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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Alfredo Ronci

Walter Chiari e la creatività filosofica delle barzellette

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Recentemente è uscito un libro di Thomas Cathcart e Daniel Klein (entrambi laureati a Harvard, il primo è teologo, l'altro si guadagna da vivere scrivendo battute per comici affermati) Platone e l'ornitorinco. Le barzellette che spiegano la filosofia (Rizzoli) in cui gli autori hanno scoperto che interi gruppi di barzellette occupano l'identico territorio concettuale delle discipline che formano l'ambito della filosofa. Non solo, sembrerebbe che qualsiasi tipo di materia, non solo la filosofia, possa essere argomentata attraverso il motto di spirito (anche freudianamente inteso).

Basti pensare al problema della relatività: Una lumaca viene aggredita da due tartarughe. Quando la polizia le chiede come si sono svolti i fatti, la lumaca risponde: "Non lo so. E' successo tutto così in fretta".

Insomma, i due insigni studiosi (o comici? Visto che recentemente, almeno qui da noi, i comici si sostituiscono spesso ai politici e al giornalismo di denuncia), parafrasando il vecchio detto aristotelico primum vivere, deinde philosophari (c'è bisogno di tradurre?), consiglierebbero il motto: prima ridere, poi filosofeggiare. Oppure, visto in chiave più generale, prima ridere poi metafisicizzare, logicizzare, relativizzare, politicizzare (in questo caso quanto davvero ce ne sarebbe bisogno!).

Che succede invece quando, e chiedo aiuto ancora al latino, si procede ad una sorta di reductio ad unum? Cioè dall'universale si passa al particolare? Meglio ancora, quando si ha la necessità dell'esame di una singola barzelletta per successivamente estendere concetti? (ma a conti fatti, le procedure pur se distanti, si assomigliano ).

Quel che succede lo si può leggere nel brillante libriccino di Felice Accame L'anomalia del genio e le teorie del comico (:duepunti edizioni).

Non capisco perché tra le varie teorie che Accame elenca nella seconda parte di questo breve, esilarante, saggio sulla barzelletta e sul comico non riporti, ma e poi mai, quella di Freud sul motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio.

Tra l'altro nel testo freudiano ce ne sono un paio, di contemporanei, che secondo me vale la pena ricordare.

Quella di Jean Paul: Il motto di spirito è il prete travestito che unisce ogni coppia. Mi chiedo a 'sto punto cosa possa pensare il papa del relazionismo di una definizione del genere. Oppure quella di Heymans che nota come l'effetto di un motto di spirito nasce dalla confusione seguita dall'illuminazione. Egli spiega il suo significato con una brillante facezia di Heyne, che racconta come uno di suoi personaggi, Hirsch-Hyacinth, il povero ricevitore del lotto, fosse esaltato dal fatto che il grande barone Rothschild lo trattava proprio come un suo pari, con modi proprio familionari.

La barzelletta che sta alla base del libro (lo ripetiamo, il testo non è altro che il tentativo di spiegare il meccanismo di una e una sola) in qualche modo potrebbe rientrare nella definizione di Heymans, perché gioca su una trasformazione morfemica. (Voi vi chiederete? Ma non ci racconti la barzelletta? No, compratevi il libro!) C'è una considerazione immediata però che m'assale e che rischia, almeno da parte mia, d'inficiare l'intera costruzione dell'Accame per quanto a tratti esilarante e suggestiva (e per questo, di per sé, meriterebbe immediatamente l'acquisto: aridaje!).

Il prof. parte dal presupposto che quel che riporta, cioè la narrazione della facezia, sia esattamente quella del narratore. Che poi sarebbe un proprietario d'albergo che ha ospitato un convegno dove l'Accame ha parlato. E poverino, dopo essersi sorbito una sequela di intellettuali in cattedra, partecipa di suo facendo comunella e raccontando storielle. Tramite il repertorio delle barzellette avrebbe potuto ricostituire un terreno di confronto a lui più congeniale – un terreno dove, magari, avrebbe potuto chiudere addirittura in vantaggio nei confronti dell'intera compagnia e non solo del conferenziere – e ciascuno avrebbe potuto situarsi in un ordine gerarchico più soddisfacente.

Proprio sull'ordine gerarchico che s'appuntano le mie ansie, e cioé: se attraverso la facezia l'alberghiere vuole ristabilire un equilibrio che altrimenti sarebbe (di diritto?) diverso, non può, in nessun caso, proprio per questa esigenza classificatoria porsi sullo stesso piano dei conferenzieri. Capito? No?

In parole povere: se un povero cristiano si sente non adeguato e vuole riscattarsi di fronte ad un auditorio colto secondo voi come la racconta una barzelletta? Coi modi propri che gli si confanno. E invece l'Accame costruisce il suo saggio su un "presupposto narrativo" che chiamerei "alto".

Ecco i miei dubbi.

Per il resto le pagine scorrono con un piacere infinito. C'eravamo già occupati di Accame in passato, a proposito di sue disquisizione sul tema delle stelle – quelle dello spettacolo, non quelle in cielo – (che trovate nella sinagoga Biagi santino e il sistema delle stelle – sempre di mia produzione) apprezzandone la capacità analitica, la brillantezza spumeggiante ed una capacità narrativa al di fuori del comune. Qui ritroviamo tutto. Il suo è quasi un dono. E tra l'altro anche la barzelletta che sta all'origine del libro è davvero riuscita. Ma a questo punto mi chiedo se il merito di questa riuscita sia davvero dell'Accame che l'ha scelta, presumiamo da un mazzo, o dell'alberghiere che l'ha enunciata. Ops, anch'io mi lascio prendere dal gioco: l'alberghiere non avrebbe mai enunciato una barzelletta, l'avrebbe "solo" raccontata. Chissà se colorita dei tic nevrotici che Walter Chiari rese quasi arte?





Felice Accame

L'anomalia del genio e le teorie del comico

:duepunti edizioni

Pag. 88 Euro 9.00





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