INTERVISTE
Francesco Gnerre
Due parole, sulla Sua storia di bimbo, ragazzo, e poi giovine homo, ce Le vuol dire? Tanto per certificare che non tutti i froci in Italia erano/sono come Arbasino.
Non amo parlare di me, forse per una mia forma di timidezza e di discrezione o perché penso che la mia storia privata sia poco interessante, ma sono consapevole che se pretendiamo di avere dei diritti dobbiamo cominciare a dire che esistiamo. E così, anche se farei volentieri a meno di esibire aspetti della mia vita privata, non mi sottraggo a domande personali. Eccomi qua. Sono stato un bimbo e un ragazzo che uno sguardo attento avrebbe potuto facilmente vedere come un futuro uomo gay, ma vivendo, come tutti, in un ambiente eterosessuale e omofobo, ovviamente non sapevo e ho vissuto le mie prime esperienze sentimentali e sessuali in maniera un po' polimorfa e schizofrenica, tra fidanzatine alle quali dedicavo struggenti e ingenue poesie d'amore e compagni di giochi con cui sperimentavo una sessualità indubbiamente per me più interessante. Fino a 18 anni sono vissuto in un paesino della provincia di Avellino, in campagna, dove sono nato e la scoperta della mia sessualità è avvenuta in maniera relativamente serena senza drammi piccolo-borghesi: i soliti giochi erotici con cugini e compagni, senza eccessivi sensi di colpa, e le prime letture proibite. Dell'educazione cattolica, a casa mia molto superficiale, mi sono sbarazzato presto. Quando un sacerdote in confessione ha cominciato ad insistere su atti impuri e fornicazioni varie o sul fatto che facevo piangere Gesù, mi è sembrato tutto così ridicolo che ho semplicemente deciso che quei discorsi non erano interessanti per me. Debbo aggiungere che in questo mi ha aiutato molto anche la scuola (ho avuto bravi insegnanti di lettere e di filosofia). A casa mia non c'era la televisione, nel gruppo dei miei compagni ero uno dei pochi che andava al liceo e questo mi teneva un po' lontano dai giochi più maschili che mi interessavano poco e mi permetteva di passare molto tempo a leggere. Ero diverso perché sempre con un libro in mano, non perché venissi percepito come omosessuale, ma nemmeno io percepivo una mia diversità. La lettura mi coinvolgeva molto, mi immedesimavo nelle storie, magari più nei personaggi di Anna Karenina o di Madame Bovary che in Sandokan. Quando poi si sfiorava il proibito, ero ancora più interessato, ricordo le emozioni forti che ho vissuto leggendo L'amante di Lady Chatterley o I peccati di Peyton Place e quando ho scoperto che alcuni libri alludevano in qualche modo a emozioni, sentimenti, esperienze che vivevo anche io con alcuni dei miei compagni, sono stato coinvolto molto di più. Ho pianto tanto leggendo Le amicizie particolari di Peyrefitte. Per non farla troppo lunga ho cominciato a chiedermi perché di queste cose si parlava così poco, perché questo amore non aveva nemmeno un nome, perché Georges e Alexandre erano condannati ad un destino così crudele. Insomma la mia personale perversione di occuparmi di letteratura gay nasce nella mia adolescenza.
Negli anni Sessanta, dopo il liceo, sono venuto a Roma all'Università, ho scoperto i "ghetti" gay, che allora erano certe sale cinematografiche (Il Nuovo Olimpia, il Rialto...), alcuni parchi e ne sono stato affascinato. Ricordo il mio primo viaggio ad Amsterdam agli inizi degli anni Settanta con un mio fidanzato, si favoleggiava di un locale dove si poteva ballare tra uomini (allora ci sembrava il massimo della libertà e della trasgressione). Ci siamo andati, quando mi sono visto in mezzo a tanti omosessuali (la parola gay non si usava ancora) ho avuto la sensazione di essere finalmente "a casa mia" e ho auspicato che locali del genere nascessero anche in Italia. Sono dovuti passare degli anni, ma poi i ghetti gay sono arrivati finalmente anche da noi. Per me sono stati un'importante scuola di vita, di conoscenza e di consapevolezza e mi hanno aiutato anche a liberarmi dall'idea di avere una fidanzata. Sono stato più volte sul punto di sposarmi con una donna e sono contento di non averlo fatto. Forse il mio compagno però lo sposerei, perché alla mia età si comincia a pensare che il tempo della vita ha iniziato da un pezzo la fase discendente e se voglio che lui, che è molto più giovane di me, viva ancora tra le mie cose anche quando io non ci sarò più, non voglio immaginarlo in lite con i miei fratelli e i miei nipoti.
Nel 198...e qualcosa, io pischello andavo talvolta a Milano, per rovistare nelle librerie della città operosa. Incontrai, in una di queste visite, una fiera del libro d'occasione, e acquistai il Suo "L'eroe negato". Era il Suo primo saggio? Come venne alla luce? Cosa significò?Che successe, poi?
Sì, era il mio primo saggio e per spiegarne l'origine debbo andare un po' indietro, ai miei anni universitari. Dopo aver sostenuto l'esame di letteratura moderna e contemporanea col professor Debenedetti, mi feci coraggio e gli dissi che avrei voluto laurearmi con lui. Fu molto gentile. Quando però mi chiese se avevo già un mente un argomento, cominciai a farfugliare qualcosa che aveva a che fare con poeti maledetti, problemi di censura, rappresentazioni di aspetti non conformi di sessualità, feci perfino il nome di Pier Paolo Pasolini che allora era come pronunciare una parolaccia. Non pronunciai la parola "omosessualità", ma credo che lui abbia capito tutto, mi disse che, anche se ancora un po' confuso, l'argomento era interessante, si trattava di articolarlo e circoscriverlo meglio. Mi diede appuntamento a ottobre. Durante l'estate Debenedetti morì e il professore che gli subentrò alla cattedra di letteratura moderna e contemporanea mi fece capire che non era proprio aria. Lasciai perdere e mi laureai in storia romana. Non potevo permettermi di continuare a fare lo studente, avevo bisogno di lavorare. Mi laureai nel 1969 e nel 1970 insegnavo già in un liceo.
L'idea però di riprendere quel discorso sulla letteratura e l'omosessualità non mi aveva abbandonato e così, quando ormai ero insegnante, mi iscrissi a Sociologia non per fare il sociologo (un lavoro già lo avevo e mi piaceva), ma per riprendere quel discorso interrotto. Mi laureai in sociologia della letteratura con la prof. Graziella Pagliano con una tesi sul personaggio omosessuale nella narrativa del dopoguerra. Quel mio primo saggio, del 1981, è la rielaborazione di quella tesi. Certo quando a metà degli anni Settanta ho parlato a Graziella Pagliano della mia idea di una tesi sull'omosessualità, tremavo egualmente, ma ero un po' più sicuro di me, anche se l'argomento era ancora tabù. Debbo dire però che la prof. Pagliano è stata straordinaria, non solo mi ha aiutato, ma mi ha incoraggiato. Si trattava di provare a vedere se la repressione antiomosessuale (oggi diremmo l'omofobia) trovi un rispecchiamento anche nella letteratura o se invece nella letteratura possiamo trovare la destrutturazione dei modelli dominanti e una visione più problematica, se non liberatoria, dell'omosessualità. La stessa professoressa Pagliano, dopo la laurea, mi disse che avremmo dovuto proporre la pubblicazione della tesi. Io non avevo mai pensato di pubblicare un mio libro. Qualcuno mi parlò della Gammalibri di Milano, spedii il dattiloscritto e pochi giorni dopo mi telefonò Domenico Nodari per dirmi che gli era piaciuto e che lo pubblicava. Il libro riscosse un certo successo, almeno in certi ambienti, ebbe, tra le altre, una recensione entusiasta di Domenico Starnone sul "Manifesto", di Dario Bellezza su "Paese Sera", di Elio Pecora sull' "Espresso", fui invitato al Cassero di Bologna a presentarlo, mi scrisse entusiasta Giovanni Dall'Orto, allora giovane militante del movimento gay italiano ai suoi primi passi. Sempre con la Gammalibri curai qualche anno dopo una antologia di racconti gay, ma tutto restava nell'ambito del movimento o nelle immediate vicinanze. Le possibilità di interessare un pubblico più vasto erano nulle e io cominciai a dedicarmi ad altro. Intanto insegnavo, sempre in un liceo, e cominciai a occuparmi di didattica e di testi scolastici. Ho fatto perfino un commento alla Divina Commedia per la Loescher, che è ancora in circolazione.
Anni dopo, Baldini & Castoldi pubblicò una versione ampliata, riveduta e corretta del Suo lavoro. Ma tutto, intorno, era cambiato. Dunque, pure il Suo testo? E come, e perché?
L'idea originaria, quando presi contatto con la Baldini & Castoldi alla fine degli anni Novanta era quella di ampliare e ripubblicare la ricerca del 1981, ma, come dice Lei, tutto intorno era cambiato. I discorsi sull'omosessualità erano più frequenti, i testi letterari più espliciti, molte opere della letteratura italiana erano emerse dal silenzio e dall'ombra, e così il progetto originario si venne evolvendo in maniera del tutto diversa. Cambiava anche il punto di vista della ricerca e a poco a poco prendeva corpo il progetto, più ambizioso, di una rilettura che in qualche modo desse conto del percorso dell'omosessualità attraverso tutta la letteratura del secolo, dalle censure e autocensure di Saba e Palazzeschi alla consapevolezza degli scrittori contemporanei che, dopo Pier Vittorio Tondelli, mi sembravano aver trovato modi e forme per raccontarsi e raccontare la realtà gay fuori dagli stereotipi codificati. Non più un'analisi di sociologia della letteratura sul personaggio omosessuale nella narrativa del dopoguerra, ma una specie di storia della letteratura gay a partire dagli scrittori che l'omosessualità l'avevano vissuta e la vivevano anche come esperienza di vita.
I rapporti tra L'eroe negato del 2000 di Baldini & Castoldi con la mia lontana tesi di laurea diventavano pressoché nulli, tanto che mi sembrava ovvio cercare un altro titolo, ma il direttore editoriale della Baldini non volle prendere in considerazione questa ipotesi. E così nacque questo mio secondo saggio che ha poco a che vedere col primo e che solo per caso porta lo stesso titolo. A distinguere i due testi c'è il sottotitolo molto esplicito (Il personaggio omosessuale nella narrativa italiana contemporanea del libro del 1981 e Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano di quello del 2000), ma, nonostante tutti i chiarimenti, per molti lettori il libro del 2000 rimane una seconda edizione dell'eroe negato del 1981.
Ed ora, domande ispirate alle Sue in questa raccolta. Innanzitutto: nella personalità e nell'opera dei tanti che l'hanno corrisposto, cos'ha avvertito di simile?Ovvero:ci vuol la comunità gay per fare letteratura gay (qualsiasi cosa sia), o no?
Io credo che ogni scrittore parta dalle proprie esperienze e dal proprio mondo. Di simile negli scrittori che io e Gian Pietro Leonardi abbiamo intervistato c'è molto poco. Volevamo provare a confrontare le diverse modalità in cui gli scrittori gay si pongono il problema, affiancare esperienze anche lontane, scrittori di culture e tradizioni diverse, anche per relativizzare un nostro modo di intendere le cose. Sappiamo che l'idea stessa di letteratura gay è controversa. Noi siamo partiti dalla definizione che ne dà Edmund White di una letteratura, impensabile prima di Stonewall, che rappresenta la nuova realtà e che si rivolge ad un pubblico gay consapevole di vivere una realtà diversa da quella dei propri padri. Alla base c'è forse l'idea che se c'è un problema e si prova a risolverlo insieme ci si sente una comunità e si fa anche politica. Questa idea di comunità, che metteva insieme gli scrittori del Violet Quill, in Italia non c'è mai stata. Non so se questo sia stato un bene o un male, non spetta a noi dirlo. Noi prendiamo atto che la via italiana è stata ed è più individualista. Abbiamo cercato di capire i motivi di questa diversità italiana, ma non abbiamo nessuna intenzione di dire agli scrittori come o cosa debbono scrivere. Poi saranno i lettori a scegliere i loro libri. Io credo comunque che l'essere gay e rappresentare il mondo gay non sia di poca importanza. Se tra i lettori di Edmund White o di Pier Vittorio Tondelli c'è una maggioranza di gay, non credo sia casuale.
Ad un certo punto, i neri s'appropriano d'un tipo di spettacolo leggero, e nasce la "black comedy". Viceversa, il "noir" va cannibalizzando la narrativa. Detto ciò, non Le pare stiamo giungendo a un punto in cui il "libro gay" non è più tale per il contenuto, ma per una certa "frocizzazione" della forma? Mi pare che ciò sia parzialmente avvenuto col camp, con buoni risultati (meno con l'estetismo wildeano, o l'insopportabile fru-fru di altri).
Penso proprio di sì. Accanto ad una letteratura esplicitamente rivendicativa, che c'è stata e c'è ancora soprattutto nei paesi anglosassoni, c'è stato e c'è nel mondo gay il fascino del camp, della frocizzazione della forma, una capacità di ironia e di autoironia, che ha una sua peculiarità. Questa modalità di letteratura gay non azzera altre esperienze. Negli Stati Uniti è molto diffusa una narrativa ambientata nelle scuole, molto didattica e molto politicamente corretta, che può non interessare lo Scrittore (con la s maiuscola), ma che contribuisce non poco a diffondere un senso comune meno razzista e meno omofobo. I lettori gay che non leggono Proust (non credo sia un obbligo) hanno a disposizione "gialli gay", "rosa gay", "pornografia gay". Dal punto di vista sociologico io trovo molto interessanti queste esperienze.
Certi sostengono che l'Italia di ieri era il paradiso. Edmund White fa intendere il contrario. Ha qualcosa da dire?
Tutto dipende dal punto di vista. L'Italia era il paradiso se si dà per scontato che certe cose si fanno ma non si dicono. Il paradiso che rimpiangono Arbasino, Naldini, Bona e tanti altri, a parte il fatto che è il mondo in cui loro avevano vent'anni e a vent'anni tutto è bello, era un paradiso fatto di sesso rubato, non certo di dignità del gay. White viene da Stonewall e dall'idea che i gay debbano avere gli stessi diritti degli etero, mi pare quindi ovvio che a lui non basti la disponibilità al sesso nell'ombra e ben nascosto. Lui vive con un compagno e pretende, a mio avviso giustamente, dignità e eguaglianza.
Un ricchióne, in quanto tale e attraverso la sua froceria, è più predisposto a comprendere altri sfigati, o no?
Io credo di sì. Chi sperimenta sulla propria pelle l'emarginazione, coglie più immediatamente l'emarginazione che vivono altri gruppi minoritari. Ovviamente ci sono le eccezioni e, come sappiamo, esistono ebrei antisemiti, omosessuali omofobi e donne misogine, e spesso questi uniscono alla fobia della loro diversità tutte le altre fobie e detestano tutti, ma in genere credo che nelle diversità ci sia potenzialmente maggiore solidarietà. L'ho sperimentato anche nel mio lavoro di insegnante, quando percepivo, prima di altri insegnanti, certe situazioni di disagio di qualche studente "sfigato", perché palesemente gay o perché in altri modi "diverso".
C'è una nuova apertura delle frociaròle verso il politico, o è ancora tutto personale - cioè raramente dicibile? Insomma: l'inversione ha in sé germi rivoluzionari?
Non capisco bene la domanda, forse perché ho difficoltà a dare un senso al termine "inversione". Se comunque il quesito è se basti essere omosessuali per avere in sé i germi della rivoluzione, la risposta è no. Non vedo nessun germe rivoluzionario né in Zeffirelli, né in Dolce e Gabbana e in tanti altri omosessuali noti.
Non amo parlare di me, forse per una mia forma di timidezza e di discrezione o perché penso che la mia storia privata sia poco interessante, ma sono consapevole che se pretendiamo di avere dei diritti dobbiamo cominciare a dire che esistiamo. E così, anche se farei volentieri a meno di esibire aspetti della mia vita privata, non mi sottraggo a domande personali. Eccomi qua. Sono stato un bimbo e un ragazzo che uno sguardo attento avrebbe potuto facilmente vedere come un futuro uomo gay, ma vivendo, come tutti, in un ambiente eterosessuale e omofobo, ovviamente non sapevo e ho vissuto le mie prime esperienze sentimentali e sessuali in maniera un po' polimorfa e schizofrenica, tra fidanzatine alle quali dedicavo struggenti e ingenue poesie d'amore e compagni di giochi con cui sperimentavo una sessualità indubbiamente per me più interessante. Fino a 18 anni sono vissuto in un paesino della provincia di Avellino, in campagna, dove sono nato e la scoperta della mia sessualità è avvenuta in maniera relativamente serena senza drammi piccolo-borghesi: i soliti giochi erotici con cugini e compagni, senza eccessivi sensi di colpa, e le prime letture proibite. Dell'educazione cattolica, a casa mia molto superficiale, mi sono sbarazzato presto. Quando un sacerdote in confessione ha cominciato ad insistere su atti impuri e fornicazioni varie o sul fatto che facevo piangere Gesù, mi è sembrato tutto così ridicolo che ho semplicemente deciso che quei discorsi non erano interessanti per me. Debbo aggiungere che in questo mi ha aiutato molto anche la scuola (ho avuto bravi insegnanti di lettere e di filosofia). A casa mia non c'era la televisione, nel gruppo dei miei compagni ero uno dei pochi che andava al liceo e questo mi teneva un po' lontano dai giochi più maschili che mi interessavano poco e mi permetteva di passare molto tempo a leggere. Ero diverso perché sempre con un libro in mano, non perché venissi percepito come omosessuale, ma nemmeno io percepivo una mia diversità. La lettura mi coinvolgeva molto, mi immedesimavo nelle storie, magari più nei personaggi di Anna Karenina o di Madame Bovary che in Sandokan. Quando poi si sfiorava il proibito, ero ancora più interessato, ricordo le emozioni forti che ho vissuto leggendo L'amante di Lady Chatterley o I peccati di Peyton Place e quando ho scoperto che alcuni libri alludevano in qualche modo a emozioni, sentimenti, esperienze che vivevo anche io con alcuni dei miei compagni, sono stato coinvolto molto di più. Ho pianto tanto leggendo Le amicizie particolari di Peyrefitte. Per non farla troppo lunga ho cominciato a chiedermi perché di queste cose si parlava così poco, perché questo amore non aveva nemmeno un nome, perché Georges e Alexandre erano condannati ad un destino così crudele. Insomma la mia personale perversione di occuparmi di letteratura gay nasce nella mia adolescenza.
Negli anni Sessanta, dopo il liceo, sono venuto a Roma all'Università, ho scoperto i "ghetti" gay, che allora erano certe sale cinematografiche (Il Nuovo Olimpia, il Rialto...), alcuni parchi e ne sono stato affascinato. Ricordo il mio primo viaggio ad Amsterdam agli inizi degli anni Settanta con un mio fidanzato, si favoleggiava di un locale dove si poteva ballare tra uomini (allora ci sembrava il massimo della libertà e della trasgressione). Ci siamo andati, quando mi sono visto in mezzo a tanti omosessuali (la parola gay non si usava ancora) ho avuto la sensazione di essere finalmente "a casa mia" e ho auspicato che locali del genere nascessero anche in Italia. Sono dovuti passare degli anni, ma poi i ghetti gay sono arrivati finalmente anche da noi. Per me sono stati un'importante scuola di vita, di conoscenza e di consapevolezza e mi hanno aiutato anche a liberarmi dall'idea di avere una fidanzata. Sono stato più volte sul punto di sposarmi con una donna e sono contento di non averlo fatto. Forse il mio compagno però lo sposerei, perché alla mia età si comincia a pensare che il tempo della vita ha iniziato da un pezzo la fase discendente e se voglio che lui, che è molto più giovane di me, viva ancora tra le mie cose anche quando io non ci sarò più, non voglio immaginarlo in lite con i miei fratelli e i miei nipoti.
Nel 198...e qualcosa, io pischello andavo talvolta a Milano, per rovistare nelle librerie della città operosa. Incontrai, in una di queste visite, una fiera del libro d'occasione, e acquistai il Suo "L'eroe negato". Era il Suo primo saggio? Come venne alla luce? Cosa significò?Che successe, poi?
Sì, era il mio primo saggio e per spiegarne l'origine debbo andare un po' indietro, ai miei anni universitari. Dopo aver sostenuto l'esame di letteratura moderna e contemporanea col professor Debenedetti, mi feci coraggio e gli dissi che avrei voluto laurearmi con lui. Fu molto gentile. Quando però mi chiese se avevo già un mente un argomento, cominciai a farfugliare qualcosa che aveva a che fare con poeti maledetti, problemi di censura, rappresentazioni di aspetti non conformi di sessualità, feci perfino il nome di Pier Paolo Pasolini che allora era come pronunciare una parolaccia. Non pronunciai la parola "omosessualità", ma credo che lui abbia capito tutto, mi disse che, anche se ancora un po' confuso, l'argomento era interessante, si trattava di articolarlo e circoscriverlo meglio. Mi diede appuntamento a ottobre. Durante l'estate Debenedetti morì e il professore che gli subentrò alla cattedra di letteratura moderna e contemporanea mi fece capire che non era proprio aria. Lasciai perdere e mi laureai in storia romana. Non potevo permettermi di continuare a fare lo studente, avevo bisogno di lavorare. Mi laureai nel 1969 e nel 1970 insegnavo già in un liceo.
L'idea però di riprendere quel discorso sulla letteratura e l'omosessualità non mi aveva abbandonato e così, quando ormai ero insegnante, mi iscrissi a Sociologia non per fare il sociologo (un lavoro già lo avevo e mi piaceva), ma per riprendere quel discorso interrotto. Mi laureai in sociologia della letteratura con la prof. Graziella Pagliano con una tesi sul personaggio omosessuale nella narrativa del dopoguerra. Quel mio primo saggio, del 1981, è la rielaborazione di quella tesi. Certo quando a metà degli anni Settanta ho parlato a Graziella Pagliano della mia idea di una tesi sull'omosessualità, tremavo egualmente, ma ero un po' più sicuro di me, anche se l'argomento era ancora tabù. Debbo dire però che la prof. Pagliano è stata straordinaria, non solo mi ha aiutato, ma mi ha incoraggiato. Si trattava di provare a vedere se la repressione antiomosessuale (oggi diremmo l'omofobia) trovi un rispecchiamento anche nella letteratura o se invece nella letteratura possiamo trovare la destrutturazione dei modelli dominanti e una visione più problematica, se non liberatoria, dell'omosessualità. La stessa professoressa Pagliano, dopo la laurea, mi disse che avremmo dovuto proporre la pubblicazione della tesi. Io non avevo mai pensato di pubblicare un mio libro. Qualcuno mi parlò della Gammalibri di Milano, spedii il dattiloscritto e pochi giorni dopo mi telefonò Domenico Nodari per dirmi che gli era piaciuto e che lo pubblicava. Il libro riscosse un certo successo, almeno in certi ambienti, ebbe, tra le altre, una recensione entusiasta di Domenico Starnone sul "Manifesto", di Dario Bellezza su "Paese Sera", di Elio Pecora sull' "Espresso", fui invitato al Cassero di Bologna a presentarlo, mi scrisse entusiasta Giovanni Dall'Orto, allora giovane militante del movimento gay italiano ai suoi primi passi. Sempre con la Gammalibri curai qualche anno dopo una antologia di racconti gay, ma tutto restava nell'ambito del movimento o nelle immediate vicinanze. Le possibilità di interessare un pubblico più vasto erano nulle e io cominciai a dedicarmi ad altro. Intanto insegnavo, sempre in un liceo, e cominciai a occuparmi di didattica e di testi scolastici. Ho fatto perfino un commento alla Divina Commedia per la Loescher, che è ancora in circolazione.
Anni dopo, Baldini & Castoldi pubblicò una versione ampliata, riveduta e corretta del Suo lavoro. Ma tutto, intorno, era cambiato. Dunque, pure il Suo testo? E come, e perché?
L'idea originaria, quando presi contatto con la Baldini & Castoldi alla fine degli anni Novanta era quella di ampliare e ripubblicare la ricerca del 1981, ma, come dice Lei, tutto intorno era cambiato. I discorsi sull'omosessualità erano più frequenti, i testi letterari più espliciti, molte opere della letteratura italiana erano emerse dal silenzio e dall'ombra, e così il progetto originario si venne evolvendo in maniera del tutto diversa. Cambiava anche il punto di vista della ricerca e a poco a poco prendeva corpo il progetto, più ambizioso, di una rilettura che in qualche modo desse conto del percorso dell'omosessualità attraverso tutta la letteratura del secolo, dalle censure e autocensure di Saba e Palazzeschi alla consapevolezza degli scrittori contemporanei che, dopo Pier Vittorio Tondelli, mi sembravano aver trovato modi e forme per raccontarsi e raccontare la realtà gay fuori dagli stereotipi codificati. Non più un'analisi di sociologia della letteratura sul personaggio omosessuale nella narrativa del dopoguerra, ma una specie di storia della letteratura gay a partire dagli scrittori che l'omosessualità l'avevano vissuta e la vivevano anche come esperienza di vita.
I rapporti tra L'eroe negato del 2000 di Baldini & Castoldi con la mia lontana tesi di laurea diventavano pressoché nulli, tanto che mi sembrava ovvio cercare un altro titolo, ma il direttore editoriale della Baldini non volle prendere in considerazione questa ipotesi. E così nacque questo mio secondo saggio che ha poco a che vedere col primo e che solo per caso porta lo stesso titolo. A distinguere i due testi c'è il sottotitolo molto esplicito (Il personaggio omosessuale nella narrativa italiana contemporanea del libro del 1981 e Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano di quello del 2000), ma, nonostante tutti i chiarimenti, per molti lettori il libro del 2000 rimane una seconda edizione dell'eroe negato del 1981.
Ed ora, domande ispirate alle Sue in questa raccolta. Innanzitutto: nella personalità e nell'opera dei tanti che l'hanno corrisposto, cos'ha avvertito di simile?Ovvero:ci vuol la comunità gay per fare letteratura gay (qualsiasi cosa sia), o no?
Io credo che ogni scrittore parta dalle proprie esperienze e dal proprio mondo. Di simile negli scrittori che io e Gian Pietro Leonardi abbiamo intervistato c'è molto poco. Volevamo provare a confrontare le diverse modalità in cui gli scrittori gay si pongono il problema, affiancare esperienze anche lontane, scrittori di culture e tradizioni diverse, anche per relativizzare un nostro modo di intendere le cose. Sappiamo che l'idea stessa di letteratura gay è controversa. Noi siamo partiti dalla definizione che ne dà Edmund White di una letteratura, impensabile prima di Stonewall, che rappresenta la nuova realtà e che si rivolge ad un pubblico gay consapevole di vivere una realtà diversa da quella dei propri padri. Alla base c'è forse l'idea che se c'è un problema e si prova a risolverlo insieme ci si sente una comunità e si fa anche politica. Questa idea di comunità, che metteva insieme gli scrittori del Violet Quill, in Italia non c'è mai stata. Non so se questo sia stato un bene o un male, non spetta a noi dirlo. Noi prendiamo atto che la via italiana è stata ed è più individualista. Abbiamo cercato di capire i motivi di questa diversità italiana, ma non abbiamo nessuna intenzione di dire agli scrittori come o cosa debbono scrivere. Poi saranno i lettori a scegliere i loro libri. Io credo comunque che l'essere gay e rappresentare il mondo gay non sia di poca importanza. Se tra i lettori di Edmund White o di Pier Vittorio Tondelli c'è una maggioranza di gay, non credo sia casuale.
Ad un certo punto, i neri s'appropriano d'un tipo di spettacolo leggero, e nasce la "black comedy". Viceversa, il "noir" va cannibalizzando la narrativa. Detto ciò, non Le pare stiamo giungendo a un punto in cui il "libro gay" non è più tale per il contenuto, ma per una certa "frocizzazione" della forma? Mi pare che ciò sia parzialmente avvenuto col camp, con buoni risultati (meno con l'estetismo wildeano, o l'insopportabile fru-fru di altri).
Penso proprio di sì. Accanto ad una letteratura esplicitamente rivendicativa, che c'è stata e c'è ancora soprattutto nei paesi anglosassoni, c'è stato e c'è nel mondo gay il fascino del camp, della frocizzazione della forma, una capacità di ironia e di autoironia, che ha una sua peculiarità. Questa modalità di letteratura gay non azzera altre esperienze. Negli Stati Uniti è molto diffusa una narrativa ambientata nelle scuole, molto didattica e molto politicamente corretta, che può non interessare lo Scrittore (con la s maiuscola), ma che contribuisce non poco a diffondere un senso comune meno razzista e meno omofobo. I lettori gay che non leggono Proust (non credo sia un obbligo) hanno a disposizione "gialli gay", "rosa gay", "pornografia gay". Dal punto di vista sociologico io trovo molto interessanti queste esperienze.
Certi sostengono che l'Italia di ieri era il paradiso. Edmund White fa intendere il contrario. Ha qualcosa da dire?
Tutto dipende dal punto di vista. L'Italia era il paradiso se si dà per scontato che certe cose si fanno ma non si dicono. Il paradiso che rimpiangono Arbasino, Naldini, Bona e tanti altri, a parte il fatto che è il mondo in cui loro avevano vent'anni e a vent'anni tutto è bello, era un paradiso fatto di sesso rubato, non certo di dignità del gay. White viene da Stonewall e dall'idea che i gay debbano avere gli stessi diritti degli etero, mi pare quindi ovvio che a lui non basti la disponibilità al sesso nell'ombra e ben nascosto. Lui vive con un compagno e pretende, a mio avviso giustamente, dignità e eguaglianza.
Un ricchióne, in quanto tale e attraverso la sua froceria, è più predisposto a comprendere altri sfigati, o no?
Io credo di sì. Chi sperimenta sulla propria pelle l'emarginazione, coglie più immediatamente l'emarginazione che vivono altri gruppi minoritari. Ovviamente ci sono le eccezioni e, come sappiamo, esistono ebrei antisemiti, omosessuali omofobi e donne misogine, e spesso questi uniscono alla fobia della loro diversità tutte le altre fobie e detestano tutti, ma in genere credo che nelle diversità ci sia potenzialmente maggiore solidarietà. L'ho sperimentato anche nel mio lavoro di insegnante, quando percepivo, prima di altri insegnanti, certe situazioni di disagio di qualche studente "sfigato", perché palesemente gay o perché in altri modi "diverso".
C'è una nuova apertura delle frociaròle verso il politico, o è ancora tutto personale - cioè raramente dicibile? Insomma: l'inversione ha in sé germi rivoluzionari?
Non capisco bene la domanda, forse perché ho difficoltà a dare un senso al termine "inversione". Se comunque il quesito è se basti essere omosessuali per avere in sé i germi della rivoluzione, la risposta è no. Non vedo nessun germe rivoluzionario né in Zeffirelli, né in Dolce e Gabbana e in tanti altri omosessuali noti.
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