiudo l'ultimo bottone della camicia.

- E cosa dovrei pensare?

- Secondo te cos'è quella macchia?

- Non lo so.

- Non può essere lei. Credi che sia fuggita davvero?

Dico di sì con la testa. M'avvicino a lui e gli prendo un gomito. E' molliccio, le dita sgomentano un po'. Come quando nel sogno scivoli e credi di salvarti col risveglio, ritiro la mano, per rassicurarmi.

- E dove sarà andata?

- Non cercarla.

- E le bambine?

- Sta a te decidere... potresti anche...

- Ora le sveglio.

- Ma perché? Aspetta domani...

- No, non hanno che da abbassare gli occhi... la mamma sta lì.

E indica la macchia.



Le mie due sorelle non traspaiono.

Una, quella bionda, che sembra appesantirsi quando fa le scale, assomiglia a mia madre, ma ha perduto per strada la dignità della sufficienza: sembra sopravvivere solo a se stessa, quando mia madre a settant'anni, riesce a sopportare ancora gli altri.

L'altra, quella ramata, assomiglia a mio padre, ma non ha la padronanza tutta femminile che le permetterebbe di scommettere ancora sulla vita. Ha scommesso sugli struzzi e sulla loro capacità di fare due covate a stagione.

- La tua amica è fuggita di casa – mi dicono.

- Lo so.

- Perché?

- Perché il mondo è pieno di ragazzi.

Sono intelligenti, perché non inclinano la testa come fanno i cani quando stupiscono. Così rette e puntute mi reggono lo sguardo.

- Ma le bambine?

- Le tiene il marito.

- E lei non se ne preoccupa?

- Ha pianto abbastanza.

Non racconto né della trasparenza, né della disidratazione. Loro conservano di Carola l'aspetto giovanile, quando ancora teneva sciolti i capelli divisi a metà da una riga d'argento.

La frescura autunnale mi aiuta: un leggero maglione di cotone, a collo alto mi sfina l'altezza, ma mi copre la trasparenza del corpo.

- E tu? – Mi chiedono.

- Io cosa?

- Quando fuggirai?

Lo dicono sorridendo. Non mi disturbano: invece di rispondere le accarezzo sul viso lasciando che la mano tenga un po' i secondi.

- Sentite qualcosa?

Mi dicono di no, ma la bionda mi prende il braccio e sospira.

- E' come uno scheletro, ma che fai, non mangi?

Penso improvvisamente a Carola e ai suoi malleoli biancastri.



- Ho sognato la tua amica stanotte. Stava su un tetto e minacciava di buttarsi.

- Si è buttata?

Il corpo ha un odore pesante: lo rubo a forza chiudendo gli occhi e trattenendo il respiro.

- Ma che fai?

- Trattengo, perché?

Mi bacia. Ha un modo curioso di farlo: schiude le labbra solo quando non ne può fare a meno. Come se la resistenza prolungasse l'attesa e l'attesa la beatitudine.

Ai miei baci non ho mai chiesto tanto.

Mi dice che una volta ha conosciuto un tizio che impazziva per la sua pronuncia.

- Fammi vedere, allora...

- Cosa?

- La tua pronuncia.

Gli apro la bocca: ai due angoli ha una leggera patina biancastra di saliva, gliela scippo con la lingua.

- E' l'unico modo per vederti dentro... questo.

Io sono ormai, come si dice, un libro aperto. Potrebbe usarmi come un aquilone tanto sono leggero.

- Comunque la tua amica non si è buttata – mi fa.

- Perché?

- C'eri tu che la trattenevi per un braccio.

Non so perché ma mi viene da ridere. A pensarmi salvatore. Preferirei essere un veggente e incuriosirmi a cercarla davvero.

Appoggio la testa sul suo petto. Sotto il capezzolo ha una macchia scura, curiosamente sbordata.

- E questa cos'è?

- Una bruciatura, una goccia d'olio bollente schizzata da una pentola.

- Ha un brutto colore.

- Passerà.

Certo che passerà, mi dico, poco convinto. Mentre con la testa m'adagio al ritmo regolare del suo respiro.



Fabrizio Ferretti

Omonimo di un ormai dimenticato cantante pop italiano degli anni '60, in realtà il nostro ha 28 anni, è di Faenza, laureato in giurisprudenza, vuole fare lo scrittore di professione.

Questo è il suo primo racconto pubblicato.



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