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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Giulio Lascàris

Chi t'è vivo e chi t'è mmuortt!

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...de 'na gran cosa, e 'sta gran cosa è questa...

Giuseppe Gioachino Belli




Il sei febbraio 1845, presumibilmente di buon'ora, una famiglia di inglesi lascia Roma da quella che era la porta a san Giovanni in Laterano, per dirigersi verso Sud. Cosa non insolita: l'Italia, reliquiario d'Europa, era percorsa da facoltosi stranieri - giovani o meno - che venivano a trascorrervi del buon tempo fra stimoli culturali di ogni tipo, sebbene già standardizzati, compiacimenti arcadici oppur (proto)romantici, interessi politici e, si direbbe oggi, antropologici, e sano turismo sessuale.

Il capofamiglia di questa numerosa parentela - moglie, cinque figli, cognata e due camerieri ("famigli") al seguito - è nato piccoloborghese, è stato povero da ragazzo, indi con talento, fortuna e lavoro ha acquistato una posizione eminente, nonché una fama mondiale - gli Orwell, gli Huxley critici son da venire. E' giornalista e scrittore: gradito al pubblico al segno che, a New York, la gente si affolla al molo dove attracca il postale dall'Inghilterra, e s'ingaglioffa e litiga pur di avere una delle copie del quotidiano che recano l'ultima puntata d'un suo fogliettone. Si chiama Charles Dickens, e va a Napoli attraverso un itinerario che lo porta a varcare ciò che il genio del Belli ha reso, nel sonetto omonimo, come "er deserto": l'Agro pontino, immenso, spopolato, malarico, vaccinàro, ove, piuttosto che inoltrarvisi, è meglio "fàsse castra' da un norcino a'la Ritónna". (2) Ma il Nostro ne ha una commozione stereotipata, pensa ai lasciti imperiali, alle quadrate legioni: solo a Fondi - all'epoca prima città "napoletana" oltre gli Stati romani - in balìa d'una turba di straccioni adulti e bambini, creature malaticce e deformi, sudice e repellenti, si convince a tornare al secolo. E accadono due cose notevoli: una riguarda la qualità inventiva dell'Autore, l'altra una strana meraviglia che prende il Lettore. Cominciando da questa, ci si stupisce come il narratore che aveva descritto la melmosa Londra vittoriana - nemmeno allietata dal "cielo azzurro cielo, dal mare verde mare" della capitale mediterrana - coi suoi slums, i suoi Sikes e Fagin, il suo smog catramoso, la sua mal aria tifoide, la sua acqua colerica, l'ammasso miserabile, promiscuo, limaccioso dei suoi infimi, si turbi dinanzi allo squallore almeno solare, pittoresco-picaresco degli italioti.

Però: Dickens descrive da par suo la massa di disbucìti che lo attornia - e fin qui, è regolare, il cliché dell'italiano miserabile, feccia bianca (?) d'Europa, è rispettato. Senonché, il buon Charles riporta che il "gruppo di bambini miserabili (...) scoprono (sic!) di poter vedere la propria immagine riflessa nella vernice della carrozza e si mettono a ballare e a far boccacce per il gusto di vedere le proprie smorfie ripetute". (p. 31) Se ne avvede pure un grullo, (ivi) che si piglia il medesimo gusto. E' una scena da 2001: odissea nello spazio - le scimmiette toccano il monolite, che stimola in esse un barlume di coscienza. Ma anche il Lettore viene spinto a rendersi conto che, per un attimo, "il volto è sopra la maschera": il riflesso svela più dello sguardo la realtà, raddoppiandola, scoprendone il doppio meccanismo di adulterazione. L'incidente interrompe la descrizione stereotipa, lo sguardo artefatto dell'inglese: e spezza nei bambini il rituale della questua, distraendoli, portandoli in una dimensione festosa e improduttiva - insolita per loro, dunque spontanea - dallo sciatto copione loro assegnato, il gesto fossile della mendicità. Il baloccarsi con l'immagine virtuale li trae dalla morte civile dello stereotipo, e riassegna loro una forma di vita (per quanto rassegnata).

Questo gioco di maschera-volto, morte-vita, non è casuale nella tattica descrittiva dickensiana - malgrado il senso venga ricondotto a degli schemi. Lo dimostrano i due momenti che seguono: com'è noto, e come riporta lo scrittore, l'eruzione del 79 d.C. ridusse i corpi delle vittime a mummie di cenere, rappresi nell'ultima apparenza della vita. Non solo: nel teatro ercolanense, "una maschera comica, galleggiando sulla corrente ancora caldissima e liquida, vi stampò le sue fattezze che imitano quelle umane, ed oggi rivolge al forestiero la medesima espressione che duemila anni fa (...) presentava agli spettatori". (p. 47) Mai più venne data rappresentazione maggiormente perspicua di ciò che l'Italia e gli italiani significavano per gli stranieri: un fermo-immagine lungo due millenni d'una popolazione di buffoni chiamati a impersonare una tragedia - come ne Il figlio di Iorio, tragedia a vapore, di Scarpetta. (3) Di morti che imitano la vita così bene, da credersi in vita, anzi, da annullare la differenza - e è questo forse che giustifica l'impressione che doveva fare la miseria italica rispetto a quella continentale o britannica. (4) Tant'è - e siamo all'ultima evenienza (p. 79-81) del breve estratto che Colonnese pubblica, stralciandolo, dal diario di viaggio italiano di Boz - che i "lazzari" esclusi per malasorte dalle vincite al lotto, i carcerati dell'adiacente fortezza, e i crani biscottati dal sole che ai muri della galera sono appesi da tempo immemorabile (memento della sorte dei loro malnati proprietari) divengono un continuo, degradando gli uni negli altri. Grand macabre che ripiglia peraltro l'entrata in Partenope dei Dickens, allietata da un funerale.

E - manco a farlo apposta - qual'è la scena d'apertura e d'atmosfera del composito libro (biografia, romanzo, menzogna, sortilegio) che tiene le Novelle di De Simone? Metà anni Sessanta: il musicista e compositore si reca alle Fontanelle, un ossario aperto alla devozione della plebe. Sul tram, un puttano diciottenne lo abborda, magnificandosi come amante (di maschi, quindi "uccellatore"), e invitandolo a convolare proprio nei recessi del dedalo-cimitero. Il maestro declina, e, arrivato che è al labirinto, si sceglie un "criatùro" decenne (come guida, ohei!), e penetra nell'anfratto. Michele - così il nome del piccino psicopompo (dov'ho letto che era, questo, attributo di Eros? Nell'Arbasino ellènico (Adelphi)? Mah!) e Virgilio in sedicesimo - svela all' etnomusicologo le storie che gravitano attorno a quel Tartaro: non solo le ubbie delle donnette visionarie, né le "fetenzìe" che si combinano (e lui se n'indigna!) nei penetrali. Bensì, il racconto della continua comunicazione tra morti e vivi, esemplificata dall'avventura del Capitano. Nella quale è agevole cogliere per l'esperto la similitudine col Commendatore - e è la chiave del testo: Mozart "napoletano" non solo per aver dimorato, quattordicenne, nella città, a miracol mostrare; non tanto per aver conchiuso (con Rossini) in maggiore la tradizione dell'opera italiana, sive partenopea; non solo e non tanto per aver sfiorato, via Raimondo di Sangro, la porta massonica. Ma soprattutto per aver colto nella propria opera (maxime in Don Giovanni) la ricongiunzione eros-thanatos che di Partenope è l'anima-animus (Jung mi pare sia tra gli Autori del Nostro: oltre alla citazione nel proemio, a p. 102 spunta una Kore).

Così, De Simone rintraccia, in un percorso cinquantennale (dal dopoguerra a oggi), il làscito mozartiano in Napoli, evidenziando come abbia interagito e sia percolato nella struttura culturale e "fisiologica" della città. Non starò a riassumere pedissequamente al Lettore come ciò avvenga, invitandolo, com'è costume, a dedicarsi al testo: vorrò solo attirare il suo avvertimento su uno scenario analogo a quello dickensiano (5) già esposto - e che attinge, pure, a Il flauto magico.

Nel 1949, sedicenne allievo di conservatorio, a De Simone si offre la possibilità d'accompagnare Paul Hindemith (e dico!), all'allora frequentabile opera dei pupi, nota come Piccolo San Carlino. (6) Finisce col compositore sollazzatosi del teatrino con strepiti di risa, e calci alla malconcia balaustra, finché lo richiamano all'ordine: e con Roberto che rinnova una sua consuetudine allo spettacolo.

Quindici anni passano: De Simone riscopre il teatro dei "pupanti", o meglio le sue rovine. Il piccolo San Carlino è in stato di avanzata decomposizione: e i pupi giacciono accatastati e decapitati, nell'abbandono che prelude a una vendita all'ingrosso che alimenterà il mercato antiquario. Son senza testa perché, nell'uso risparmievole, s'era soliti montare su diversi corpi il medesimo capoccione di legno - solo i personaggi più delineati avevano il privilegio d'una fisionomia individuale: "E gli occhi cristallini di quei personaggi manifestavano una vita immobile, misteriosa, al di là di un corpo con cui ricongiungersi". (p. 119) Lo sguardo straniero di Boz e quello autoctono appaiono composti: i pupi di Fondi e l'idiota ridotti, pur nella loro verità, a teste grottesche nel riverbero della vernice; le crisalidi pompeiane; il trascorrere dalle facce inerti della plebe vinta dal sorteggio ai crani dei condannati; i teschi delle Fontanelle; la meccanica fisognomica delle forme devozionali (pp. 80-89); la qualunque immagine converge in quest' ultimo dramma di pupazzi decollati. Niente cambia: vista dalla Luna, la morte è interscambiabile con la vita. Visto dalla morte, il "paesaggio italiano" è ognissèmpre "con zombie".

E' però vero che attorno a questa dissipazione, e a quant'altra su cui il (de)compositore ci aggiorna (vedi le ultime "novelle"), aleggiano le fortune di Tamìno e Papageno. Patroni Griffi intitolava un suo romanzo (Mondadori) alla "morte della bellezza": De Simone prende atto, ma rivendica, dell'equivalenza morte-vita, il lato vitale. Dunque: il vivente non è che un morto che recita la sua vitalità - "tutti prima di nascere eravamo morti"? (7) Se per vero si dà, allora, rivolgendosi, non c'è vera morte, ma solo vita in diversa forma. Fino allo sconcio: tra le calvarie del sotterraneo camposanto si piscia e si scopa - osservati dalla tenera porcaggine infantile. Sarastro, incarnatosi in un Damiano guaritore-prete-pupante, infila la mano nella braghetta del piccolo Berto tredicenne, (p. 109) per suscitarne magicamente il flauto. (8) La zampogna è maschia e la ciaramella femmina, e suonando assieme fanno all'amore. (p. 47) E Mozart - il cui gusto per il turpiloquio è stato addirittura associato a un disordine organico, la sindrome di La Tourette (9) - compose due rigorosissimi canoni a tre voci (K231, K233) su canzonacce sozzissime: "Leck mir den Arsch", "Leck mich im Arsch schön sauber" - la tradizionale verecondìa degli Orchi impedisce di volgerle. (cfr. p. 153, dove per altro è citato il nome d'un altro canone, K561) E nelle parole e nelle lettere di Volfango, delle quali De Simone correda il testo (verosimili, se non autentiche), ove, senza bisogno di ipotizzare sindromi, si riconosce la turpe sboccata allegria (conservata dal musicista in età adulta) d'uno dei ragazzacci plebei "dai dieci ai sedici anni" che "tumultuavano" (p. 110) nella platea dell'opera dei pupi. E magari quell'Eros, estroso divino fanciullo, che, per esser nato dalla Miseria e dall'Ingegno (lo attesta Socrate conviviale, lo sottolinea De Crescenzo), è l'archetipo dello scugnizzo - e, sospettiamo, del Cherubino, dei tre Genietti partituràti dal salisburghese.

E allora si può dire che la ricerca del Mozart perduto, bimbo e adolescente in mostra per il sollazzo degli adulti, tacciato di stregoneria, sensuale senza peccato ("no che non mi pento!", canta quel don fatale - vedi p. 164), diavolaccio in paradiso, vivo al cospetto dei morti (il Commendatore), morto in vita (la leggenda dell'avvelenamento, del Requiem), non sia che la ricerca del tempo perduto - e quella era l'alba, e noi i morti. Ricerca di quando tutto era gioco, dunque finzione. Ma finzione che diceva il vero. Che era vera, perché eravamo veri. O almeno, d'esser veri s'aveva la possibilità.





1) Charles Dickens, Impressioni di Napoli, Colonnese editore, Napoli 2005(3); Roberto De Simone, Novelle K666, Einaudi, Torino 2007. Sarà forse opportuno ricordare che la musica di Mozart è stata catalogata da un signor Köchel, che assegnò un numero progressivo ai brani, premesso dalla lettera K (o KV, ove "V" sta per "verzeichnis", che in tedesco è "catalogo, elenco, inventario"). Sicché oggi abbiamo il concerto K466, o la piccola giga K574. Altri cataloghi notevoli: BWV (Bach Werke Verzeichnis, o sia catalogo delle opere di Bach), HWV (Hændel Werke Verzeichnis), R (Ryöm, per Vivaldi: il quale beneficia pure del lavoro del Fanna, perciò F). Il "K" del titolo desimoniano s'ispira dunque al Köchel - che termina però col 626 del Requiem;

2) da un macellaio porcino (sopraffini nello scanno erano quelli di Norcia), là dove proliferavano, intorno al Pantheon - familiarmente noto come "Rotonda", in dialetto "Ritònna" appunto;

3) parodia, nemmeno a dirlo, de La figlia di Iorio - e D'Annunzio se n'ebbe a male, tanto da querelare per plagio (rimettendoci sapone e ranno) il gran guitto napoletano;

4) condensata in frasi-modello quali "il paese dei morti", "il paradiso abitato da diavoli" (che sempre creature degli inferi sono);

5) De Simone non è certo ingenuo, e c'è da credere che non gli sia sfuggita l'operina dell'inglese - indice, un' amica "dotata di un' intransigenza da personaggio dickensiano" (p. 95);

6) Notevole quel che Dickens in queste sue "impressioni" rileva a proposito del teatro regio di Napoli, il San Carlo, e della sua dipendenza, il San Carlino - inutile dire che l'opera dei pupi (le marionette animate a filo) prende nome da questi: "Se i nostri patiti di musica ascoltassero, in Inghilterra, un'opera italiana cantata in maniera anche più soddisfacente rispetto a quanto ci è capitato di udire stasera (...) nello splendido teatro San Carlo, leverebbero alti lamenti sul cattivo gusto nazionale. Al contrario, il piccolo e malandato San Carlino (...) non ha rivali al mondo per la naturalezza e il vigore con cui viene colta e rappresentata la vita reale che attorno ad esso si svolge". (p. 69) Viene in mente la battuta di Orson Welles: "Tutti gli italiani sono ottimi attori, tranne quelli che salgono sul palcoscenico". Va detto che d'un "san Carlino" dedicato alle marionette ho visto il cartello indicatore a villa Borghese, in Roma, nell'aprile di questo 2007;

7) la frase è nel diario di Cesare Pavese, al trentuno (probabile errore per "tredici") ottobre 1938 - forse suscitata dalle riflessioni sulla "Spoon river anthology". Cfr. Il mestiere di vivere, il Saggiatore su lic. Einaudi, Milano 1974(11), p. 122;

8) Nel mio dialetto tiburtino, per indicare l'organo virile, s'usava la perifrasi "ciùfolo a pelle" - come dire "flauto di pelle". "Sona' er ciùfolo a pelle" vale "fellare";

9) vedi l'anonimo "Mozart e la sindrome della parolaccia", in Corriere della Sera - inserto "Salute", li ventisei di luglio del 1993.





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