CLASSICI
Alfredo Ronci
Consolatorio o problematico? Direi subdolo: 'La cieca di Sorrento' di Francesco Mastriani.

Ne Il processo Kafka scrive: "No" disse il sacerdote "non si deve credere che tutto è vero, si deve credere soltanto che tutto è necessario". "Malinconica opinione" commentò K. "Così della menzogna si fa una norma universale".
Perché della 'panzana' vado a cercar padri putativi? Perché tutto si è detto e scritto sull'arte del Francesco Mastriani, e soprattutto del suo più famoso romanzo La cieca di Sorrento (1852), tranne che all'apice del senso ultimo di questo vi sia la bugia. E grossa pure come una casa.
Aveva ragione Mario Lavagetto che nell'introduzione al suo bel saggio La cicatrice di Montaigne aveva appuntato: La bugia, in quanto costruzione linguistica, è in ogni momento minacciata dalla verità che il più piccolo lapsus può riportare a galla: paradossalmente la verità parla, allora, attraverso l'errore.
Dunque su La cieca di Sorrento vi è una sostanza finora ignorata (e che ci stanno a fare gli orchi? A far collezione di farfalle?): perché la storia della fanciulla resa cieca dal trauma per la morte della madre, uccisa sotto i suoi occhi, e che si 'ritrova' a sposare il figlio quasi deforme dell'assassino della genitrice offre suggerimenti diversi dai soliti che sputa il critico (aggettivo) 'dettato'.
Per esempio: non mi piace quando Eco, parlando del genere 'aristocratico-appendicista' (che sembra più branca della medicina specialistica, che movimento letterario) lo definisce consolatorio contrapponendolo a quello problematico, che poi sarebbe il romanzo più 'intelligente' ed intellettuale. Consolatorio perché nazional-popolare ed ergo privo di finezze psicologiche?
Probabilmente è anche così, ma la lettura attenta de La cieca di Sorrento (chi mai l'avrà fatta, di questi tempi?) rivela una 'finesse' indagatrice dell'animo non elementare. Anzi. Basterebbe riportare, e io lo riporto, il passo prezioso del matrimonio della cieca (ormai non più cieca perché curata dal suo sposo che è un luminare dell'oculistica) col deforme Oliviero Blackman (qui, se vogliamo, vi è un'ulteriore sottigliezza anche se segnata da intuizioni 'lombrosiane': s'indica l'uomonero come già marchiato della colpa del padre assassino ed inquadrarlo in una dinamica deviante) per allontanare dal buon lettore l'impressione di una rudimentale resa psicologica: In tutte le vie, per le quali passavano le carrozze, si levò un grido di benedizione agli sposi e al marchese Rionero; da tutte le parti si udivano parole di ammirazione per la bellezza della sposa; non mancarono quelle che trovarono bello anche lo sposo, tanta è la forza dell'entusiasmo nel cuore di onesta gente della campagna e dei villaggi.
Si dirà: in pochi cenni Mastriani costruisce una sociologia dell'ottocento (la vicenda si svolge negli anni 20/40 del suddetto secolo) non disgiunta da una netta e 'polita' visuale della condizione della donna pagine più avanti, che non è antifemminista, ma sottilmente azzeccata: L'impero delle donne, che il secolo decimo nono ha distrutto, non si trova che nelle sale da ballo.
Ma non vorrei far mio il detto napoletano 'Chi nasce è bello, chi sposa è buono, chi muore è santo: No. La cieca di Sorrento è romanzo assai imperfetto e prevedibile, soprattutto, come consuetudine dell'epoca, nell'uso costante dell'iperbole: dove tutto impallidisce, trema, manda gridi d'orrore, illividisce, sanguina, rabbrividisce, si copre di pallore mortale (a dire il vero è sempre la donna a manifestare certe 'esagerazioni'). Ma l'imperfezione, crediamo noi, non è causa di impreparazione o fatuità, Mastriani era uomo preparato ed intellettuale, quanto nella predisposizione all'acchiappo: in fondo, cosa fanno i nostri scrittori contemporanei se non scrivere di facezie sapendo che c'è una massa che adora gli slogan?
Lo scrittore napoletano sapeva il fatto suo, circuiva il pubblico, ma con una predisposizione alla bontà: mica lo trattava male, perché i suoi romanzi (un numero infinito, secondo quanto raccolto dal figlio) erano (e lo sono ancora, nonostante tutto) maledettamente conchiusi.
E poi quel finale 'bugiardo' (che ovviamente non rivelo), sul quale nessuno ha posto una giusta attenzione, ce lo fa sentire più subdolamente vicino.
Perché in fondo hanno sempre ragione i napoletani: 'O vero amico 'o ricanusce 'a comme te dice 'e fessarie! Il vero amico lo si riconosce da come racconta le fesserie!
L'edizione da noi considerata è:
Francesco Mastriani
La cieca di Sorrento
Lucchi editore - 1980
Perché della 'panzana' vado a cercar padri putativi? Perché tutto si è detto e scritto sull'arte del Francesco Mastriani, e soprattutto del suo più famoso romanzo La cieca di Sorrento (1852), tranne che all'apice del senso ultimo di questo vi sia la bugia. E grossa pure come una casa.
Aveva ragione Mario Lavagetto che nell'introduzione al suo bel saggio La cicatrice di Montaigne aveva appuntato: La bugia, in quanto costruzione linguistica, è in ogni momento minacciata dalla verità che il più piccolo lapsus può riportare a galla: paradossalmente la verità parla, allora, attraverso l'errore.
Dunque su La cieca di Sorrento vi è una sostanza finora ignorata (e che ci stanno a fare gli orchi? A far collezione di farfalle?): perché la storia della fanciulla resa cieca dal trauma per la morte della madre, uccisa sotto i suoi occhi, e che si 'ritrova' a sposare il figlio quasi deforme dell'assassino della genitrice offre suggerimenti diversi dai soliti che sputa il critico (aggettivo) 'dettato'.
Per esempio: non mi piace quando Eco, parlando del genere 'aristocratico-appendicista' (che sembra più branca della medicina specialistica, che movimento letterario) lo definisce consolatorio contrapponendolo a quello problematico, che poi sarebbe il romanzo più 'intelligente' ed intellettuale. Consolatorio perché nazional-popolare ed ergo privo di finezze psicologiche?
Probabilmente è anche così, ma la lettura attenta de La cieca di Sorrento (chi mai l'avrà fatta, di questi tempi?) rivela una 'finesse' indagatrice dell'animo non elementare. Anzi. Basterebbe riportare, e io lo riporto, il passo prezioso del matrimonio della cieca (ormai non più cieca perché curata dal suo sposo che è un luminare dell'oculistica) col deforme Oliviero Blackman (qui, se vogliamo, vi è un'ulteriore sottigliezza anche se segnata da intuizioni 'lombrosiane': s'indica l'uomonero come già marchiato della colpa del padre assassino ed inquadrarlo in una dinamica deviante) per allontanare dal buon lettore l'impressione di una rudimentale resa psicologica: In tutte le vie, per le quali passavano le carrozze, si levò un grido di benedizione agli sposi e al marchese Rionero; da tutte le parti si udivano parole di ammirazione per la bellezza della sposa; non mancarono quelle che trovarono bello anche lo sposo, tanta è la forza dell'entusiasmo nel cuore di onesta gente della campagna e dei villaggi.
Si dirà: in pochi cenni Mastriani costruisce una sociologia dell'ottocento (la vicenda si svolge negli anni 20/40 del suddetto secolo) non disgiunta da una netta e 'polita' visuale della condizione della donna pagine più avanti, che non è antifemminista, ma sottilmente azzeccata: L'impero delle donne, che il secolo decimo nono ha distrutto, non si trova che nelle sale da ballo.
Ma non vorrei far mio il detto napoletano 'Chi nasce è bello, chi sposa è buono, chi muore è santo: No. La cieca di Sorrento è romanzo assai imperfetto e prevedibile, soprattutto, come consuetudine dell'epoca, nell'uso costante dell'iperbole: dove tutto impallidisce, trema, manda gridi d'orrore, illividisce, sanguina, rabbrividisce, si copre di pallore mortale (a dire il vero è sempre la donna a manifestare certe 'esagerazioni'). Ma l'imperfezione, crediamo noi, non è causa di impreparazione o fatuità, Mastriani era uomo preparato ed intellettuale, quanto nella predisposizione all'acchiappo: in fondo, cosa fanno i nostri scrittori contemporanei se non scrivere di facezie sapendo che c'è una massa che adora gli slogan?
Lo scrittore napoletano sapeva il fatto suo, circuiva il pubblico, ma con una predisposizione alla bontà: mica lo trattava male, perché i suoi romanzi (un numero infinito, secondo quanto raccolto dal figlio) erano (e lo sono ancora, nonostante tutto) maledettamente conchiusi.
E poi quel finale 'bugiardo' (che ovviamente non rivelo), sul quale nessuno ha posto una giusta attenzione, ce lo fa sentire più subdolamente vicino.
Perché in fondo hanno sempre ragione i napoletani: 'O vero amico 'o ricanusce 'a comme te dice 'e fessarie! Il vero amico lo si riconosce da come racconta le fesserie!
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Francesco Mastriani
La cieca di Sorrento
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