RACCONTI
Simone Ungaro
Un palloncino pieno d'aria
Roberto si chiese quale incubo può svegliarti così, senza fiato, coi pugni e i denti stretti, i muscoli contratti gli pungevano la pelle della schiena. Si voltò di scatto. Livia dormiva inghiottita fino al mento dalle coperte. La penombra la rendeva tonda, di un pallido gonfiore. Roberto pensò che il suo corpo sotto le coperte, avvolto dai ricami della vestaglia di seta indossata per l'occasione speciale, fosse un enorme pallone e pensò di strusciarci contro la schiena indolenzita e pensò di svegliarla, ma non riusciva ad immaginare cosa le avrebbe detto.
Sentiva in bocca un sapore granuloso, come di minuscoli frammenti che gli ferivano la lingua andando ad infilarsi tra le gengive. Senza accendere la luce, si diresse a tastoni verso il bagno. Si lavò i denti con l'acqua calda - aveva sempre creduto che l'acqua calda avesse un effetto sterilizzante per i denti; Livia diceva che "li ammollava". Eppure, per quanto spazzolasse, la sensazione ruvida non veniva via.
La sua bocca provò il bisogno di una sigaretta. Prese il pacchetto di Marlboro nell'armadietto in cui Livia non guardava mai e che ogni volta, nell'aprirlo, gli riportava alla mente la frase "ciascuno ha il dovere di crearsi delle piccole isole di disordine, sia pure di nascosto", anche se non riusciva proprio a ricordarsi in che libro l'avesse letta.
Piegato per il dolore alla schiena, raggiunse il balcone e accese una sigaretta. La pioggia aveva smesso di cadere. Automobili frustrate nel traffico diurno sfruttavano la notte sfrecciandogli sotto gli occhi. Roberto si passò il fumo tra i denti, sulla lingua, ebbe come l'impressione che levigasse gli spigoli nella sua bocca. Mentre la sigaretta si accorciava, ripensò al luccichio del ristorante di quella sera, a tutto quel pesce (ecco: forse un guscio di vongola gli si era frantumato nella bocca), alle due bottiglie di Gewurtzraminer consigliato dal maitre, al sorriso un po' ubriaco di Livia circondato dal rossetto, alla torta imperlata dalla scritta "25 anni" e sulla quale svettavano due sposini di plastica troppo giovani.
Sulla strada del ritorno, con la macchina ferma al semaforo, Roberto si era voltato verso Livia e le aveva sfiorato la mano. Era gelida: sua moglie, coperta dallo spolverino troppo leggero, dissimulava col rosso del fard un sottile tremolio di freddo.
Poi, a casa, avevano fatto l'amore come non lo facevano da anni. Non le aveva neppure sfilato la vestaglia.
Roberto gettò la sigaretta nel vuoto. I suoi occhi la seguirono come si fa con le stelle cadenti.
Rientrato in casa, trovò Livia proprio come l'aveva lasciata, solo pareva più infagottata, come se le coperte avessero continuato ad ingoiare il suo viso rotondo. Roberto vide una zanzara volarle attorno nell'inutile ricerca di un punto adatto al suo lavoro di parassita. Quasi meccanicamente, abbassò le coperte finché non intravide le bretelline della vestaglia. Osservò la zanzara volare in cerchio come in una danza macabra e, finalmente, posarsi sul collo di Livia. Immaginò la minuscola proboscide che penetrava lenta nella carne e sangue e saliva d'insetto e sentì i muscoli della schiena rilassarsi, il petto respirare come appena riemerso dall'acqua. Gli venne da sorridere pensando che Livia potesse scoppiare, scoppiare come un palloncino pieno d'aria, sorrise pensando al rumore che avrebbe fatto: non immaginava un tonfo sordo, piuttosto una specie di piccolo tuono che si spegne lontano.
La zanzara si sollevò andando a posarsi pigra e appesantita sul muro accanto al letto. Roberto non ebbe difficoltà a catturarla. Infilò gli occhiali, si sedette sul letto e aprì lentamente la mano. Si stupì che la zanzara non provasse a fuggire, si stupì della sua muta noncuranza mentre le staccava prima un'ala, poi un'altra, notando con un misto di calore e malinconia quanto gli si fossero ingrossate le dita. La schiacciò tra pollice e indice strofinando a lungo con ritmo potente, cadenzato, finché non rimase che una piccola macchietta rossa.
-Non riesci a dormire?, disse Livia impastata. Poi tirò su le coperte e disse: - Ti sarà rimasto il pesce sullo stomaco.
Roberto la fissò per un po'.
Avrebbe riposto la macchietta di sangue che aveva tra le dita nell'armadietto in cui Livia non guardava mai.
Sentiva in bocca un sapore granuloso, come di minuscoli frammenti che gli ferivano la lingua andando ad infilarsi tra le gengive. Senza accendere la luce, si diresse a tastoni verso il bagno. Si lavò i denti con l'acqua calda - aveva sempre creduto che l'acqua calda avesse un effetto sterilizzante per i denti; Livia diceva che "li ammollava". Eppure, per quanto spazzolasse, la sensazione ruvida non veniva via.
La sua bocca provò il bisogno di una sigaretta. Prese il pacchetto di Marlboro nell'armadietto in cui Livia non guardava mai e che ogni volta, nell'aprirlo, gli riportava alla mente la frase "ciascuno ha il dovere di crearsi delle piccole isole di disordine, sia pure di nascosto", anche se non riusciva proprio a ricordarsi in che libro l'avesse letta.
Piegato per il dolore alla schiena, raggiunse il balcone e accese una sigaretta. La pioggia aveva smesso di cadere. Automobili frustrate nel traffico diurno sfruttavano la notte sfrecciandogli sotto gli occhi. Roberto si passò il fumo tra i denti, sulla lingua, ebbe come l'impressione che levigasse gli spigoli nella sua bocca. Mentre la sigaretta si accorciava, ripensò al luccichio del ristorante di quella sera, a tutto quel pesce (ecco: forse un guscio di vongola gli si era frantumato nella bocca), alle due bottiglie di Gewurtzraminer consigliato dal maitre, al sorriso un po' ubriaco di Livia circondato dal rossetto, alla torta imperlata dalla scritta "25 anni" e sulla quale svettavano due sposini di plastica troppo giovani.
Sulla strada del ritorno, con la macchina ferma al semaforo, Roberto si era voltato verso Livia e le aveva sfiorato la mano. Era gelida: sua moglie, coperta dallo spolverino troppo leggero, dissimulava col rosso del fard un sottile tremolio di freddo.
Poi, a casa, avevano fatto l'amore come non lo facevano da anni. Non le aveva neppure sfilato la vestaglia.
Roberto gettò la sigaretta nel vuoto. I suoi occhi la seguirono come si fa con le stelle cadenti.
Rientrato in casa, trovò Livia proprio come l'aveva lasciata, solo pareva più infagottata, come se le coperte avessero continuato ad ingoiare il suo viso rotondo. Roberto vide una zanzara volarle attorno nell'inutile ricerca di un punto adatto al suo lavoro di parassita. Quasi meccanicamente, abbassò le coperte finché non intravide le bretelline della vestaglia. Osservò la zanzara volare in cerchio come in una danza macabra e, finalmente, posarsi sul collo di Livia. Immaginò la minuscola proboscide che penetrava lenta nella carne e sangue e saliva d'insetto e sentì i muscoli della schiena rilassarsi, il petto respirare come appena riemerso dall'acqua. Gli venne da sorridere pensando che Livia potesse scoppiare, scoppiare come un palloncino pieno d'aria, sorrise pensando al rumore che avrebbe fatto: non immaginava un tonfo sordo, piuttosto una specie di piccolo tuono che si spegne lontano.
La zanzara si sollevò andando a posarsi pigra e appesantita sul muro accanto al letto. Roberto non ebbe difficoltà a catturarla. Infilò gli occhiali, si sedette sul letto e aprì lentamente la mano. Si stupì che la zanzara non provasse a fuggire, si stupì della sua muta noncuranza mentre le staccava prima un'ala, poi un'altra, notando con un misto di calore e malinconia quanto gli si fossero ingrossate le dita. La schiacciò tra pollice e indice strofinando a lungo con ritmo potente, cadenzato, finché non rimase che una piccola macchietta rossa.
-Non riesci a dormire?, disse Livia impastata. Poi tirò su le coperte e disse: - Ti sarà rimasto il pesce sullo stomaco.
Roberto la fissò per un po'.
Avrebbe riposto la macchietta di sangue che aveva tra le dita nell'armadietto in cui Livia non guardava mai.
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