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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Stefano Torossi

Tre salvataggi

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Un capitello per tutti
Il Getty Museum di Malibu, California (USA) probabilmente sarebbe disposto a sborsare un bel po’ di dollari per questo magnifico capitello, che invece, qui da noi, sta appoggiato su un prato, gratis per tutti, con i ragazzini che ci saltano sopra, e se non ci sono i ragazzini, ci sono i ragazzoni che ci si siedono per mangiare la pizza con la mortadella.
Forse il reperto corre dei rischi, ma vuoi mettere il piacere di vivere in un posto dove cose bellissime, o magari no, ma comunque piene di storia stanno dappertutto a spartire la quotidianità dei romani moderni.
Siamo a Villa Celimontana, uno dei tanti meravigliosi parchi cinquecenteschi che riempivano tutto il perimetro delle mura Aureliane, quando la Roma abitata era uno sputo raggrumato intorno a Piazza del Popolo. Prati, alberi e marmi classici. Di sicuro un paradiso, rimasto insostituibile fino alla fine dell’ottocento.
Poi, appena fatta Roma capitale, grazie a un pugno di banditi storicamente documentati, primo Monsignor De Merode che si comprò a due bajocchi, per poi rivenderli a molti scudi, i terreni intorno a quella che sarebbe diventata Via Nazionale, poi il gatto e la volpe: il principe Boncompagni e il principe Ludovisi, proprietari delle omonime ville, e al seguito tutta l’avanguardia dei futuri furbacchioni di stato e privati, il paradiso è diventato sostituibilissimo, le ville sono state lottizzate, gli alberi buttati giù, i ruderi coperti e dimenticati, e via a costruire strade, case e ministeri.
Villa Celimontana, un po’ defilata, si è salvata insieme a pochi altri fazzoletti, e adesso speriamo sia fuori pericolo. Fra i pini, nel palazzetto Mattei, con intorno colonne, statue, sarcofaghi e capitelli, ha sede l’Istituto Geografico Italiano che nei giorni scorsi ha messo su un festivalino di letteratura di viaggio. Evento curioso, arricchito da incontri con personalità collegate a quel mondo (la vedova Chatwin, per esempio) e accompagnato da una mostra di foto e ricordi delle esplorazioni italiane in Africa.
Un’occasione per girare nelle sale dell’Istituto: ambienti di architettura classica, confortevolissimi per dimensioni e accoglienti con i loro scaffali vecchiotti pieni di libri vecchiotti, con carte geografiche vecchiotte alle pareti.
Una villotta di campagna accogliente e un po’ polverosa, come immaginiamo fossero i circoli inglesi dell’ottocento: poltrone, lampade basse e gentlemen sonnacchiosi con il whisky sul tavolino e la pipa semispenta.
L’Almone
Oggi è una fognetta a cielo aperto, venti secoli fa era un piccolo fiume sacro nelle cui acque ogni anno avveniva il rituale lavaggio della pietra nera, simulacro di Cibele, la madre degli dei. Secoli bui: abbandono della campagna romana, poi piccola ripresa, e il fiumiciattolo diventa il motore di una fabbrica che prima folla la lana, poi macera e pesta gli stracci per farne carta, materiale all’epoca pregiato e carissimo. La funzione dura fino al novecento (ci ha perfino lavorato Claudio Villa come garzone), poi nuovo abbandono, siringhe e vetri rotti, e finalmente recupero e destinazione a spazio sociale col vecchio nome di Cartiera Latina. Il posto è bello, gli ambienti suggestivi; il ruscello non serve ormai più a niente, se non al trasporto di immondezza e sacchetti di plastica.
Fra gli eventi dello spazio recuperato c’è una serie di concerti organizzati da “Per Appiam”. Eravamo lì domenica mattina, il 13, e abbiamo ascoltato Les gouts reunis, due flauti, cello e cembalo con un repertorio ‘700: Quantz, Jommelli e altri. Pubblico di mamme e bambini. Le famigliole si divertivano, i solisti erano bravi, ma noi abbiamo dovuto constatare quanto riesca a essere inconsistente, quasi noiosa, la musica da camera settecentesca. A meno di temi strepitosi (e per questo ci vuole Mozart) o solisti in costume e parrucca (ricostruzione storica), sono sempre le stesse canzonette appiccicate con i soliti giretti armonici di maniera. Eleganti, certo, piacevoli, anche: insomma, meringhe un po’ troppo dolci.

Lucrezia Romana
Leggendaria matrona, il cui suicidio, dopo lo stupro inflittole dal figlio del re Tarquinio il Superbo, segnò l’inizio della Roma Repubblicana.
Leggenda, appunto. Oggi è il nome di una zona urbana dalle parti di Cinecittà. Ed è anche un piccolo moderno antiquarium aperto da poco, che siamo andati a vedere il 17 settembre, una delle giornate più calde di questo rovente strascico di stagione. Moderno e dotato di una efficientissima aria condizionata, mentre fuori c’erano 33 gradi. Non ce ne saremmo più andati. Non solo per il fresco, ma anche per i pezzi, minori certo, ma comunque pregevoli, esposti con stile, nonché per l’ingresso gratuito, e perché eravamo gli unici visitatori, probabilmente da molto tempo, come si poteva dedurre dalle espressioni dei custodi, felici di vedere una faccia umana.
Gratificati nello spirito e corroborati nel corpo, abbiamo fotografato questo notevole piccolo nudo, per poi affrontare tre maledetti quarti d’ora nel traffico di Via Tuscolana. Siamo arrivati vivi, ma sudatissimi.




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