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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Patrizia Rocchi

Fuori scena

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Veramente ho sempre avuto un'affinità per la tragedia, per le situazioni complesse e drammatiche, quelle nelle quali tendi ad essere molto più che uno spettatore partecipe, e diventi piuttosto un protagonista dei tormenti umani dei parenti, degli amici, persino dei vicini di casa.

Proprio per questo il dramma mi appartiene. Anche da piccolo mi muovevo a mio agio tra le lamentele della nonna che non era mai soddisfatta della propria evacuazione quotidiana, si lagnava dell'artrosi progressiva che la riempiva di dolori, ed esitava affannando per le scale, e il diabete del nonno, che lui viveva anche troppo allegramente, fino quasi a dimenticarsene, cosciente o meno che fosse della pericolosità di questa disattenzione. Così ogni tanto, anzi abbastanza spesso, mio padre, e mia madre con lui, dovevano correre da loro, che per fortuna, o per scelte avvenute in tempi remoti e a me sconosciuti, abitavano a un paio di chilometri di distanza, e preoccuparsi del "piccolo problema" di turno. Poteva essere una nuova ulceretta sulla gamba, che trascurata, andava assumendo la forma e la profondità di un cratere, oppure una crosta in cima alla testa ormai calva, che aveva "inspiegabilmente" ripreso a sanguinare, e ora si mostrava in tutta la sua vasta e irregolare misura, con margini turgidi e sanguinanti, ripugnanti di pus. A volte l'urgenza era confortare mia nonna che pencolava sbilanciata da una scaletta, incapace di ritrovare il pavimento senza rompersi un osso, e riuscire ad accomodarla nella sua poltrona prima della crisi di nervi. Mio padre, istintivo e generoso, era capace di lasciare qualunque tipo di impegno e precipitarsi da loro, ma poi non sapeva cosa fare, guardava con occhi di penitente sconfortato prima quel vecchietto sornione e divertito, e poi mia madre che finalmente, autorizzata e anzi investita di potere taumaturgico e consolatorio, organizzava garze, bende e tinture con grande sfoggio di abilità manuale, per poi rivolgersi saggiamente a un dottore. Quanto lui sembrava sperduto e vulnerabile agli imprevisti e alla sofferenza dei suoi, tanto lei ci sguazzava, con la competenza ostentata di chi ha sempre desiderato trovarsi nell'emergenza più drammatica per poter affermare, con falsa modestia, "sì gli ho salvato la vita, ma non ho fatto niente di eccezionale". Non so se mi affascinasse maggiormente il senso stesso della malattia e del pericolo, o mia madre che sembrava non avvertirne la paura, ma solo il richiamo.

Col tempo avevo ottenuto di seguirli quando partivano alla salvezza dei nonni, e anzi e avevo cominciato ad emulare mia madre cercando di rendermi utile, e avevo persino frequentato un corso di primo soccorso, man mano che i rischi aumentavano, e all'emergenza quotidiana andava a sommarsi anche quella dell'altra nonna, la madre di mia madre. Nonna Vittoria da Firenze, dove aveva vissuto tutta la vita, aveva deciso dopo la morte del nonno, di trasferirsi a Roma per starci più vicina, e precisamente a casa nostra. Ad essere sincero non mi pare di ricordare che il suo arrivo sia stato un evento traumatico, solo una piccola scossa tellurica con altre piccole scosse successive di assestamento.

La mia camera, che era la più piccola, diventò la camera dei genitori, e la loro fu divisa alla bell'e meglio in due per dare un spazietto a me e uno alla nonna. Anche con lei pensavo di potermi esercitare parecchio. In realtà nonna Vittoria godeva di una buonissima salute. Aveva le gambe un po' tozze e le caviglie grosse, leggermente gonfie, con piccole macchie scure come vecchi lividi, ma stava dritta e camminava come una forsennata anche quando tirava il carrello della spesa pesante di frutta e pacchi di pasta. Si tingeva i capelli di un rosso violaceo e curava molto la sua persona. Cucinava benino, e comunque meglio di mia madre, e non pretendeva che tutto fosse in ordine. Insomma non era così difficile la convivenza e io cominciai a spiarla per capire quando intervenire, per anticipare un attacco di cuore, una vertigine, almeno un mal di pancia. Ma lei non aveva neppure un po' di tosse e per me costituiva un mistero il fatto non vivesse più nella sua casa. In effetti non aveva bisogno di cure, semplicemente non voleva stare sola. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per un po' di compagnia. Mi faceva trovare il pranzo pronto e caldo quando tornavo da scuola, e sono sicuro che spiasse dalla finestra per prevedere il mio arrivo, ma non chiedeva mai "a che ora torni?" Si sedeva accanto me mentre studiavo, entrava e usciva dalla stanza con una fetta di torta o una tazza di cioccolata se ero da solo, e si acquattava sulla soglia della porta della cucina quando avevo degli amici e occupavamo il salotto riempendolo di chicchere e di fumo, perché da lì riusciva a sbirciare pensando di non dare fastidio. Mi pagava, con piccole gentilezze e con qualche mancetta, perché l'accompagnassi a scegliere un paio di calze o a comprare il pane, e cercava la mia complicità per "osare" un nuovo piatto per la cena. Non voleva che facessi le cose al posto suo, voleva farle "con" me, o almeno che restassi lì, fingendo di guardarla mentre le faceva, e magari tirandole una voce ogni tanto, come per ricordarsi che c'era ancora. Mi faceva sentire indispensabile e io di riscontro, la spiavo mentre si appisolava e respirava in modo rumoroso, osservavo il modo in cui mangiava e i suoi denti irregolari e ingialliti, e le piccole scosse delle sue mani, ma non mi dava abbastanza soddisfazione. Non assumeva mai quel tono lamentoso da moribonda abbandonata di nonna Erminia. Non avevo mai la sensazione che fosse in pericolo e che potessi salvarla e coprirmi di gloria. Voleva solo sentire una presenza umana in casa, perché da quando era morto il marito, che era stato a lungo malato, non sapeva più di chi occuparsi, e anche quel mormorio continuo della televisione sempre accesa, che si sentiva in ogni angolo della casa, non le bastava più. Questa cosa però funzionava bene con la maggior parte delle nonne dei miei amici, che i nipoti li vedevano solo nelle grandi occasioni, e secondo loro risolveva la solitudine.

Con lei le giornate mancavano di improvvisazione, di novità, riuscivo al massimo a convincerla di aver bisogno di un'aspirina o di un cerotto ogni tanto e mi mancava proprio la sensazione di essere parte di un'emergenza e di poter contare su un riflettore che illuminasse il mio lavoro, insomma, non ero mai in scena.

Al momento di andarsene, mi raccontarono, restò tenacemente sospesa tra ora e il dopo, aspettando che tornassi, per cinque giorni, inutilmente, perché i miei genitori avevano deciso di non disturbarmi durante lo stage di specializzando a Cleveland.





Anche adesso, quando ci ripenso, percepisco come un'assenza, la malinconia del fiore reciso, profumato e decorativo, ma destinato inesorabilmente ad appassire ed essere gettato via. I ricordi che restano lasciano l'impronta tra le pagine del vocabolario di latino. Li ho messi lì, come canticchiava una vecchissima canzone della nonna, due fiori essiccati tanti anni fa.





Quando entra Manuela capisco che si aspetta una serata speciale. Deve aver fatto un trattamento completo, estetista, parrucchiere e boutique, a giudicare dal suo splendore e dai tacchi che le fanno acquistare almeno 12 centimetri. Non che lei scivoli normalmente su ballerine raso terra, ma in occasioni particolari, come questa sera, si arrampica su qualcosa di elaborato e probabilmente costosissimo che viene spacciato come scarpe e che lei riesce stranamente a tollerare anche per molte ore. Mi guarda attraverso una fitta rete di ciglia lunghe e setose, con un'aria di falso rimprovero, falso perché tanto lo sa che mi preparo il lavoro per il giorno dopo senza considerare l'orario. Mi studio il caso, mi carico di tutte le possibili complicanze, mi preparo al peggio perché diventi il meglio, imparo a memoria il percorso di ogni singolo vaso, e la morfologia di ogni centimetro di questo cervello come se fosse la pianta di un intricatissimo labirinto o di un pericoloso campo minato, e in fondo è quello che è.

Fa una mezza piroetta prima di appoggiarsi all'angolo della scrivania, quel tanto che serve a farmi indovinare il colore del suo perizoma e a darmi un'idea del programma della serata.

- Tesoro ma non sei ancora pronto! Come ti sembra questo vestito? E non chiedermi quanto costa, piuttosto senti che effetto fa sulla pelle...

Mi prende la mano, mi guida, ed è tutto un soffio di seta, un passaggio a rischio tra tessuto e pelle, tra dita e orlo e la pelle stessa è un tessuto che parla e lancia richiami di pieghe umide e odorose.

- Un effetto magnifico direi. Ma che mi sono perso? Dove dobbiamo andare?

- Non sei sintonizzato eh? Estate, terrazza, Parioli, cena, amici, colleghi, insomma chiamali come ti pare, buffet, musica e poi fuga noi da soli....ti ricorda niente?

- Vuoi dire che questi organizzano una cena di giovedì sera quando io domani sono di sala? Per questo non me lo ricordavo! L'ho rimosso, certo, è una follia!

- Non è una follia, è il compleanno del primario, al "grande capo" non puoi dire di no e quindi devi essere pronto in 20 minuti ed è una fortuna che, essendo uomo, tu non debba fare la ceretta alle gambe e neppure truccarti altrimenti non arriveremmo mai.



Sospiro, sospiro e mi odio perché sono nelle sue mani, perché le sue mani sono ispirate da tenera lussuria, perché ha ragione e riuscirà a trascinarmi in quella terrazza a mangiare tartine e ad annuire convinto immaginando di essere altrove, per almeno un paio d'ore. Poi troverà lei una buona scusa per portare con passo elegante il suo splendido sedere fuori dall'appartamento ( o è una villa? ) lasciando molti occhi maschili sofferenti e ammiccanti e frecce di odio femminile appena scoccate. Sono un uomo fortunato. Manuela mi guida e mi sottomette al suo vitalismo gioioso, esaltando il mio, amplificando il mio orgoglio di maschio e forse riempiendomi di illusioni. Non è sempre così? Quando si ricomincia con una donna che potrebbe essere tua figlia non è meglio ostentare la bellezza e l'appagamento e lasciarsi trasportare dal puro, esaltante piacere piuttosto che cercare elaborate spiegazioni intellettuali?

Annuisco, vado a rendermi presentabile, per restare in gioco bisogna anche saper barare.



La tragedia mi appartiene, diventare un neuro chirurgo era l'evoluzione naturale di una passione, la consacrazione, dopo anni di studio e di impegno, a una sfida primordiale.



Posso ascoltare, posso chiacchierare e bere cocktails, sudare nell'aria umida della notte estiva, e intanto guardarmi intorno, riconoscere facce, attaccarci una storia, oppure rimuovere elementi e ricordi, cancellare due occhi, o una bocca, l'espressione di un viso, gli avvenimenti, anche quelli importanti. Ho una mente flessibile, capacità di analisi critica, sinapsi allenate ai collegamenti rapidi e precisi.



Manuela mi tiene d'occhio perché è intelligente e pronta e arriverà qualche momento prima di me a capire che ora di andare e che il tempo di tolleranza si è esaurito. Anche il primario mi tiene d'occhio e pure Sofia, che non l'ha presa proprio bene quando è finita, due anni fa, ma ora si è consolata con Andrea, che è un plastico e ovviamente può garantire zigomi alti e tette sode alla sua compagna. Pensavo veramente che le fosse passata, ma la iena che si aggira nel suo corpo è vendicativa e appassionata.

La terrazza è splendida, potrebbe persino essere odorosa di gelsomini e camelie se non fossimo qui, se l'odore dei nostri corpi, il profumo del cibo, di trenta persone e di numerose sigarette non contaminasse l'aria. Il pavimento della terrazza è di un lucido verde marino che a stento si riconosce nelle luci attutite. Mentre la vedo avanzare penso ai tacchi di Manuela che forse graffiano e scheggiano le maioliche della padrona di casa, e mi sale un rigurgito di riconoscenza e di soddisfazione. Poi arriva lei. Un cigolio sottile, che percepisco a fatica e, completo con la mia immaginazione, sulla distesa d'acqua di porcellana, lascia una traccia di gomma. Dovevo aspettarmelo. Monica avanza e il suo sguardo è all'altezza del mio. Inevitabile incontro, ancora mi spaventa. È la mia memoria spezzata, l'errore che non posso rimuovere, la colpa che non cancelli, la tragedia nella quale si compie il sacrificio finale.

Monica saluta e scherza, so che si avvicina ma mi lascia per ultimo, vedo Manuela che vorrebbe venire in mio aiuto ma qualcosa, qualcuno, Sofia, la trattiene. Arriva, elegante e padrona di sè sulla sua carrozzina, una mano nascosta sotto la borsa, la mano destra che non può più usare, come pure la gamba. La saluto facendo attenzione a non alzarmi dalla mia sedia, con una inutile gentilezza formale. Aveva ventidue anni, sei anni fa, la figlia di un amico, un collega, una persona per bene, lui l'aveva affidata a me perché rimuovessi l'angioma. Era distesa su quel lettino nella mia sala operatoria e io la guardavo convinto che tutto sarebbe stato perfetto, orgoglioso di quelle lampade di scena, di tutta quella luce che ci illuminava e di cui ero padrone, come della sua vita. Ho sottovalutato, ho sbagliato, ho avuto contrario il destino. Il deus ex machina ha scelto per noi e ha cambiato il futuro, l'ha legata a una sedia e mi ha spedito dall'analista.

Sono un altro uomo ora. Riesco a guardarla e anche a parlarle. Non smetterò mai di incontrarla alle cene degli amici, non fuggirò, mi perseguiterà con il suo rimprovero muto, le ruote cigolanti, il sorriso asimmetrico e feroce.

Se fossi coraggioso potrei alzarmi di scatto e fare un gesto definitivo, esaltante, forse un'espiazione. La balaustra è vicina e in pochi secondi avrei scritto la mia punizione e il mio riscatto. Potrei, posso, ora qui, sotto gli occhi di tutti, ho il fiato corto, le mani sudate, il polso veloce, le luci sono basse, c'è la musica in sottofondo, e il chiacchiericcio si è spento in un sussurro di attesa, voglio un faro su di me.

Manuela mi stringe un polso e le sue unghie mi feriscono il dorso della mano.

- E' stato un piacere rivederti cara. Sei veramente splendida!



Mi trascina via. E' bravissima, è lei la protagonista.



Titoli di coda. Finale da commedia.





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