CINEMA E MUSICA
Alfredo Ronci
Come in letteratura, il talento par essere dappertutto: 'Seasons of my soul' della Rumer è carino, ma dov'è la dote?
Non ci si dica che siamo noiosi e ripetitivi, ma anche per Rumer il discorso è quello che si sta facendo, su queste colonne, da un po' di tempo ormai. E riassumiamo sintetizzando in due principali domande: perché mai sembrerebbe (e non lo è) che la produzione indipendente sia più creativa di quella multinazionale? (Anche se non è questo il caso, vista la label multimilionaria della cantante) Perché mai, in questo secolo di cloni e di uggia, escono milioni di dischi e molti sembrano essere capolavori? (E non lo sono. Diceva bene Bertoncelli da noi recentemente intervistato: detesto i revisionisti che scombinano le carte della storia alla ricerca di improbabili capolavori di ieri – in aggiunta a quelli di oggi, che molto, molto spesso sono delle patacche).
Rumer non è una 'patacca' ma non è nemmeno 'sto gran talento dipinto da tanta stampa internazionale e pure nazionale (vedi Repubblica).
Si fa presto a costruire storia e origini stimolanti: lei inglese, trasferitasi sin da bambina in Pakistan per star dietro alla la famiglia, non avendo possibilità di seguire radio e tv (ma dove abitavano? Dentro un bunker?) ascoltava i genitori che inventavano storie e componevano musica. Ed eccola qua, con simile coté, già pronta per spiccare il volo. Che non è quello dell'aquila reale, figuriamoci, semmai del fringuello un po' intirizzito perché colto improvvisamente da un gelo invernale.
Diciamocelo, i riferimenti al canto e all'operina messa sul mercato (con titolo pericolosamente tamariano no?) son tutti giusti e basta ascoltare il pezzo che apre il disco 'Am I forgiven' per rendersene conto: innanzi tutto il maestro, Burt Bacharach, poi alcune vocalist che hanno fatto la storia del canto e del pop, Carole King, la mai dimenticata, ma spessissimo dimenticata dai più Laura Nyro e quella che negli anni sessanta veniva indicata come la più grande cantante bianca del mondo, Dusty Springfield. Come giustissima certa allure da canzone raffinata ad un passo dal lounge (immancabile riferimento a Sade).
Dunque tutto ok ma al dettaglio? Senza sprecarsi troppo e senza dover impilare una dietro l'altra le undici canzoni di Seasons of my soul, basta dire che a parte l'entrée, 'Come to me high' ha l'incedere di una melodia jazzy, che 'Aretha' (dedicata alla grande Franklin che speriamo si riprenda dal serio intervento a cui è stata recentemente sottoposta) è una ballata soul senza troppo mordente ma gradevole, che 'Saving grace' ricorda molto Stevie Wonder e che 'Take me as I am' è a mio avviso il pezzo migliore della raccolta.
Il resto scivola come sapone nell'incedere di una tradizione molto bianca, molto gradevole, molto ma molto bacharachiana, ma assai lontana dalle migliori cose realizzate dal maestro di 'Walk on by' (pensate a cosa è successo con Costello, ma lì viaggiamo su altri lidi).
Non credo ci si debba scostare molto da simile giudizio: il talento, riprendendo il discorso iniziale, è ben altra cosa. Qui siamo di fronte ad un dignitoso artigianato (o 'mestierame') che può solo migliorare.
Ascoltatela pure voi e ne possiamo riparlare.
Rumer
Seasons of my soul
Warner Bros
Rumer non è una 'patacca' ma non è nemmeno 'sto gran talento dipinto da tanta stampa internazionale e pure nazionale (vedi Repubblica).
Si fa presto a costruire storia e origini stimolanti: lei inglese, trasferitasi sin da bambina in Pakistan per star dietro alla la famiglia, non avendo possibilità di seguire radio e tv (ma dove abitavano? Dentro un bunker?) ascoltava i genitori che inventavano storie e componevano musica. Ed eccola qua, con simile coté, già pronta per spiccare il volo. Che non è quello dell'aquila reale, figuriamoci, semmai del fringuello un po' intirizzito perché colto improvvisamente da un gelo invernale.
Diciamocelo, i riferimenti al canto e all'operina messa sul mercato (con titolo pericolosamente tamariano no?) son tutti giusti e basta ascoltare il pezzo che apre il disco 'Am I forgiven' per rendersene conto: innanzi tutto il maestro, Burt Bacharach, poi alcune vocalist che hanno fatto la storia del canto e del pop, Carole King, la mai dimenticata, ma spessissimo dimenticata dai più Laura Nyro e quella che negli anni sessanta veniva indicata come la più grande cantante bianca del mondo, Dusty Springfield. Come giustissima certa allure da canzone raffinata ad un passo dal lounge (immancabile riferimento a Sade).
Dunque tutto ok ma al dettaglio? Senza sprecarsi troppo e senza dover impilare una dietro l'altra le undici canzoni di Seasons of my soul, basta dire che a parte l'entrée, 'Come to me high' ha l'incedere di una melodia jazzy, che 'Aretha' (dedicata alla grande Franklin che speriamo si riprenda dal serio intervento a cui è stata recentemente sottoposta) è una ballata soul senza troppo mordente ma gradevole, che 'Saving grace' ricorda molto Stevie Wonder e che 'Take me as I am' è a mio avviso il pezzo migliore della raccolta.
Il resto scivola come sapone nell'incedere di una tradizione molto bianca, molto gradevole, molto ma molto bacharachiana, ma assai lontana dalle migliori cose realizzate dal maestro di 'Walk on by' (pensate a cosa è successo con Costello, ma lì viaggiamo su altri lidi).
Non credo ci si debba scostare molto da simile giudizio: il talento, riprendendo il discorso iniziale, è ben altra cosa. Qui siamo di fronte ad un dignitoso artigianato (o 'mestierame') che può solo migliorare.
Ascoltatela pure voi e ne possiamo riparlare.
Rumer
Seasons of my soul
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