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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Silvia Tortora

Bambini cattivi

Marsilio, Pag.89 Euro 10,00
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La convinzione fondante questo lavoro, benché radicata, non la incontravo in chiaro dai tempi de La città dei ragazzi (e del suo omologo-opposto Proibito rubare): "non esistono bambini cattivi". Purtroppo, tale assioma è stato dimostrato falso dal teorema del dottor Knapp, che vado ad enunciare: "molti adulti sono stronzi. Il bambino è il padre dell'uomo. Ergo, molti bambini sono stronzi". Corollario di Balsamo-Sloan: "Né vale dire che ci diventano, siccome genitori stronzi possono avere figli meravigliosi". Che poi i nani, come sostiene nella prefazione la scrittrice, parlino "con un linguaggio immediato usando il cuore", è cosa che ogni adulto intortato - e talvolta svillaneggiato - da una canaglia ancora implume, sa quanto sia vera.

Arimòrtis: si potrebbe buttare il libro, intitolato ai bambini cattivi però medaglione di bimbi buoni (e "divise" buonissime), come si getterebbe una guida di Roma che parlasse di Firenze, e basta là. Non fosse che poi l'Autrice esprime un convincimento d'identica (o solo un po' meno) diffusione, e più fresco: malgrado l'enfasi sulla "centralità del bambino", e sulla società a sua misura che si dovrebbe abitare tutti insieme appassionatamente, gli spazi dove i pischelli erano soliti vivere una propria forma di vita, senza noi tra i piedi, si sono ridotti in maniera drastica, sin quasi a scomparire - col risvolto dell'adultizzazione dei ragazzini, fìsima che va avanti dai tempi dei Faraoni, cioè da quando io ero piccolo (in senso anagrafico), ma che qualche anno fa Neil Postman si prese la briga di mettere nero su bianco nel suo La scomparsa dell'infanzia (Armando, Roma). In realtà, spazi di indipendenza le carognette se ne ritagliano anche di dietro al monumento di Baffone: il problema semmai è rovesciato, viviamo sempre più in un mondo ove gli adulti sono sempre meno liberi - e i bambini sono spesso usati come pretesti per ingabbiare gli autori dei loro giorni. Proporrei dunque di nominare Eroe del nostro tempo Pavlik Morozov, pioniere staliniano che denunciò frasi dette da papà e mamma e non conformi al dettato del Padre dei Popoli.

Comunque, Silvia Tortora un punto lo segna, e potrebbe essere il punto partita, non fosse per quel che dirò appresso: in effetti, i bambini non vengono ascoltati. E il suo libro lo dimostra, ma in un senso che non ritengo fosse nelle intenzioni dell'Autrice. Difatti: nella tecnica letteraria si parla di "regresso" quando la lingua dell'autore ricrea in forma e informazione quella del personaggio - se si mette in scena un facchino, lo si farà parlare in modo appropriato, e soprattutto i concetti che esprimerà saranno vicinissimi alla forma-mente dell'uomo, per come l'autore ne ha avuto esperienza o presunzione. E, già che parliamo di ragazzini, esempi di successo di tale operato si hanno ne La vita davanti a sé, e ne La guerra dei bottoni - libri dove si fa letteratura di alta classe, proprio rispettando e comprendendo quel che letterario non è: e arte della vista e arte della vita assieme ci fanno riflettere sulla vita e sull'arte.

Qui no: i bambini - siano maschi o femmine, siano borghesi o borgatari, siano nazionali o esteri, parlano tutti nello stesso modo, con la medesima concezione del mondo, con le medesime immagini. A questo proposito, intendo dire che quella particolare forma del linguaggio che è la situazione, il contesto, la scena che contorna la parola agìta (dialogo, didascalia, descrizione) non ha alcuna autonomia da quella che si rivela in altri luoghi dello scrivere - articoli di giornale, verbali, etc. -, il che testimonia del fallimento dell'Autrice nel dare alla narrazione carattere e necessità propri. E' ben lecito partire dal fattaccio per ispirarsi una storia: ma, facendolo, non bisogna dimenticare che una storia si sta scrivendo - questo distingue regresso e sbobinatura - che ha, come il fanciullino, timori e tremori - e leggi bronzee - suoi. Truman Capote e anche il Pasolini di Mamma Roma insegnano.

Melenso è, inoltre, suggerire più e più volte che "questi bambini potrebbero essere figli tuoi": la giustezza o l'errore di un'azione non si misura dal grado di parentela di chi vi è coinvolto, ma dagli argomenti o dalle prove empiriche che dimostrano l'una cosa o l'altra.

A conti resi, ha ragione l'Autrice, e ci convince, che il bambino non si ascolta. Ma - e qui viene il bello - non s'accorge che questo accade non perché gli adulti (e lei con loro) sono distratti, piuttosto perché sono tutti presi ad ascoltare "Il Bambino", quell'essere monco, eviscerato e irreale che esiste solo nella loro ebete e smemorata immagineria. O, forse - e peggio - né scema né smemorata. Ma disponibile ad accogliere le parole bambine solo quando concordano con ciò che, secondo i cresciuti, dovrebbero essere.

Celebriamo allora gli adulti che, nelle occasioni del loro lavoro, hanno cercato d'ascoltare i bambini per quello che dicono, e non per quel che vorremmo (o pretendiamo) dicessero: Luigi Comencini, Michele Gandìn,Vittorio De Seta.



di Marco Lanzòl


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