INTERVISTE
Fabio Stassi
Come è consuetudine vuoi dire ai nostri innumerevoli lettori cosa hai fatto prima della pubblicazione del libro?
Potrei dire che l'ho passata suonando in un locale brasiliano la canzone che dà il titolo al libro oppure che sono rimasto sveglio per tutta la notte a bere cachaca davanti al televisore mentre rivedevo a ripetizione Italia-Germania del 1970... no, la realtà è sempre più prosaica. Sono stato a letto, con la febbre alta... avevo aspettato così tanto quel giorno che quando finalmente è arrivato, il mio fisico ha avuto un crollo...
Nella recensione al tuo libro ho affrontato la "questio" della necessità di una documentazione all'origine di ogni scrittura. Puoi dire la tua?
Garcia Marquez sostiene che per ogni libro che scrive ne legge almeno duecento per prepararlo. Non sono arrivato a un numero così alto, ma ho dovuto studiare molto anch'io. La letteratura è un lavoro di ricerca in parte simile a quello che svolgono gli storici. Si scava nei dettagli, si cerca lo spunto adatto all'impasto. Edificare un romanzo è come edificare una casa: ogni materiale può servire. È un cantiere aperto, e quel cantiere è una biblioteca, una wikipedia...
Mi è parso evidente nel leggere il tuo romanzo, che hai sentito l'urgenza di riversarvi dentro la tua vera essenza "culturale". Nomi, libri, testi, canzoni. Ma hai forse dimenticato qualcosa?
Si dimentica sempre qualcosa. Ogni elenco è lacunoso e insufficiente e io non potrei registrare tutti gli entusiasmi che ho provato e continuo a provare. Ma credo si intuisca comunque la musica di fondo, quello in cui mi riconosco, i timbri sul passaporto, la mia identità culturale, come dici tu... è piovuta dentro al libro come un'emorragia...
A proposito di nomi. A pag.191 leggo: "...se hai avuto la fortuna, nella vita, di ascoltare Django, o Yves, o Tom, e Miles, Thelonius Monk, Coltrane, De André, Chico, Caetano..." Mi chiedo: perché De André, cioè, perché tra gli italiani solo lui?
De André è immenso. De André era un hombre vertical, come Gigi Riva. De André è letteratura allo stesso modo di Chico Buarque, Montand, Django... per me è il nome italiano che ha più forza evocativa e che più di tutti riassume l'idea di una canzone, di un modo di fare musica, che da noi, e purtroppo anche altrove, è stato sconfitto su larga scala, nonostante meravigliose e nobili eccezioni.
Parlaci della tua passione per il Brasile.
Non so quando è iniziata. Forse con un esame di letteratura, con l'incontro con Dona Flor... e Vadinho a vent'anni, con l'arrivo di Falcao e Cerezo a Roma, con un corso di chitarra all'ambasciata, la prima volta che ho visto Orfeo Nero... con la voglia, la pazzia, l'incoscienza e l'allegria... con un disco di Chico Buarque e il suo profilo di aquila triste... con un libro di poesie di Vinicius trovato su una bancarella...
E della tua passione per il calcio.
Questa è nata in maniera più tradizionale: mio padre che mi porta allo stadio, da bambino, la prima maglia della Roma, rossa come quella di Garibaldi, il numero nove cucito dietro... e poi le cartuzze con cui giocavo per terra un gioco che mi aveva insegnato mio zio... dei pizzini con il nome di un giocatore scritto su ciascuno e una mollica di carta come pallone... il subbuteo dei poveri...
Nei ringraziamenti finali hai elencato un numero impressionate di persone, tutte amiche. Ma davvero ne hai così tante?
Anche questo è un elenco lacunoso. Mi sono dimenticato in particolare di due persone: di mia cugina con la quale sono cresciuto dando calci a un pallone di cuoio e azzuffandomi dietro a ogni tiro, e di un mio carissimo amico, con cui suonavamo davvero la Marcha del mercoledì delle ceneri: quella canzone per me avrà sempre la sua voce... Dimenticanze imperdonabili... entrambi si sono offesi, ma spero di rimediare. Lo so che è una cosa sentimentale, ma io credo davvero, come scriveva Vinicius e diceva anche Massimo Troisi, che la vita è l'arte dell'incontro. E avrei già altri nomi da aggiungere a quel samba...
Siamo una rivista di letteratura. E ci piace parlar d'arte, di talenti, ma anche di montature. Non voglio renderti la vita difficile ed inimicarti qualcuno, ma vedi attorno a te qualche bluff pompato, o al contrario, qualche misconosciuto meritevole?
Voglio illudermi che alla fine i libri che valgono davvero resistano e gli altri scompaiano, diventino giacenze di cantine senza luce. So che non è così: accade un po' come nel calcio, dove dopo le ali stanno sparendo anche i numeri dieci a favore soltanto dei muscoli, lo diceva oggi in un'intervista Gianni Rivera. Anche la musica si è impoverita. Per non parlare della politica. La vita di un libro è ormai ridotta a pochi mesi ed è determinata dalla pubblicità, dal conto delle vendite... Dai muscoli del commercio, insomma. Tanti romanzi meritevoli non riescono nemmeno a diventare libri perché tutto è troppo ingolfato, caotico e difficile. Ma voglio ostinarmi a sperare. Alla fine, resterà soltanto ciò che è davvero letteratura, ma questo non possiamo essere noi a dirlo.
Potrei dire che l'ho passata suonando in un locale brasiliano la canzone che dà il titolo al libro oppure che sono rimasto sveglio per tutta la notte a bere cachaca davanti al televisore mentre rivedevo a ripetizione Italia-Germania del 1970... no, la realtà è sempre più prosaica. Sono stato a letto, con la febbre alta... avevo aspettato così tanto quel giorno che quando finalmente è arrivato, il mio fisico ha avuto un crollo...
Nella recensione al tuo libro ho affrontato la "questio" della necessità di una documentazione all'origine di ogni scrittura. Puoi dire la tua?
Garcia Marquez sostiene che per ogni libro che scrive ne legge almeno duecento per prepararlo. Non sono arrivato a un numero così alto, ma ho dovuto studiare molto anch'io. La letteratura è un lavoro di ricerca in parte simile a quello che svolgono gli storici. Si scava nei dettagli, si cerca lo spunto adatto all'impasto. Edificare un romanzo è come edificare una casa: ogni materiale può servire. È un cantiere aperto, e quel cantiere è una biblioteca, una wikipedia...
Mi è parso evidente nel leggere il tuo romanzo, che hai sentito l'urgenza di riversarvi dentro la tua vera essenza "culturale". Nomi, libri, testi, canzoni. Ma hai forse dimenticato qualcosa?
Si dimentica sempre qualcosa. Ogni elenco è lacunoso e insufficiente e io non potrei registrare tutti gli entusiasmi che ho provato e continuo a provare. Ma credo si intuisca comunque la musica di fondo, quello in cui mi riconosco, i timbri sul passaporto, la mia identità culturale, come dici tu... è piovuta dentro al libro come un'emorragia...
A proposito di nomi. A pag.191 leggo: "...se hai avuto la fortuna, nella vita, di ascoltare Django, o Yves, o Tom, e Miles, Thelonius Monk, Coltrane, De André, Chico, Caetano..." Mi chiedo: perché De André, cioè, perché tra gli italiani solo lui?
De André è immenso. De André era un hombre vertical, come Gigi Riva. De André è letteratura allo stesso modo di Chico Buarque, Montand, Django... per me è il nome italiano che ha più forza evocativa e che più di tutti riassume l'idea di una canzone, di un modo di fare musica, che da noi, e purtroppo anche altrove, è stato sconfitto su larga scala, nonostante meravigliose e nobili eccezioni.
Parlaci della tua passione per il Brasile.
Non so quando è iniziata. Forse con un esame di letteratura, con l'incontro con Dona Flor... e Vadinho a vent'anni, con l'arrivo di Falcao e Cerezo a Roma, con un corso di chitarra all'ambasciata, la prima volta che ho visto Orfeo Nero... con la voglia, la pazzia, l'incoscienza e l'allegria... con un disco di Chico Buarque e il suo profilo di aquila triste... con un libro di poesie di Vinicius trovato su una bancarella...
E della tua passione per il calcio.
Questa è nata in maniera più tradizionale: mio padre che mi porta allo stadio, da bambino, la prima maglia della Roma, rossa come quella di Garibaldi, il numero nove cucito dietro... e poi le cartuzze con cui giocavo per terra un gioco che mi aveva insegnato mio zio... dei pizzini con il nome di un giocatore scritto su ciascuno e una mollica di carta come pallone... il subbuteo dei poveri...
Nei ringraziamenti finali hai elencato un numero impressionate di persone, tutte amiche. Ma davvero ne hai così tante?
Anche questo è un elenco lacunoso. Mi sono dimenticato in particolare di due persone: di mia cugina con la quale sono cresciuto dando calci a un pallone di cuoio e azzuffandomi dietro a ogni tiro, e di un mio carissimo amico, con cui suonavamo davvero la Marcha del mercoledì delle ceneri: quella canzone per me avrà sempre la sua voce... Dimenticanze imperdonabili... entrambi si sono offesi, ma spero di rimediare. Lo so che è una cosa sentimentale, ma io credo davvero, come scriveva Vinicius e diceva anche Massimo Troisi, che la vita è l'arte dell'incontro. E avrei già altri nomi da aggiungere a quel samba...
Siamo una rivista di letteratura. E ci piace parlar d'arte, di talenti, ma anche di montature. Non voglio renderti la vita difficile ed inimicarti qualcuno, ma vedi attorno a te qualche bluff pompato, o al contrario, qualche misconosciuto meritevole?
Voglio illudermi che alla fine i libri che valgono davvero resistano e gli altri scompaiano, diventino giacenze di cantine senza luce. So che non è così: accade un po' come nel calcio, dove dopo le ali stanno sparendo anche i numeri dieci a favore soltanto dei muscoli, lo diceva oggi in un'intervista Gianni Rivera. Anche la musica si è impoverita. Per non parlare della politica. La vita di un libro è ormai ridotta a pochi mesi ed è determinata dalla pubblicità, dal conto delle vendite... Dai muscoli del commercio, insomma. Tanti romanzi meritevoli non riescono nemmeno a diventare libri perché tutto è troppo ingolfato, caotico e difficile. Ma voglio ostinarmi a sperare. Alla fine, resterà soltanto ciò che è davvero letteratura, ma questo non possiamo essere noi a dirlo.
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