INTERVISTE
Fulvio Wetzl
Per dir le Sue virtù, non basta un sorriso. Lei è regista cinematografico e televisivo, documentarista, scrittore: vorrebbe parlarci del Suo percorso, dalla nascita ai nostri giorni? Quale di queste identità è la principale?
Ho iniziato come proiezionista di cineclub a Roma negli anni '70 (come rispondere a qualcuno: "Tu lavori nel cinema?" "Sì. Faccio la maschera"- "Io la conoscevo bene" docet...). Guardando i film quattro volte al giorno, smontandoli e rimontandoli, avendo contatto fisico con la pellicola, ho avuto modo di imparare qualcosa di cinema direttamente. Avevo la fortuna di lavorare al Cineclub Tevere, quindi i film che proiettavamo erano tutto il meglio da tutto il mondo. Spesso mi riposavo andando a guardare i film dietro lo schermo, dove, sul palcoscenico, c'era la scenografia di un appartamento e da quella postazione privilegiata potevo vedermi i film che filtravano in trasparenza dallo schermo, ovviamente al contrario. Da questa esperienza è nato Rorret, il mio primo lungometraggio, il cui titolo non a caso è la parola 'terror' al contrario. Da qui anche una mia ossessione palindromica. Ho composto molte poesie, assolutamente inutili come i limericks, ossessivamente palindromiche: "Angolo Bologna", "Ai lati d'Italia", etc.
Joseph Rorret, inquietante esercente alla Peter Lorre, vive appunto sul palcoscenico dietro lo schermo, in un cinema-teatro ricavato nella cripta di una chiesa e dalle tende del sipario osserva le spettatrici e come queste reagiscono ai film del terrore che proietta. Poi le insegue e si incarica di far vivere loro il vero terrore, non quello posticcio del cinema. Era l''87, vent'anni fa, non è molto, e in questi anni ho fatto solo 6 film per il cinema, che è e resta comunque il mio strumento espressivo principale. Tutte le altre attività, il documentario, la soap, la narrativa, la poesia sono corollari della mia principale malattia, piccole metastasi.
La prima volta che l'ho incontrata - artisticamente - fu col Suo film Quattro figli unici. Nello stile mi pare di riconoscere la vena che fu di Brusati e di Franco Rossi: risolta, controllata, elegante. Ci siamo, o ho toppàto?
Brusati e Rossi sono autori che stimo e apprezzo, appartati, aristocratici senza essere snob, con un buon controllo sia del linguaggio che della direzione degli attori.
Quelli che sono i risultati dei miei film possono echeggiare il loro stile, ma le mie ambizioni di partenza sono altre; innanzitutto di avere uno stile personale, ma lo stile non si cerca, si ha o non si ha. A volte osservandomi dall'esterno, ripercorrendo con la mente la mia filmografia vedo che c'è un unità stilistica che è data dal punto di vista che è sempre e comunque infantile, al massimo nel "go between" del passaggio alla prima adolescenza. Anche in Rorret, il 40enne protagonista è rimasto ancorato a una visione infantile, è un eterno bambino che si rifiuta di crescere, incagliato nel suo trauma infantile. Come ovviamente sono la "mediorenne" Micol di Quattro Figli Unici; Giovanni, il piccolo 'marziano' atterrato dalla galassia del linguaggio, che parla un'italiano stravolto (sabbia canta, accarezzo mentire, tocco cometa) in Prima la musica, poi le parole; la caparbia Anna, sorda solo fisicamente di "Non voltarmi le spalle" e i quattro protagonisti del mio ultimo Mineurs, bambini còlti nel delicato passaggio da creature a guaglioni e sempre alle prese con i problemi del linguaggio (trasferiti nelle Fiandre con l'ostico fiammingo...). Già enumerando salta agli occhi un'altra delle mie ossessioni: il linguaggio e le barriere linguistiche e non. In tutti i miei film c'è una ricorrenza metaforica, uno schermo che divide e impedisce la comunicazione: quello del cinema che divide gli spettatori in sala da Rorret e la sua casa. Le pareti sottili dell'appartamento di Micol, dove la bambina registra spia e cataloga tutte le conversazioni della famiglia. Il muro che contiene e nasconde all'esterno, separandola dal mondo, la villa di Lanfranco, il glottologo impazzito che ha programmato il figlio a parlare in codice, trasformandolo di fatto in un diverso, un alieno. Diversità che diventa palpabile e concreta nella sordità di Anna in Non voltarmi le spalle e nella lucanità in trasferta di Armando ed Egidio in Mineurs (minori-minatori). Partendo dal presupposto che tutti, a prescindere dalle generazioni di appartenenza, ci siamo emozionati da bambini vedendo il sarto che taglia la stoffa senza aprire e chiudere le forbici, cerco di portare nel mio cinema questo terreno comune di emozioni infantili; siano i giochi, lo stupore, la visione candida (rivedere per questo i titoli di testa di Amelie, vero bedecker della percezione infantile). E probabilmente l'incapacità di Samuele in Ci troviamo a Timisoara di prescindere da una visione etica e l'atteggiamento mercuriale del "piccolo diavolo" Benigni, appartengono di fatto a questa mia scelta di campo. Preferisco comunque altri accostamenti cinematografici: direi Luigi Comencini, per l'ostinazione a perlustrare la sensibilità infantile, Truffaut per lo sguardo incantato ma non per questo meno profondo sul mondo, Resnais per la visione non euclidea, Hitchcock per l'etica e la profonda moralità del linguaggio della cinepresa.
Sono un fan della Galiena. Come è stato lavorare con lei? Perché la scelta per il suo esordio "Rorret"?
Ho conosciuto e lavorato con Anna l'anno prima che diventasse famosa con Il marito della parrucchiera; è una donna generosa in tutti i sensi, molto poco italiana nella serietà d'approccio al mestiere d'attore, tangibilmente simpatica, ottima stornellatrice, sottoutilizzata dal cinema italiano tranne che da Luchetti, Archibugi e D'Alatri. Continuo a volerle bene alla distanza anche se mi dispiaccio del cattivo uso che alcuni miei incauti colleghi televisivi e non, ne fanno, fraintendendo e sprecando l'enorme potenziale umano e professionale che Anna porta con sé.
In "Prima la musica poi le parole" una psicologa riesce a comunicare con un bambino problematico. Non è che ci scappa una metafora sulla difficoltà di relazione tra adulti e bambini?
E' uno dei temi portanti del film. Nel film si analizzano varie di queste mancate relazioni: tra genitori e figli (l'ossessione possessiva di Lanfranco che programma il figlio Giovanni a parlare solo e sempre con lui, l'irresponsabile incoscienza della madre che l'abbandona all'atto della nascita), tra medici e pazienti (la supervalutazione del potere salvifico della scienza da parte del logopedista Minucci) e per altri versi tra docenti e discenti (ma il modo della scuola è più presente in altri miei film e mediometraggi: Darsi alla macchia, Scolari, Mineurs)
Trova differente girare per il cinema e per la tv? E scrivere, per il cinema o la tv? Fra le tante cose, ha trovato il tempo di biografare Roberto Benigni. Potrebbe raccontarci come è nata e s'è sviluppata questa esperienza?
Il mio rapporto con la televisione, a parte i documentari archeologici che negli anni '80 ho girato per la Rai, per la rubrica di Sabatino Moscati "Sulle orme degli antenati", è recente. Si esaurisce nella regia della soap Un posto al sole di cui ho diretto una trentina di puntate. Questa soap è un meccanismo industriale consolidato che lascia ben poco spazio alla creatività autoriale. L'atteggiamento giusto è di accettare le regole del gioco, occultare la regia e la propria mano. Ciononostante ho cercato di introdurre in Un posto al sole qualche innovazione di linguaggio come il ricorso, nelle riprese in esterni, a piani-sequenza elaborati, invece dei canonici primi piani – campo e controcampo. E ho curato particolarmente la recitazione degli attori, cercando di far scrollar loro di dosso gli automatismi recitativi, i birignao e le derivazioni imitative.
Benigni l'ho conosciuto e biografato in occasione di un grande festival da me organizzato a Castiglion Fiorentino Misericordia! C'è Benigni!. Prima di allora Roberto aveva come un rapporto conflittuale con il suo paese d'origine, Castiglioni appunto. Era dovuto ad una sorta di rimozione, causata dal dolore del ricordo dei primi anni della sua vita. I suoi, contadini, s'erano dovuti trasferire, come racconto anche in Ci troviamo a Timisoara, per le trasformazioni economiche, smettendo il lavoro nei campi e andando a lavorare come operai nell'industria tessile nell'hinterland di Prato. Roberto infatti sosteneva di esser nato a Vergaio. Poi nel '97 questo festival ha determinato "il ritorno del figliol prodigo" nella sua terra d'origine. Il rito di riconciliazione fu consacrato nella piazza principale di Castiglion Fiorentino, di fronte a quattromila persone, circondato dall'affetto di tutte le persone importanti per lui, sia affettivamente che professionalmente: da Giuseppe Bertolucci a Vincenzo Cerami, da Carlo Monni ad Alberto Asor Rosa, a Omar Calabrese. La biografia, edita da Leonardo Arte, faceva parte del progetto. L'anno successivo Benigni suggellò il rinato buon rapporto con la sua terra d'origine, scegliendo come location per La vita è bella proprio Castiglioni e Arezzo.
Nel Suo romanzo Ci troviamo a Timisoara si ritrova una continua osservazione e rielaborazione del reale. Qual'è il rapporto che vede tra fatti e fattacci della vita (e propria biografia) e l'arte?
Beh, è inutile nasconderlo, Funkel c'est moi, e molti dei miei concittadini di allora a Monte San Savino vi sono impietosamente ritratti. Anche il mio autoritratto è impietoso, anche se non tutte le nefandezze che mi attribuisco sono successe veramente. Le ho scritte per scongiurare il pericolo che quell'excursus involutivo andasse a compimento. Ho avuto i miei guai, l'ostracismo del paese, pubbliche e private aggressioni. Ora non vivo più là da qualche anno, la mia vita ha preso un altro corso.
Penso che in arte bisogna parlare di cose che si conoscono o che si crede di conoscere bene; la biografia non è imprescindibile, ma se si riesce a vedere al di là del bordo del proprio ombelico e universalizzare le proprie esperienze autobiografiche, reali o immaginate, questo può diventare terreno comunicativo con i lettori, e attraverso di loro con il mondo
Nel romanzo, riflette sull'integrazione (mancata). Quanto (se...) ha contato Luciano Bianciardi nella Sua indagine?
Non avevo letto La vita agra prima di scrivere Ci troviamo a Timisoara; mi ha fatto piacere riscontrare che certe riflessioni derivanti da certi disagi erano state già fatte, in maniera sofferta, incazzata e profondamente sentita da Luciano, assai meglio che da me. Penso piuttosto che Luciana abbia scelto di pubblicarmi proprio per queste affinità. "Noi siamo gli altri" come dicono Henry Laborit- Resnais in Mon Oncle D'Amerique. Noi siamo culturalmente e umanamente il frutto di tutti quanti ci hanno preceduto, che ne siamo consapevoli o meno.
L'affollamento al funerale di qualcuno ne misura l'importanza in vita. Meccanica della morte e meccanica della vita sono collegate, dunque. E poi, il cinema è "la morte al lavoro", e le biblioteche, dei cimiteri.
Questa non è una domanda ma una riflessione. Leggendola mi sono tornate in mente sovrapposte le immagini di due splendidi documentari di Alain Resnais: Notte e nebbia sui campi di concentramento nazisti e Toute la mémoire du monde sulla Biblioteca Nazionale di Parigi; il cumulo di morti nella nebbia di Benigni, gli angeli che volteggiano sulle spalle dei lettori della biblioteca di Sharoun a Berlino in Handke-Wenders. Ma gli angeli non mi evocano la morte, come non me l'evocano le biblioteche.
La riflessione cocteauiana sul cinema come 'morte al lavoro' la faccio continuamente, quando vedo cosa sono diventati i miei attori bambini nel breve volgere di mesi: Valentina Holtkamp cui crebbero le tette durante la forzata interruzione di sei mesi durante le riprese di Quattro Figli Unici; i dieci centimetri guadagnati( o persi?) in altezza e la caduta dello stupore, sostituito da una malinconia precocemente consapevole, in Walter Golia, l'Armando protagonista di Mineurs. Mi sento un rapinatore. Ho rubato loro, qualcuno mi dice immortalato, un attimo irripetibile, un passaggio rapido e saturo di emozioni, breve come la "luce a cavallo", quei dieci-quindici minuti, non di più, tra il tramonto del sole e l'imbrunire, in cui è possibile in cinema girare con una luce quasi impossibile da ricostruire artificialmente. E' il momento dei "raggi verdi" e del vorticare a comando degli stormi di storni, quel tessuto cangiante che agita e incanta il cielo di Roma sopra Prati.
Prima di scrivere, si legge. Ci rivela gli Autori che Le appartengono maggiormente, e quelli che non porterebbe mai su un'isola deserta? Che tipo di cinema detesta?
Beh, io sono over '50 e ho i miei classici: innanzitutto Musil de L'uomo senza qualità, poi Proust, Stendhal, Alain Fournier, Mann de La montagna incantata, Franz Werfel, tutto Kafka, Fitzgerald, qualcosa di Joyce (Dubliners), Pratolini, il Pasolini poeta, Leonardo Sinisgalli, Pennac, Dante, Shakespeare, Beckett, Tenessee Williams, Il Suskind de Il profumo, Sarah Kane, Pirandello, Eduardo.
Su un isola deserta non porterei mai Bevilacqua, Moccia, Maria Venturi, Codici Da Vinci, Stargates, Harry Potter e tutti i cascami di fantasy, fantarcheologia, rimanipolazione della storia e della scienza ad usum palinsestii. E in genere tutti i libri che finiscono nel "Club degli editori"
Il cinema che detesto per cui rifiuto di dover affrontare l'eventuale salto e allargamento di percezione, è di nuovo il fantasy, che si chiami Harry Potter o Tolkien, Narnia, Eragorn, ma come nemmeno da ragazzo ho amato Zardoz, Unicorni o Willy Wonka. Preferisco le fiabe originarie che i travestimenti medievaleggianti egittizzanti et similia.
Come detesto i Matrix e derivati e ahimé anche le Tarantinate già dai tempi di Pulp Fiction, per non parlare di Kill Bill.
Viva invece Won Kar-Wai, Kim Ki-Duk, Kaurismaki e tutti quelli che fanno del cinema un uso etico e consapevole
Ho iniziato come proiezionista di cineclub a Roma negli anni '70 (come rispondere a qualcuno: "Tu lavori nel cinema?" "Sì. Faccio la maschera"- "Io la conoscevo bene" docet...). Guardando i film quattro volte al giorno, smontandoli e rimontandoli, avendo contatto fisico con la pellicola, ho avuto modo di imparare qualcosa di cinema direttamente. Avevo la fortuna di lavorare al Cineclub Tevere, quindi i film che proiettavamo erano tutto il meglio da tutto il mondo. Spesso mi riposavo andando a guardare i film dietro lo schermo, dove, sul palcoscenico, c'era la scenografia di un appartamento e da quella postazione privilegiata potevo vedermi i film che filtravano in trasparenza dallo schermo, ovviamente al contrario. Da questa esperienza è nato Rorret, il mio primo lungometraggio, il cui titolo non a caso è la parola 'terror' al contrario. Da qui anche una mia ossessione palindromica. Ho composto molte poesie, assolutamente inutili come i limericks, ossessivamente palindromiche: "Angolo Bologna", "Ai lati d'Italia", etc.
Joseph Rorret, inquietante esercente alla Peter Lorre, vive appunto sul palcoscenico dietro lo schermo, in un cinema-teatro ricavato nella cripta di una chiesa e dalle tende del sipario osserva le spettatrici e come queste reagiscono ai film del terrore che proietta. Poi le insegue e si incarica di far vivere loro il vero terrore, non quello posticcio del cinema. Era l''87, vent'anni fa, non è molto, e in questi anni ho fatto solo 6 film per il cinema, che è e resta comunque il mio strumento espressivo principale. Tutte le altre attività, il documentario, la soap, la narrativa, la poesia sono corollari della mia principale malattia, piccole metastasi.
La prima volta che l'ho incontrata - artisticamente - fu col Suo film Quattro figli unici. Nello stile mi pare di riconoscere la vena che fu di Brusati e di Franco Rossi: risolta, controllata, elegante. Ci siamo, o ho toppàto?
Brusati e Rossi sono autori che stimo e apprezzo, appartati, aristocratici senza essere snob, con un buon controllo sia del linguaggio che della direzione degli attori.
Quelli che sono i risultati dei miei film possono echeggiare il loro stile, ma le mie ambizioni di partenza sono altre; innanzitutto di avere uno stile personale, ma lo stile non si cerca, si ha o non si ha. A volte osservandomi dall'esterno, ripercorrendo con la mente la mia filmografia vedo che c'è un unità stilistica che è data dal punto di vista che è sempre e comunque infantile, al massimo nel "go between" del passaggio alla prima adolescenza. Anche in Rorret, il 40enne protagonista è rimasto ancorato a una visione infantile, è un eterno bambino che si rifiuta di crescere, incagliato nel suo trauma infantile. Come ovviamente sono la "mediorenne" Micol di Quattro Figli Unici; Giovanni, il piccolo 'marziano' atterrato dalla galassia del linguaggio, che parla un'italiano stravolto (sabbia canta, accarezzo mentire, tocco cometa) in Prima la musica, poi le parole; la caparbia Anna, sorda solo fisicamente di "Non voltarmi le spalle" e i quattro protagonisti del mio ultimo Mineurs, bambini còlti nel delicato passaggio da creature a guaglioni e sempre alle prese con i problemi del linguaggio (trasferiti nelle Fiandre con l'ostico fiammingo...). Già enumerando salta agli occhi un'altra delle mie ossessioni: il linguaggio e le barriere linguistiche e non. In tutti i miei film c'è una ricorrenza metaforica, uno schermo che divide e impedisce la comunicazione: quello del cinema che divide gli spettatori in sala da Rorret e la sua casa. Le pareti sottili dell'appartamento di Micol, dove la bambina registra spia e cataloga tutte le conversazioni della famiglia. Il muro che contiene e nasconde all'esterno, separandola dal mondo, la villa di Lanfranco, il glottologo impazzito che ha programmato il figlio a parlare in codice, trasformandolo di fatto in un diverso, un alieno. Diversità che diventa palpabile e concreta nella sordità di Anna in Non voltarmi le spalle e nella lucanità in trasferta di Armando ed Egidio in Mineurs (minori-minatori). Partendo dal presupposto che tutti, a prescindere dalle generazioni di appartenenza, ci siamo emozionati da bambini vedendo il sarto che taglia la stoffa senza aprire e chiudere le forbici, cerco di portare nel mio cinema questo terreno comune di emozioni infantili; siano i giochi, lo stupore, la visione candida (rivedere per questo i titoli di testa di Amelie, vero bedecker della percezione infantile). E probabilmente l'incapacità di Samuele in Ci troviamo a Timisoara di prescindere da una visione etica e l'atteggiamento mercuriale del "piccolo diavolo" Benigni, appartengono di fatto a questa mia scelta di campo. Preferisco comunque altri accostamenti cinematografici: direi Luigi Comencini, per l'ostinazione a perlustrare la sensibilità infantile, Truffaut per lo sguardo incantato ma non per questo meno profondo sul mondo, Resnais per la visione non euclidea, Hitchcock per l'etica e la profonda moralità del linguaggio della cinepresa.
Sono un fan della Galiena. Come è stato lavorare con lei? Perché la scelta per il suo esordio "Rorret"?
Ho conosciuto e lavorato con Anna l'anno prima che diventasse famosa con Il marito della parrucchiera; è una donna generosa in tutti i sensi, molto poco italiana nella serietà d'approccio al mestiere d'attore, tangibilmente simpatica, ottima stornellatrice, sottoutilizzata dal cinema italiano tranne che da Luchetti, Archibugi e D'Alatri. Continuo a volerle bene alla distanza anche se mi dispiaccio del cattivo uso che alcuni miei incauti colleghi televisivi e non, ne fanno, fraintendendo e sprecando l'enorme potenziale umano e professionale che Anna porta con sé.
In "Prima la musica poi le parole" una psicologa riesce a comunicare con un bambino problematico. Non è che ci scappa una metafora sulla difficoltà di relazione tra adulti e bambini?
E' uno dei temi portanti del film. Nel film si analizzano varie di queste mancate relazioni: tra genitori e figli (l'ossessione possessiva di Lanfranco che programma il figlio Giovanni a parlare solo e sempre con lui, l'irresponsabile incoscienza della madre che l'abbandona all'atto della nascita), tra medici e pazienti (la supervalutazione del potere salvifico della scienza da parte del logopedista Minucci) e per altri versi tra docenti e discenti (ma il modo della scuola è più presente in altri miei film e mediometraggi: Darsi alla macchia, Scolari, Mineurs)
Trova differente girare per il cinema e per la tv? E scrivere, per il cinema o la tv? Fra le tante cose, ha trovato il tempo di biografare Roberto Benigni. Potrebbe raccontarci come è nata e s'è sviluppata questa esperienza?
Il mio rapporto con la televisione, a parte i documentari archeologici che negli anni '80 ho girato per la Rai, per la rubrica di Sabatino Moscati "Sulle orme degli antenati", è recente. Si esaurisce nella regia della soap Un posto al sole di cui ho diretto una trentina di puntate. Questa soap è un meccanismo industriale consolidato che lascia ben poco spazio alla creatività autoriale. L'atteggiamento giusto è di accettare le regole del gioco, occultare la regia e la propria mano. Ciononostante ho cercato di introdurre in Un posto al sole qualche innovazione di linguaggio come il ricorso, nelle riprese in esterni, a piani-sequenza elaborati, invece dei canonici primi piani – campo e controcampo. E ho curato particolarmente la recitazione degli attori, cercando di far scrollar loro di dosso gli automatismi recitativi, i birignao e le derivazioni imitative.
Benigni l'ho conosciuto e biografato in occasione di un grande festival da me organizzato a Castiglion Fiorentino Misericordia! C'è Benigni!. Prima di allora Roberto aveva come un rapporto conflittuale con il suo paese d'origine, Castiglioni appunto. Era dovuto ad una sorta di rimozione, causata dal dolore del ricordo dei primi anni della sua vita. I suoi, contadini, s'erano dovuti trasferire, come racconto anche in Ci troviamo a Timisoara, per le trasformazioni economiche, smettendo il lavoro nei campi e andando a lavorare come operai nell'industria tessile nell'hinterland di Prato. Roberto infatti sosteneva di esser nato a Vergaio. Poi nel '97 questo festival ha determinato "il ritorno del figliol prodigo" nella sua terra d'origine. Il rito di riconciliazione fu consacrato nella piazza principale di Castiglion Fiorentino, di fronte a quattromila persone, circondato dall'affetto di tutte le persone importanti per lui, sia affettivamente che professionalmente: da Giuseppe Bertolucci a Vincenzo Cerami, da Carlo Monni ad Alberto Asor Rosa, a Omar Calabrese. La biografia, edita da Leonardo Arte, faceva parte del progetto. L'anno successivo Benigni suggellò il rinato buon rapporto con la sua terra d'origine, scegliendo come location per La vita è bella proprio Castiglioni e Arezzo.
Nel Suo romanzo Ci troviamo a Timisoara si ritrova una continua osservazione e rielaborazione del reale. Qual'è il rapporto che vede tra fatti e fattacci della vita (e propria biografia) e l'arte?
Beh, è inutile nasconderlo, Funkel c'est moi, e molti dei miei concittadini di allora a Monte San Savino vi sono impietosamente ritratti. Anche il mio autoritratto è impietoso, anche se non tutte le nefandezze che mi attribuisco sono successe veramente. Le ho scritte per scongiurare il pericolo che quell'excursus involutivo andasse a compimento. Ho avuto i miei guai, l'ostracismo del paese, pubbliche e private aggressioni. Ora non vivo più là da qualche anno, la mia vita ha preso un altro corso.
Penso che in arte bisogna parlare di cose che si conoscono o che si crede di conoscere bene; la biografia non è imprescindibile, ma se si riesce a vedere al di là del bordo del proprio ombelico e universalizzare le proprie esperienze autobiografiche, reali o immaginate, questo può diventare terreno comunicativo con i lettori, e attraverso di loro con il mondo
Nel romanzo, riflette sull'integrazione (mancata). Quanto (se...) ha contato Luciano Bianciardi nella Sua indagine?
Non avevo letto La vita agra prima di scrivere Ci troviamo a Timisoara; mi ha fatto piacere riscontrare che certe riflessioni derivanti da certi disagi erano state già fatte, in maniera sofferta, incazzata e profondamente sentita da Luciano, assai meglio che da me. Penso piuttosto che Luciana abbia scelto di pubblicarmi proprio per queste affinità. "Noi siamo gli altri" come dicono Henry Laborit- Resnais in Mon Oncle D'Amerique. Noi siamo culturalmente e umanamente il frutto di tutti quanti ci hanno preceduto, che ne siamo consapevoli o meno.
L'affollamento al funerale di qualcuno ne misura l'importanza in vita. Meccanica della morte e meccanica della vita sono collegate, dunque. E poi, il cinema è "la morte al lavoro", e le biblioteche, dei cimiteri.
Questa non è una domanda ma una riflessione. Leggendola mi sono tornate in mente sovrapposte le immagini di due splendidi documentari di Alain Resnais: Notte e nebbia sui campi di concentramento nazisti e Toute la mémoire du monde sulla Biblioteca Nazionale di Parigi; il cumulo di morti nella nebbia di Benigni, gli angeli che volteggiano sulle spalle dei lettori della biblioteca di Sharoun a Berlino in Handke-Wenders. Ma gli angeli non mi evocano la morte, come non me l'evocano le biblioteche.
La riflessione cocteauiana sul cinema come 'morte al lavoro' la faccio continuamente, quando vedo cosa sono diventati i miei attori bambini nel breve volgere di mesi: Valentina Holtkamp cui crebbero le tette durante la forzata interruzione di sei mesi durante le riprese di Quattro Figli Unici; i dieci centimetri guadagnati( o persi?) in altezza e la caduta dello stupore, sostituito da una malinconia precocemente consapevole, in Walter Golia, l'Armando protagonista di Mineurs. Mi sento un rapinatore. Ho rubato loro, qualcuno mi dice immortalato, un attimo irripetibile, un passaggio rapido e saturo di emozioni, breve come la "luce a cavallo", quei dieci-quindici minuti, non di più, tra il tramonto del sole e l'imbrunire, in cui è possibile in cinema girare con una luce quasi impossibile da ricostruire artificialmente. E' il momento dei "raggi verdi" e del vorticare a comando degli stormi di storni, quel tessuto cangiante che agita e incanta il cielo di Roma sopra Prati.
Prima di scrivere, si legge. Ci rivela gli Autori che Le appartengono maggiormente, e quelli che non porterebbe mai su un'isola deserta? Che tipo di cinema detesta?
Beh, io sono over '50 e ho i miei classici: innanzitutto Musil de L'uomo senza qualità, poi Proust, Stendhal, Alain Fournier, Mann de La montagna incantata, Franz Werfel, tutto Kafka, Fitzgerald, qualcosa di Joyce (Dubliners), Pratolini, il Pasolini poeta, Leonardo Sinisgalli, Pennac, Dante, Shakespeare, Beckett, Tenessee Williams, Il Suskind de Il profumo, Sarah Kane, Pirandello, Eduardo.
Su un isola deserta non porterei mai Bevilacqua, Moccia, Maria Venturi, Codici Da Vinci, Stargates, Harry Potter e tutti i cascami di fantasy, fantarcheologia, rimanipolazione della storia e della scienza ad usum palinsestii. E in genere tutti i libri che finiscono nel "Club degli editori"
Il cinema che detesto per cui rifiuto di dover affrontare l'eventuale salto e allargamento di percezione, è di nuovo il fantasy, che si chiami Harry Potter o Tolkien, Narnia, Eragorn, ma come nemmeno da ragazzo ho amato Zardoz, Unicorni o Willy Wonka. Preferisco le fiabe originarie che i travestimenti medievaleggianti egittizzanti et similia.
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