CINEMA E MUSICA
Alfredo Ronci
Basterebbe la sua voce... ma ormai la si ignora: Joan Armatrading e l'ultimo disco 'The Charming life'.
Quando si tratta di lei non sono obiettivo: io sono cresciuto con Joan Armatrading. E l'artista ha alle spalle una carriera formidabile e lunga: il suo eltonjohniano esordio Whatever's for us risale ormai al 1972. Non so cosa succeda in patria, in Inghilterra, cioè se abbia ancora un discreto seguito e se sia considerata quanto vale, qua da noi ormai è finita nel dimenticatoio (la copia di questo suo ultimo lavoro, unica in negozio, l'ho dovuta contendere ad un altro povero disgraziato come me). Eppure Into the blues, il precedente disco, era un benefico bagno nelle origini della musica, la riscoperta cioè del blues come categoria dell'anima e tappa obbligatoria, pensiamo noi, per una voce appunto così 'bluesy' come quella di Joan. Tra l'altro conteneva una delle ballate più belle dell'ultimo periodo: Secular songs.
Nonostante ciò, i giornali musicali la ignorano e se non fosse per un mio personale scrupolo nel seguire fatti opere e omissioni della musicista, rischierei pure di perdere una sua uscita, e non me lo perdonerei mai.
Intendiamoci: The Charming life non aggiunge nulla al già detto da quasi quarant'anni, ma la voce di Joan è troppo essenziale ed intensa per poterci rinunciare. Semmai del disco sorprende la tentazione muscolare dei brani. Supponevamo che Into the blues fosse l'approdo ad una sensibilità più matura e conclusiva dell'arte dell'Armatrading (non gliela tiro, ma gli anni passano per tutti, accidenti!), ed invece il disco è energico e ricorda a tratti la produzione negli anni ottanta di Steve Lillywhite (soprattutto Walk under ladders), quando stavolta la responsabilità tutta del progetto è della stessa autrice. Se togliamo la titletrack (l'iniziale Charming life), ballata intensa con capacità d'acchiappo e commerciale non indifferente, e quella finale Cry (che è tutta un programma: "Sto cercando me stessa in questi tempi di tribolazione, e tutto quello che posso fare è piangere"), il resto si muove tra agitate svisate (Heading back to New York City è quasi hard rock), bassi che segnano il ritmo (People who win) e cadenze ballerecce che rifanno il verso ad un'opera fondamentale nella discografia dell'Armatrading: Me myself I (e precisamente: Two tears e Diamond).
Ma la voce di Joan è, nonostante non sia mai stata una gran poetessa, spesso nei suoi versi cuore fa rima con amore (in inglese no, chiaro, ma capite a me!), un'esperienza dell'anima. Al suo esordio la paragonarono al nero grumo di Nina Simone. Forse troppo (la sacerdotessa del soul veleggiava su altri lidi, anche se le emozioni non hanno genere, nazionalità o colore), ma la coloritura dell'impasto è così denso e coinvolgente che dopo quarant'anni ancora non siamo stanchi di quel prodigio. Anzi.
Però, nonostante le sue tentazioni rock'n'roll, mi piacerebbe vederla seduta ad un piano e ammaliarci con delle semplici note: cos'erano quelle di The weakness in me (a proposito, godetevi su Youtube la versione live che ne fa Melissa Etheridge) se non un patto silente col divino?
Grazie comunque Joan.
Nonostante ciò, i giornali musicali la ignorano e se non fosse per un mio personale scrupolo nel seguire fatti opere e omissioni della musicista, rischierei pure di perdere una sua uscita, e non me lo perdonerei mai.
Intendiamoci: The Charming life non aggiunge nulla al già detto da quasi quarant'anni, ma la voce di Joan è troppo essenziale ed intensa per poterci rinunciare. Semmai del disco sorprende la tentazione muscolare dei brani. Supponevamo che Into the blues fosse l'approdo ad una sensibilità più matura e conclusiva dell'arte dell'Armatrading (non gliela tiro, ma gli anni passano per tutti, accidenti!), ed invece il disco è energico e ricorda a tratti la produzione negli anni ottanta di Steve Lillywhite (soprattutto Walk under ladders), quando stavolta la responsabilità tutta del progetto è della stessa autrice. Se togliamo la titletrack (l'iniziale Charming life), ballata intensa con capacità d'acchiappo e commerciale non indifferente, e quella finale Cry (che è tutta un programma: "Sto cercando me stessa in questi tempi di tribolazione, e tutto quello che posso fare è piangere"), il resto si muove tra agitate svisate (Heading back to New York City è quasi hard rock), bassi che segnano il ritmo (People who win) e cadenze ballerecce che rifanno il verso ad un'opera fondamentale nella discografia dell'Armatrading: Me myself I (e precisamente: Two tears e Diamond).
Ma la voce di Joan è, nonostante non sia mai stata una gran poetessa, spesso nei suoi versi cuore fa rima con amore (in inglese no, chiaro, ma capite a me!), un'esperienza dell'anima. Al suo esordio la paragonarono al nero grumo di Nina Simone. Forse troppo (la sacerdotessa del soul veleggiava su altri lidi, anche se le emozioni non hanno genere, nazionalità o colore), ma la coloritura dell'impasto è così denso e coinvolgente che dopo quarant'anni ancora non siamo stanchi di quel prodigio. Anzi.
Però, nonostante le sue tentazioni rock'n'roll, mi piacerebbe vederla seduta ad un piano e ammaliarci con delle semplici note: cos'erano quelle di The weakness in me (a proposito, godetevi su Youtube la versione live che ne fa Melissa Etheridge) se non un patto silente col divino?
Grazie comunque Joan.
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