ATTUALITA'
Stefano Torossi
Coincidenze, ottimismo e piacioneria.
Una coincidenza celeste
Ci è appena arrivato “Tony Del Monaco – un artista in punta di piedi”, magnifico libro biografico e antologico, con molte foto di cantanti e di dischi, firmato da Giancarlo Colaprete e Fernando Fratarcangeli. Fin dalla copertina, la prima cosa che ci ha folgorato è la coincidenza dei nomi: quello del protagonista e quelli degli autori. Un vero e proprio tris divino, anzi, un quartetto, formato da: il monaco, il prete, il frate e gli arcangeli. Neanche a inventarsela si poteva sperare in una combinazione così unica.
Lasciamo perdere gli scherzi e veniamo alla storia. Quella che ci riguarda.
Il tempo: i primi anni sessanta. Il luogo: gli studi della RCA, il mitico stabilimento sulla Via Tiburtina che, oltre ad avere le più belle sale di registrazione d’Europa, forse del mondo, aveva anche un favoloso baretto interno, dove, come niente, prendevano il caffè insieme Frank Sinatra e Von Karajan. E naturalmente anche noi giovincelli sconosciuti, decisi a tuffarci nel mondo della musica, del successo, dei soldi e delle ragazze.
Lì ci si era conosciuti, con Tony, dando il via a un’amicizia viva.
Insieme facemmo anche un paio di 45 giri, che non ebbero nessuna fortuna perché erano poco commerciali ma soprattutto, per la verità, bruttini. Dopo di che, per una di quelle strane derive della vita, non ci siamo più incontrati.
Tanto separati eravamo, che anche la notizia della sua morte, nel ’93, ci arrivò come da una distanza immensa, mentre fra Roma e Sulmona (la sua città) non c’erano che pochi chilometri, e anche gli anni passati non erano poi tanti.
Tony Del Monaco, si diceva. Un bravo cantante, una brava persona; mai uno scandalo, una chiacchiera.
Meno male che adesso c’è questo libro, altrimenti chi se lo ricordava più?
Ottimismo a Nuova Consonanza
19 novembre, Concerto di Nuova Consonanza al Teatro Centrale Preneste, in una strada di quello che negli ultimi tempi viene segnalato come il Bronx di Roma, il Pigneto, un quartiere pericolosissimo, dicono: terra bruciata in mano allo spaccio di droga e alla malavita onnipresente.
Per la verità, sia all’arrivo che alla partenza, a sera inoltrata, l’impressione che abbiamo avuto è stata di trovarci in una normalissima, brutta periferia pasoliniana, senza alcuna sensazione di pericolo, però anche senza percepire quella presunta aura da brillante quartiere degli artisti emergenti che ultimamente viene spacciata per la principale dote della zona.
Invece ci ha fatto sorridere la decisione da parte dell’organizzazione del concerto di eliminare dal programma un brano di Charles Ives: Variazioni su “America” per organo, sostituendolo con variazioni dello stesso su “Adeste fideles”. Per ragioni di “opportunità storica”, ci è stato detto. E’ qui che ci ha colpiti l’ottimismo della benemerita istituzione Nuova Consonanza.
Pensare che un programma di musica contemporanea eseguito in uno spazio semisconosciuto di un quartiere defilato di Roma potesse attirare l’attenzione di qualche terrorista sfigato solo perché dentro c’era “America” è vero e proprio ottimismo. Segnaliamo però che sostituire la pericolosissima “America” con “Adeste fideles”, inno natalizio decisamente cattolico, avrebbe potuto essere un passo falso e rappresentare un ulteriore, anche se su basi diverse, incitamento all’azione (sempre per il terrorista sfigato di prima). In realtà non si è visto nessun kalashnikov.
Lasciando da parte le nostre malignità serpentine, la serata è stata particolarmente piacevole, grazie all’uso sapiente di un doppio coro misto, tre eccellenti solisti e un super direttore, Stefano Cucci. E anche per l’esilarante intermezzo animale in musica “Repmania” di Ada Gentile. E per la chiusura con i Chichester Psalms di Leonard Bernstein, un autore definito a fine concerto da qualcuno dei maestri presenti (e noi siamo d’accordo) “un vero piacione”.
A proposito di piacioni...
Fisiognomica direttoriale: Visto Valerij Gergiev dirigere la Vienna Philarmonic. Nei primi piani concitati sembra ne più ne meno la macchietta dell’operaio dell’Est (salvando la categoria che sicuramente comprende fior di galantuomini): alticcio e infido, barba malrasata, sudore abbondante, occhi e lineamenti alterati dall’alcol. Poco rassicurante davvero.
Superfluo dire che come direttore è bravissimo; come muratore non sappiamo.
Che fotogenia, invece, gli altri colleghi: Von Karajan pensoso, Abbado ispirato, Muti autorevole…
Ci è appena arrivato “Tony Del Monaco – un artista in punta di piedi”, magnifico libro biografico e antologico, con molte foto di cantanti e di dischi, firmato da Giancarlo Colaprete e Fernando Fratarcangeli. Fin dalla copertina, la prima cosa che ci ha folgorato è la coincidenza dei nomi: quello del protagonista e quelli degli autori. Un vero e proprio tris divino, anzi, un quartetto, formato da: il monaco, il prete, il frate e gli arcangeli. Neanche a inventarsela si poteva sperare in una combinazione così unica.
Lasciamo perdere gli scherzi e veniamo alla storia. Quella che ci riguarda.
Il tempo: i primi anni sessanta. Il luogo: gli studi della RCA, il mitico stabilimento sulla Via Tiburtina che, oltre ad avere le più belle sale di registrazione d’Europa, forse del mondo, aveva anche un favoloso baretto interno, dove, come niente, prendevano il caffè insieme Frank Sinatra e Von Karajan. E naturalmente anche noi giovincelli sconosciuti, decisi a tuffarci nel mondo della musica, del successo, dei soldi e delle ragazze.
Lì ci si era conosciuti, con Tony, dando il via a un’amicizia viva.
Insieme facemmo anche un paio di 45 giri, che non ebbero nessuna fortuna perché erano poco commerciali ma soprattutto, per la verità, bruttini. Dopo di che, per una di quelle strane derive della vita, non ci siamo più incontrati.
Tanto separati eravamo, che anche la notizia della sua morte, nel ’93, ci arrivò come da una distanza immensa, mentre fra Roma e Sulmona (la sua città) non c’erano che pochi chilometri, e anche gli anni passati non erano poi tanti.
Tony Del Monaco, si diceva. Un bravo cantante, una brava persona; mai uno scandalo, una chiacchiera.
Meno male che adesso c’è questo libro, altrimenti chi se lo ricordava più?
Ottimismo a Nuova Consonanza
19 novembre, Concerto di Nuova Consonanza al Teatro Centrale Preneste, in una strada di quello che negli ultimi tempi viene segnalato come il Bronx di Roma, il Pigneto, un quartiere pericolosissimo, dicono: terra bruciata in mano allo spaccio di droga e alla malavita onnipresente.
Per la verità, sia all’arrivo che alla partenza, a sera inoltrata, l’impressione che abbiamo avuto è stata di trovarci in una normalissima, brutta periferia pasoliniana, senza alcuna sensazione di pericolo, però anche senza percepire quella presunta aura da brillante quartiere degli artisti emergenti che ultimamente viene spacciata per la principale dote della zona.
Invece ci ha fatto sorridere la decisione da parte dell’organizzazione del concerto di eliminare dal programma un brano di Charles Ives: Variazioni su “America” per organo, sostituendolo con variazioni dello stesso su “Adeste fideles”. Per ragioni di “opportunità storica”, ci è stato detto. E’ qui che ci ha colpiti l’ottimismo della benemerita istituzione Nuova Consonanza.
Pensare che un programma di musica contemporanea eseguito in uno spazio semisconosciuto di un quartiere defilato di Roma potesse attirare l’attenzione di qualche terrorista sfigato solo perché dentro c’era “America” è vero e proprio ottimismo. Segnaliamo però che sostituire la pericolosissima “America” con “Adeste fideles”, inno natalizio decisamente cattolico, avrebbe potuto essere un passo falso e rappresentare un ulteriore, anche se su basi diverse, incitamento all’azione (sempre per il terrorista sfigato di prima). In realtà non si è visto nessun kalashnikov.
Lasciando da parte le nostre malignità serpentine, la serata è stata particolarmente piacevole, grazie all’uso sapiente di un doppio coro misto, tre eccellenti solisti e un super direttore, Stefano Cucci. E anche per l’esilarante intermezzo animale in musica “Repmania” di Ada Gentile. E per la chiusura con i Chichester Psalms di Leonard Bernstein, un autore definito a fine concerto da qualcuno dei maestri presenti (e noi siamo d’accordo) “un vero piacione”.
A proposito di piacioni...
Fisiognomica direttoriale: Visto Valerij Gergiev dirigere la Vienna Philarmonic. Nei primi piani concitati sembra ne più ne meno la macchietta dell’operaio dell’Est (salvando la categoria che sicuramente comprende fior di galantuomini): alticcio e infido, barba malrasata, sudore abbondante, occhi e lineamenti alterati dall’alcol. Poco rassicurante davvero.
Superfluo dire che come direttore è bravissimo; come muratore non sappiamo.
Che fotogenia, invece, gli altri colleghi: Von Karajan pensoso, Abbado ispirato, Muti autorevole…
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