CLASSICI
lfredo Ronci
E’ il cattolicesimo laico, signora mia! : ‘Un altare per la madre’ di Ferdinando Camon.
Sono di formazione rigidissimamente cattolica. Sono di tendenza fortissimamente comunista. Non dico marxista, perché non sono, e forse non potrò mai essere, ateo. Del comunismo mi interessava il programma di riscatto sociale, l’affrancamento dalla miseria delle classi che ne sono schiacciate, quella operaia e, più, quella contadina, la loro promozione sociale, e la parificazione della società attraverso una ridistribuzione fra tutti delle forme di potere, e del principale potere, quello della cultura. La mancanza di cultura tra le classi povere è stata l’arma con cui esse sono state tenute povere.
In effetti la rappresentazione del mondo dei poveri, in special riguardo di quello contadino, fu una sorta di ossessione nella produzione letteraria di Camon, tanto che lo stesso autore, nel tentativo di dare una sistemazione alla sua opera, ne compose un ciclo narrativo che lui chiamò ‘ciclo degli ultimi’: certamente ultimi dal punto di vista evangelico, ma soprattutto dal punto di vista sociale, i più in basso nella piramide della ricchezza.
Un altare per la madre, premio Strega nel 1978, costituisce la terza parte del trittico: la prima era il romanzo La vita eterna che nella prima edizione era introdotto da Pasolini e che secondo le stesse parole di Camon si limitava ad una descrizione dei tabù, dei riti, delle credenze e delle superstizioni della vita dei contadini. Ma con il Quinto stato e soprattutto con Un altare della madre, la figurazione di questa esistenza rituale prende una forma diversa, dove al senso tragico e a volte grottesco di questa, si sostituisce un quadro epico e anche commosso.
Un altare della madre è la storia di un figlio che perde la madre e solo dopo si accorge di amarla ancora e molto e di non aver mai trovato le parole per dirglielo. Cerca allora di salvarla dalla morte e dall’oblio costruendo un altare all’interno di un edificio posto nel punto esatto in cui la genitrice aveva salvato un partigiano in fuga dai nazi-fascisti.
Un tempio votivo che è anche la giusta consacrazione degli umili, di coloro che apparentemente non fanno la Storia, ma i cui piccoli gesti di coraggio, o semplicemente di un senso radicato dell’esistenza, sono l’anima dell’essenza contadina.
Credo che sia per questo che scrivo di lei, perché se il destino di meritare l’immortalità (come sto raccontando) toccò a lei, può toccare a tutti, basta che siano abbastanza umili.
Non spaventi poi nella lettura la commistione tra un’anima corale profondamente laica e un cattolicesimo rituale, immobile nel tempo. Non è segno di contrasto: quello che nelle stesse parole di Camon, la rigidità cattolica e la forte tendenza comunista, sembrano essere inconciliabili, sono in realtà facce di una stessa medaglia. Una sfera religiosa intensa che si accomuna a pratiche delle virtù sociali.
Non solo il gesto della madre che copre la fuga di un partigiano, ma anche quello dello stesso padre del protagonista che pur di non andare in guerra si ferisce ad un ginocchio perché il suo spirito è profondamente non violento, sono tracce di un sentire quasi rivoluzionario.
Quel che mi sentirei di escludere nel libro è cercare un rapporto con i tempi di uscita: la prima edizione fu del ’78 e il laboratorio politico del nostro paese era tutto preso nel tentativo, parzialmente riuscito, di un compromesso storico che eliminasse contrasti quasi secolari.
Direi che l’intenzione di Camon non fosse ideologica, o quanto meno di riverbero: era un sentire di un’anima che pur profondamente ‘distaccata’ e aconfessionale faceva i conti con le proprie origini e le proprie radici.
Al centro del libro rimane comunque la rappresentazione della povertà: nel ritratto della madre per esempio… da marzo a settembre camminava scalza. Aveva la pelle sotto i piedi spessa e dura come cuoio, con larghi crepi. Nei crepi s’infilavano sassolini, erbe, stecchi. Li estraeva con un ago, uno alla volta, alla sera, prima di andare a letto, piantando sul pavimento una candela e accoccolandosi vicino… o in quella, semplicemente, di vita quotidiana ordinaria: Guardavamo i travi del tetto, da cui pendevano piccoli ghiaccioli bianchi, luccicanti: la sera prima non c’erano: era l’umidità che si era gelata durante la notte. Il primo che parlava, nessuno lo riconosceva: la voce del mattino era sempre diversa da quella della sera.
Inutile dirlo: un libro da riscoprire, nonostante i tempi della scrittura siano anni luce lontani dalla nostra confusa contemporaneità (e pensare che allora i contrasti insanabili tra forze sociali e impulsi terroristici segnavano un caos che solo chi li ha vissuti può testimoniare fino in fondo).
Un libro che ci restituisce un mondo, quello dei contadini, ormai definitivamente perduto, nonostante nelle riflessioni di questi momenti economicamente soperchianti, il recupero di questo si presenti quasi possibile, ma nella realtà dei fatti del tutto utopico.
L’edizione da noi considerata è:
Ferdinando Camon
Un altare per la madre
Garzanti - 1969
In effetti la rappresentazione del mondo dei poveri, in special riguardo di quello contadino, fu una sorta di ossessione nella produzione letteraria di Camon, tanto che lo stesso autore, nel tentativo di dare una sistemazione alla sua opera, ne compose un ciclo narrativo che lui chiamò ‘ciclo degli ultimi’: certamente ultimi dal punto di vista evangelico, ma soprattutto dal punto di vista sociale, i più in basso nella piramide della ricchezza.
Un altare per la madre, premio Strega nel 1978, costituisce la terza parte del trittico: la prima era il romanzo La vita eterna che nella prima edizione era introdotto da Pasolini e che secondo le stesse parole di Camon si limitava ad una descrizione dei tabù, dei riti, delle credenze e delle superstizioni della vita dei contadini. Ma con il Quinto stato e soprattutto con Un altare della madre, la figurazione di questa esistenza rituale prende una forma diversa, dove al senso tragico e a volte grottesco di questa, si sostituisce un quadro epico e anche commosso.
Un altare della madre è la storia di un figlio che perde la madre e solo dopo si accorge di amarla ancora e molto e di non aver mai trovato le parole per dirglielo. Cerca allora di salvarla dalla morte e dall’oblio costruendo un altare all’interno di un edificio posto nel punto esatto in cui la genitrice aveva salvato un partigiano in fuga dai nazi-fascisti.
Un tempio votivo che è anche la giusta consacrazione degli umili, di coloro che apparentemente non fanno la Storia, ma i cui piccoli gesti di coraggio, o semplicemente di un senso radicato dell’esistenza, sono l’anima dell’essenza contadina.
Credo che sia per questo che scrivo di lei, perché se il destino di meritare l’immortalità (come sto raccontando) toccò a lei, può toccare a tutti, basta che siano abbastanza umili.
Non spaventi poi nella lettura la commistione tra un’anima corale profondamente laica e un cattolicesimo rituale, immobile nel tempo. Non è segno di contrasto: quello che nelle stesse parole di Camon, la rigidità cattolica e la forte tendenza comunista, sembrano essere inconciliabili, sono in realtà facce di una stessa medaglia. Una sfera religiosa intensa che si accomuna a pratiche delle virtù sociali.
Non solo il gesto della madre che copre la fuga di un partigiano, ma anche quello dello stesso padre del protagonista che pur di non andare in guerra si ferisce ad un ginocchio perché il suo spirito è profondamente non violento, sono tracce di un sentire quasi rivoluzionario.
Quel che mi sentirei di escludere nel libro è cercare un rapporto con i tempi di uscita: la prima edizione fu del ’78 e il laboratorio politico del nostro paese era tutto preso nel tentativo, parzialmente riuscito, di un compromesso storico che eliminasse contrasti quasi secolari.
Direi che l’intenzione di Camon non fosse ideologica, o quanto meno di riverbero: era un sentire di un’anima che pur profondamente ‘distaccata’ e aconfessionale faceva i conti con le proprie origini e le proprie radici.
Al centro del libro rimane comunque la rappresentazione della povertà: nel ritratto della madre per esempio… da marzo a settembre camminava scalza. Aveva la pelle sotto i piedi spessa e dura come cuoio, con larghi crepi. Nei crepi s’infilavano sassolini, erbe, stecchi. Li estraeva con un ago, uno alla volta, alla sera, prima di andare a letto, piantando sul pavimento una candela e accoccolandosi vicino… o in quella, semplicemente, di vita quotidiana ordinaria: Guardavamo i travi del tetto, da cui pendevano piccoli ghiaccioli bianchi, luccicanti: la sera prima non c’erano: era l’umidità che si era gelata durante la notte. Il primo che parlava, nessuno lo riconosceva: la voce del mattino era sempre diversa da quella della sera.
Inutile dirlo: un libro da riscoprire, nonostante i tempi della scrittura siano anni luce lontani dalla nostra confusa contemporaneità (e pensare che allora i contrasti insanabili tra forze sociali e impulsi terroristici segnavano un caos che solo chi li ha vissuti può testimoniare fino in fondo).
Un libro che ci restituisce un mondo, quello dei contadini, ormai definitivamente perduto, nonostante nelle riflessioni di questi momenti economicamente soperchianti, il recupero di questo si presenti quasi possibile, ma nella realtà dei fatti del tutto utopico.
L’edizione da noi considerata è:
Ferdinando Camon
Un altare per la madre
Garzanti - 1969
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