CLASSICI
Alfredo Ronci
Essere o non essere? Questo il problema di Gian Dàuli: 'La cabala bianca'.
Non è facile interpretare al meglio il titolo di questo fluviale ed onirico romanzo di Gian Dàuli. Escluderei la ritualistica ebraica e tutto ciò che ad essa è collegato. Mi parrebbe di più dar senso ad una condizione figurata del termine: tipo... fregatura. Dice infatti il protagonista, Carlo Filippo Valvai: Chi sei? Dove vai? Spiegami la vita! Spiegami la morte! Spiegami l'infinto! Cabala Bianca! Povero titolo che non dice nulla e che vorrebbe dir tutto. Pur tuttavia, è questa la storia vera della mia esistenza.
Ma debbo raccontare i fatti. Le chiacchiere a che servono?
Romanzo (datato 1944) davvero inusuale per la nostra letteratura, tanto che, tranne rarissime eccezioni, non ha avuto la fortuna ed il merito che gli competerebbe: non ha avuto nemmeno una grande vita editoriale, presto scomparso dagli scaffali (per i più curiosi: esiste un'edizione, diversa da questa che trattiamo e che è l'originale, edita da Franco Maria Ricci, ma si sa, per acquisire certe pubblicazioni bisogna fare un leasing).
Ma originale fu soprattutto l'autore: se mi si consente etichettarlo a modo lo definirei modernamente un agitatore culturale. Scrittore, editore, giornalista, critico e traduttore Gian Dàuli (pseudonimo, uno dei tanti che utilizzò in vita, di Giuseppe Ugo Nalato) fu soprattutto un esploratore letterario e a lui dobbiamo le prime traduzioni di Martin du Gard , un premio Nobel allora ignorato dalla critica ufficiale italiana.
La cabala bianca è, nella sua disconoscenza della realtà, romanzo assai pirandelliano e rocambolesco (zavattiniano nella sua vis comica), dove il protagonista vive una sorta di dissociazione mentale confondendo in continuazione la vita vissuta con quella sognata (arrivando persino a dire: sicché giunsi alla conclusione che la vita sognata stancava quanto quella vissuta) e dove non è possibile appigliarsi a nulla perché nel momento in cui ci si crede nel 'vero' si ha immediatamente la percezione del 'falso', di ciò che è impossibile vivere.
Il protagonista, nella sua Odissea, sembra in continuazione aprire porte: che sembrerebbero della percezione, quando teatralmente ridotte farebbero pensare ai coup de téâtre delle rappresentazioni alla Feydeau. Invece sono solo segmenti di un incubo senza fine, dove si moltiplicano i personaggi a seconda del momento 'immaginato' e dove la lezione freudiana dell'interpretazione dei sogni è con evidenza percepita, soprattutto nella straordinaria varianza delle visioni.
In piena tragedia bellica (ricordiamo che il romanzo uscì nel 1944, un anno prima della scomparsa dell'autore per un improvviso arresto cardiaco), Dàuli preferisce 'giocare' con una moltitudine di attori che entrano ed escono dalla scena apparentemente sconnessi: Clementina (la moglie del protagonista), Piero (il suo migliore amico), Clelia (la ragazza tuttofare), Monica (la cognata), Teresa (la nipote prediletta) Gabriella (l'amante misteriosa. Davvero esistente?) Bernabò (il figlio tanto desiderato. Davvero esistente?) e decine e decine di comparse, sembrano sostenere un ruolo cinematografico da film ad alto contenuto comico. Il protagonista pare un Ridolini impazzito che nella sua peripatetica incertezza volteggia tra un ambiente e l'altro, tra uno studio di posa e l'altro, affiancato da 'spalle' formidabili che ricordano l'incedere chapliniano.
Per non parlare dei dialoghi: surreali, fittizi, irrazionali.
Un esempio: - Spero ti ricorderai – mi disse un bel giorno Clementina, con una faccia da funerale che mi allarmò – che io avevo una sorella che si chiamava Monica.
- E' morta?
- Morta? Tu ben sai che è morta dal giorno che io dovetti considerarla non più viva.
- E allora?
Quando Dàuli, dopo esser stato ferito durante la prima guerra mondiale, tornò a Milano si dedicò alla letteratura pubblicando alcuni romanzi ed alcune novelle poi raccolte nel 1934 sotto il titolo di Le innamorate; successivamente fu introdotto ne 'La Modernissima', una casa editrice che negli anni venti competeva con Mondadori, il cui programma ben s'adattava alle ispirazioni dello scrittore vicentino: E' suo compito pubblicare ottimi romanzi italiani e stranieri, i quali non siano le solite narrazioni che hanno ormai tediato il pubblico, ma rappresentino invece realizzazioni artistiche singolari e vitali, espressioni di una parola nuova, vere e proprie opere d'arte.
Cabala Bianca, nell'anno terribilis della sua uscita, rappresentava proprio qualcosa di nuovo e stimolante, persino, mi si conceda il termine, aggressivo. Peccato che Dàuli morì appena l'anno dopo. Mi chiedo: nella stagione del neorealismo letterario e cinematografico cos'altro avrebbe inventato pur di non ricadere in 'narrazioni che hanno ormai tediato il pubblico'?
Purtroppo non ci è dato sapere.
P.S. In occasione del salone del Libro di Francoforte del 1985 i critici francesi scoprirono all'improvviso Dàuli e qualcuno di loro si spinse ad affermare che Cabala bianca era uno dei massimi capolavori della letteratura italiana del Novecento. Non servì a nulla. Tutt'ora Dàuli è ignorato e il suo grande romanzo mai ri-pubblicato.
L'edizione da noi considerata è:
Gian Dàuli
Cabala Bianca
Modernissima - 1944
Ma debbo raccontare i fatti. Le chiacchiere a che servono?
Romanzo (datato 1944) davvero inusuale per la nostra letteratura, tanto che, tranne rarissime eccezioni, non ha avuto la fortuna ed il merito che gli competerebbe: non ha avuto nemmeno una grande vita editoriale, presto scomparso dagli scaffali (per i più curiosi: esiste un'edizione, diversa da questa che trattiamo e che è l'originale, edita da Franco Maria Ricci, ma si sa, per acquisire certe pubblicazioni bisogna fare un leasing).
Ma originale fu soprattutto l'autore: se mi si consente etichettarlo a modo lo definirei modernamente un agitatore culturale. Scrittore, editore, giornalista, critico e traduttore Gian Dàuli (pseudonimo, uno dei tanti che utilizzò in vita, di Giuseppe Ugo Nalato) fu soprattutto un esploratore letterario e a lui dobbiamo le prime traduzioni di Martin du Gard , un premio Nobel allora ignorato dalla critica ufficiale italiana.
La cabala bianca è, nella sua disconoscenza della realtà, romanzo assai pirandelliano e rocambolesco (zavattiniano nella sua vis comica), dove il protagonista vive una sorta di dissociazione mentale confondendo in continuazione la vita vissuta con quella sognata (arrivando persino a dire: sicché giunsi alla conclusione che la vita sognata stancava quanto quella vissuta) e dove non è possibile appigliarsi a nulla perché nel momento in cui ci si crede nel 'vero' si ha immediatamente la percezione del 'falso', di ciò che è impossibile vivere.
Il protagonista, nella sua Odissea, sembra in continuazione aprire porte: che sembrerebbero della percezione, quando teatralmente ridotte farebbero pensare ai coup de téâtre delle rappresentazioni alla Feydeau. Invece sono solo segmenti di un incubo senza fine, dove si moltiplicano i personaggi a seconda del momento 'immaginato' e dove la lezione freudiana dell'interpretazione dei sogni è con evidenza percepita, soprattutto nella straordinaria varianza delle visioni.
In piena tragedia bellica (ricordiamo che il romanzo uscì nel 1944, un anno prima della scomparsa dell'autore per un improvviso arresto cardiaco), Dàuli preferisce 'giocare' con una moltitudine di attori che entrano ed escono dalla scena apparentemente sconnessi: Clementina (la moglie del protagonista), Piero (il suo migliore amico), Clelia (la ragazza tuttofare), Monica (la cognata), Teresa (la nipote prediletta) Gabriella (l'amante misteriosa. Davvero esistente?) Bernabò (il figlio tanto desiderato. Davvero esistente?) e decine e decine di comparse, sembrano sostenere un ruolo cinematografico da film ad alto contenuto comico. Il protagonista pare un Ridolini impazzito che nella sua peripatetica incertezza volteggia tra un ambiente e l'altro, tra uno studio di posa e l'altro, affiancato da 'spalle' formidabili che ricordano l'incedere chapliniano.
Per non parlare dei dialoghi: surreali, fittizi, irrazionali.
Un esempio: - Spero ti ricorderai – mi disse un bel giorno Clementina, con una faccia da funerale che mi allarmò – che io avevo una sorella che si chiamava Monica.
- E' morta?
- Morta? Tu ben sai che è morta dal giorno che io dovetti considerarla non più viva.
- E allora?
Quando Dàuli, dopo esser stato ferito durante la prima guerra mondiale, tornò a Milano si dedicò alla letteratura pubblicando alcuni romanzi ed alcune novelle poi raccolte nel 1934 sotto il titolo di Le innamorate; successivamente fu introdotto ne 'La Modernissima', una casa editrice che negli anni venti competeva con Mondadori, il cui programma ben s'adattava alle ispirazioni dello scrittore vicentino: E' suo compito pubblicare ottimi romanzi italiani e stranieri, i quali non siano le solite narrazioni che hanno ormai tediato il pubblico, ma rappresentino invece realizzazioni artistiche singolari e vitali, espressioni di una parola nuova, vere e proprie opere d'arte.
Cabala Bianca, nell'anno terribilis della sua uscita, rappresentava proprio qualcosa di nuovo e stimolante, persino, mi si conceda il termine, aggressivo. Peccato che Dàuli morì appena l'anno dopo. Mi chiedo: nella stagione del neorealismo letterario e cinematografico cos'altro avrebbe inventato pur di non ricadere in 'narrazioni che hanno ormai tediato il pubblico'?
Purtroppo non ci è dato sapere.
P.S. In occasione del salone del Libro di Francoforte del 1985 i critici francesi scoprirono all'improvviso Dàuli e qualcuno di loro si spinse ad affermare che Cabala bianca era uno dei massimi capolavori della letteratura italiana del Novecento. Non servì a nulla. Tutt'ora Dàuli è ignorato e il suo grande romanzo mai ri-pubblicato.
L'edizione da noi considerata è:
Gian Dàuli
Cabala Bianca
Modernissima - 1944
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