CLASSICI
Alfredo Ronci
Come una casa solida durante un terremoto: 'Una lunga pazzia' di Antonio Barolini.
In prima edizione nel 1962 Una lunga pazzia rappresentò una sfida: il neorealismo era ormai discorso chiuso. Qualcuno lo decretò morto dopo i fatti d'Ungheria che rappresentarono una sorta di 'diktat' alla voglia di utopia, mentre l'anno successivo si prestò alla nascita di un movimento che avrebbe messo in discussione il romanzo come forma assoluta d'espressione ed i suoi padri putativi.
Fu provocazione, protesta, o solo espressione di un'arte ormai consolidata quella di Antonio Barolini nel pubblicare una storia che ricordava Verga, il verismo in genere se non addirittura la sbandata appendicista?
Forse nulla di ciò se non la rappresentazione netta e polita di una società dominata da un pesante conformismo (come disse Montale) e imbevuta di superstizione religiosa, con i suoi riti ossessivi e le manie feticiste portate alle estreme conseguenze.
Veniamo in breve alla storia: Maria Assunta è una bella ragazza di campagna che viene chiesta in sposa da un uomo non attraente, ma gran lavoratore e proprietario di un bel po' di terreni. Costui, Pietro, ha un unico difetto, quello di essere attratto da una bella e procace mezzadra, Regina, che trama anche per sottrargli una parte di possedimento. Maria Assunta, disperatamente conscia di questa passione, trasferisce il suo affetto nel figlio Marcello che ben presto dovrà occuparsi degli averi per la morte improvvisa del padre. Ma perirà anche lui, più avanti, quando la madre, gelosa di qualsiasi affetto a lui consacrato (sa di una sua relazione con la figlia di Regina), lo avvelenerà nel letto.
Mi preme sottolineare l'aggettivo 'lunga' nel titolo. L'esordio del romanzo è una rapida ambientazione in un manicomio dove Maria Assunta e la fedele Annetta scontano gli ultimi anni dell'esistenza, ma la permanente pazzia della protagonista sembra essere un segno dettato dai tempi: nella rievocazione di un mondo che fu, Barolini insiste nella sua malattia, nelle cerimonialità imbevute di superstizioni e paure.
Non tragga conclusioni ovvie il lettore della presente: non siamo nel profondo sud, ma in un angolo del Veneto, e in un'epoca poi non del tutto lontana (i primi del novecento), anche se lontana da noi la materia di cui è fatta. E che Barolini racconta così: Erano anni nei quali il prepotere dei diritti del maschio su quelli della donna era assai più feroce di quanto non sia oggi. I freni e le remore della religione erano più che mai efficienti; soprattutto l'indissolubilità del matrimonio si imponeva come un dovere universale ed imprescindibile. Né il laicismo inteso come moda o comodità di calcolo quotidiano ed evasione dai più vaghi impegni, aveva toccato la campagna.
Una lunga pazzia possiede un tratteggio psicologico sorprendente e moderno: non tanto nella contrapposizione con un mondo ormai sorpassato e al tramonto, quanto nella dinamicità di nuovi rapporti. L'esempio di quest'ultima nello strano rapporto che intercorre tra Marcello e Giovanni, una sorta di intellettuale 'creativo' diremmo oggi, ma squattrinato che sembra instaurare una liaison quanto meno ambigua: Come nell'amore tra uomo e donna si possono raggiungere momenti perfetti, in un grado dove il senso e l'intelligenza si prestano vicendevole stimolo; così nell'amicizia tra persone di un medesimo sesso, il senso può riuscir ad esprimersi sul piano medesimo dell'intelligenza e creare un'armonia, tra gli esseri che la compongono, anche più rara e sublime.
In realtà, nel corso della storia si capirà quanto la figura di Giovanni sia un contraltare a quella di Marcello: tanto stimolante, espansivo e provocatorio il primo, anche se fatuo, tanto incerto, succube di una presenza femminile invadente e debole il secondo. Del quale Barolini offre un ritratto straordinariamente efficace: Ma questo vigore, Marcello non lo possedeva, e non voleva d'altronde riconoscersi della fragile natura di tutti; si credeva una favilla più grossa, condannata a vivere in mezzo alla dura miseria degli altri, in virtù di una somma ingiustizia; così vagava nella buia palude dei deboli e dei pazzi. Per i quali esiste l'idolatria delle larve, cioè delle infinite e inconsistenti apparenze offerte agli occhi di coloro che non sanno rintracciare l'unità del divino. Marcello aveva quindi sempre, si può dire, una teoria nuova; e tutte insieme formavano la quintessenza delle metafisiche dei fatui.
Basterebbe questo brano per rendersi conto delle capacità linguistiche del Barolini che, per natura e passione, era più avvezzo a frequentar poesia che non il romanzo. Anche se nel corso degli anni sessanta tornò un paio di volte sul luogo del 'delitto' con Le notti della paura (1967) e Le memorie di Stefano (1969) che ancor più de Una lunga pazzia, fa i conti con la tradizione appendicista della nostra letteratura.
Lo abbiamo detto all'inizio, la materia della storia lo fa un'eccezione tra le eccezioni: cioè, quando il mondo sembra schiudersi ad altre forme, Barolini sembra accentuare lo scontro con chi vuole la forma romanzo morta o superata. E lo fa con una vicenda 'classicissima' e verghiana (Pietro, il marito di Maria Assunta come una sorta di Mastro Don Gesualdo?).
Il recupero che se ne fa, dunque, non è uno sfizio letterario, è un compendio. Di tutto.
L'edizione da noi considerata è:
Antonio Barolini
Una lunga pazzia
Garzanti per tutti - 1967
Fu provocazione, protesta, o solo espressione di un'arte ormai consolidata quella di Antonio Barolini nel pubblicare una storia che ricordava Verga, il verismo in genere se non addirittura la sbandata appendicista?
Forse nulla di ciò se non la rappresentazione netta e polita di una società dominata da un pesante conformismo (come disse Montale) e imbevuta di superstizione religiosa, con i suoi riti ossessivi e le manie feticiste portate alle estreme conseguenze.
Veniamo in breve alla storia: Maria Assunta è una bella ragazza di campagna che viene chiesta in sposa da un uomo non attraente, ma gran lavoratore e proprietario di un bel po' di terreni. Costui, Pietro, ha un unico difetto, quello di essere attratto da una bella e procace mezzadra, Regina, che trama anche per sottrargli una parte di possedimento. Maria Assunta, disperatamente conscia di questa passione, trasferisce il suo affetto nel figlio Marcello che ben presto dovrà occuparsi degli averi per la morte improvvisa del padre. Ma perirà anche lui, più avanti, quando la madre, gelosa di qualsiasi affetto a lui consacrato (sa di una sua relazione con la figlia di Regina), lo avvelenerà nel letto.
Mi preme sottolineare l'aggettivo 'lunga' nel titolo. L'esordio del romanzo è una rapida ambientazione in un manicomio dove Maria Assunta e la fedele Annetta scontano gli ultimi anni dell'esistenza, ma la permanente pazzia della protagonista sembra essere un segno dettato dai tempi: nella rievocazione di un mondo che fu, Barolini insiste nella sua malattia, nelle cerimonialità imbevute di superstizioni e paure.
Non tragga conclusioni ovvie il lettore della presente: non siamo nel profondo sud, ma in un angolo del Veneto, e in un'epoca poi non del tutto lontana (i primi del novecento), anche se lontana da noi la materia di cui è fatta. E che Barolini racconta così: Erano anni nei quali il prepotere dei diritti del maschio su quelli della donna era assai più feroce di quanto non sia oggi. I freni e le remore della religione erano più che mai efficienti; soprattutto l'indissolubilità del matrimonio si imponeva come un dovere universale ed imprescindibile. Né il laicismo inteso come moda o comodità di calcolo quotidiano ed evasione dai più vaghi impegni, aveva toccato la campagna.
Una lunga pazzia possiede un tratteggio psicologico sorprendente e moderno: non tanto nella contrapposizione con un mondo ormai sorpassato e al tramonto, quanto nella dinamicità di nuovi rapporti. L'esempio di quest'ultima nello strano rapporto che intercorre tra Marcello e Giovanni, una sorta di intellettuale 'creativo' diremmo oggi, ma squattrinato che sembra instaurare una liaison quanto meno ambigua: Come nell'amore tra uomo e donna si possono raggiungere momenti perfetti, in un grado dove il senso e l'intelligenza si prestano vicendevole stimolo; così nell'amicizia tra persone di un medesimo sesso, il senso può riuscir ad esprimersi sul piano medesimo dell'intelligenza e creare un'armonia, tra gli esseri che la compongono, anche più rara e sublime.
In realtà, nel corso della storia si capirà quanto la figura di Giovanni sia un contraltare a quella di Marcello: tanto stimolante, espansivo e provocatorio il primo, anche se fatuo, tanto incerto, succube di una presenza femminile invadente e debole il secondo. Del quale Barolini offre un ritratto straordinariamente efficace: Ma questo vigore, Marcello non lo possedeva, e non voleva d'altronde riconoscersi della fragile natura di tutti; si credeva una favilla più grossa, condannata a vivere in mezzo alla dura miseria degli altri, in virtù di una somma ingiustizia; così vagava nella buia palude dei deboli e dei pazzi. Per i quali esiste l'idolatria delle larve, cioè delle infinite e inconsistenti apparenze offerte agli occhi di coloro che non sanno rintracciare l'unità del divino. Marcello aveva quindi sempre, si può dire, una teoria nuova; e tutte insieme formavano la quintessenza delle metafisiche dei fatui.
Basterebbe questo brano per rendersi conto delle capacità linguistiche del Barolini che, per natura e passione, era più avvezzo a frequentar poesia che non il romanzo. Anche se nel corso degli anni sessanta tornò un paio di volte sul luogo del 'delitto' con Le notti della paura (1967) e Le memorie di Stefano (1969) che ancor più de Una lunga pazzia, fa i conti con la tradizione appendicista della nostra letteratura.
Lo abbiamo detto all'inizio, la materia della storia lo fa un'eccezione tra le eccezioni: cioè, quando il mondo sembra schiudersi ad altre forme, Barolini sembra accentuare lo scontro con chi vuole la forma romanzo morta o superata. E lo fa con una vicenda 'classicissima' e verghiana (Pietro, il marito di Maria Assunta come una sorta di Mastro Don Gesualdo?).
Il recupero che se ne fa, dunque, non è uno sfizio letterario, è un compendio. Di tutto.
L'edizione da noi considerata è:
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Garzanti per tutti - 1967
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