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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Dario De Giacomo

Fuga di ombre

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La cecità! Sarebbe un sollievo per me ora?

Appena sveglio ho accostato di nuovo l'orecchio alla finestra, per sentire le voci del mare.

La stanza dove abito è tutta un pullulare buio di ombre, che sfilaccia la solidità delle pareti.

È una strana giornata di ardori spenti.

Se ripenso all'inizio, a come tutto è proseguito dopo, penso che sarebbe inutile accecare di bianco le mie pupille.

Intorno a me un sentore di vita salmastra gocciola sui muri.

La prima notte dopo la partenza di Carmen fu una notte di preveggenza. Ma io ignorai i segnali di quella sera d'agosto, scavai ostinatamente tra il ciarpame accumulato nei quindici anni della nostra convivenza: cercavo solo una traccia che mi guidasse fino al centro delle sue ragioni.

Sbarrate le imposte di legno per tenere fuori i rumori della strada, nel silenzio mi sembrava di soffrire meno.

Forse per un istante riuscii anche ad assopirmi.

Il cuore mi rimbombava dentro sempre più veloce, inseguendo le orbite di pensieri maligni.

Ce n'era uno con la punta velenosa.

Nel dormiveglia lo vedevo chiaramente davanti agli occhi, talmente acuminato che avrebbe attraversato la pelle bianchissima e delicata di Carmen, spaccandola.

La parete di fronte sbiancava.

Se solo fosse possibile – ripetevo con l'ingenua insensatezza di chi non crede al pericolo, eppure lo tiene in mano.

Mi afflosciai fino all'incoscienza.

Sul muro si disegnò la figura di Carmen. Le mie pupille dilatate vedevano le immagini di noi due, insieme in quella stanza.

Lei era lontana e sorridente, rideva di un riso nuovo che non le avevo mai conosciuto quando stava con me.

E accadde.

Il muro si sfibrò perdendo consistenza, come se il collante che teneva insieme tutti gli elementi della parete si smagliasse senza cedere.

Sulla parete c'era una parola, simboli che non riuscivo a leggere.

Le lettere urlavano direttamente nel mio cervello.

Occhiali: una parola sola, incoerente perfino per un'allucinazione.

Allora affondai le gambe nella melma di una corsa attraverso le stanze e la parola mi teneva dietro.

Quasi sfondai la porta della camera di mia sorella: era calda e sicura.

Occhiali – Occhiali – ripeteva la voce.

Mia sorella era di spalle, con la Cavalcata delle Valchirie che ingurgitava l'aria a tutto volume.

Quando la afferrai si girò e mi sorrise, calmando l'ansia irragionevole che mi segregava tra le pareti e la voce.

Occhiali! – I suoi occhi erano liquidi e incolore, densi di una melma incosciente senza pupille.

Anche lei sorrideva.

Stavo per vomitare, superai la porta per rientrare nella mia stanza.

La macchia era già là, solo un po' più in basso di dov'era prima, ora anneriva il comodino. Appoggiati sul bordo di marmo c'erano degli occhiali rotondi, azzurrati, con una solida montatura di osso marrone.

Me li sistemai sul naso e la mia angoscia si calmò, come l'esaudimento di una preghiera.

La macchia svanì in un chiaroscuro indistinto.

Notai subito che dai cristalli emanava una pallida luminescenza calda e colorata.

Mi piacque quella sensazione di calore che partiva dai vetri per diffondersi prima sul viso e poi dentro, dentro la mia testa.

Un punto scuro al centro delle lenti mi consentiva di fissare con chiarezza il pensiero sulle immagini.

Lentamente cominciai a capire la strana virtù degli occhiali, che riversava i colori solo all'interno. Fuori, invece, il vetro proiettava solo un bianco-nero senza sfumature, però si poteva concentrare lo sguardo.

Mi sentii al centro della stanza, del mondo e di me stesso, quando fissai lo sguardo in quel punto scuro.

Carmen ormai era solo una silhouette insignificante, piatta come tutto il resto che mi circondava.

Stentavo addirittura a credere di aver diviso il mio letto con quella cosina scialba.

Bastava concentrare un solo pensiero per annerire la sua immagine, annullarla definitivamente per sempre.

Il potere delle lenti verso l'esterno era davvero tremendo.

Tanto potente fuori, quanto sicuro e tranquillizzante all'interno.

Davanti a quegli occhiali perfino dio era solo un giocattolo dipinto sui muri senza prospettiva.

Blu intenso, indaco, verde bottiglia. Io, solo Io immerso in un mare di gradazioni diverse. Tu – urlai – sei solo una sfumatura priva di spessore. Posso cancellarti con uno sguardo -.

Ma anche in un mondo monotono arriva la notte, progredendo flebilmente dal nero a un nero più scuro.

Il muro di fronte si annerì, tutto si macchiò di nero, dissolvendosi sotto il mio sguardo concentrato.

La stanza si era amalgamata col buio fino a sparire, sentivo solo gli odori e i rumori del mare.

Fu allora che cominciai quasi a dubitare delle mie infinite tonalità.

Dove avrei potuto specchiarmi? Dove far esplodere i miei colori?

Una distesa monocroma ingoiava le sfumature e i riflessi.

Sì, i riflessi! Era quella la soluzione, pensai. C'era uno specchio nella mia stanza e prima che la luce si affievolisse dovevo specchiarmi.

E accadde.

Il lampo dei miei colori divampò nel buio. Erano così intensi da accecarmi, provocandomi uno svenimento. Caddi riverso sul letto.

Furono i rumori della strada a riportarmi bruscamente indietro alla coscienza.

Ebbi paura che gli occhiali si fossero spaccati nella caduta, ma erano intatti, ancora integri in quella sfavillante luce argentata di notte alta.

Vidi il blu della notte striato dal chiarore lattiginoso di luna.

Carmen però non c'era, se n'era andata davvero.

Provai l'impulso fortissimo di urlarle contro il mio risentimento.

In questa vertigine io ero qui da solo, e lei in giro con la sua massa di capelli biondi e profumati, la sua carne sfiorata da tanti sguardi diversi.

Di nuovo quel senso di vomito.

La gelosia mi raggelava, specchiandomi ora in bianco e nero dentro un mondo di colori.

Da allora è così: sono una figura monocroma, circondata da infiniti toni di vita colorata.

Ed ora anche se mi accecassi, il bianco negli occhi non cancellerebbe le immagini che ho visto.

Occhiali – Occhiali – ecco che sento di nuovo quella voce.

Dentro di me le ombre stanno crescendo, c'è solo il rumore del mare a farmi compagnia.

Gli occhiali sono solo una speranza di vedere.



Senza colori, senza occhiali, senza...speranza.



B u i o.



Dario de Giacomo nasce 41 anni fa a Salerno, dove continua a vivere superfluo e a scrivere di tanto in tanto. Ha pubblicato alcuni testi con diverse riviste online.







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