CINEMA E MUSICA
Adriano Angelini
Gli Interpol sono un po' diversi, ma non per questo inferiori

In realtà volevano suonare come in Turn on the bright light, il loro primo album, ma non è che ci siano riusciti appieno, per fortuna aggiungo. Gli Interpol di Paul Banks, gruppo che Robert Smith ha definito il migliore del decennio (e condivido), sono tornati con il loro quarto album, chiamato semplicemente Interpol. A me l'album piace, e molto. E dirò pure una cosa, sono diversi, sì, sufficientemente diversi dai primi ma, forse, migliori, perché non suonano più come uno scimmiottamento, seppure grandioso, dei Joy Division (di tutti i simulacri usciti nell'ultimo decennio loro erano i più spudorati, bisogna ammetterlo). Si dirà, come hanno scritto tutti i critici snob, siccome erano andati con la major hanno dovuto cambiare il suono (e tutti dicono in peggio). Per quanto mi riguarda la svolta di Our love to admire (l'album precedente) l'avevo gradita molto; un bel cocktail di ritmo post-new wave e post-punk addolcito dalla suadente e a tratti celestiale voce di Banks. In questo nuovo quarto album, come dicevo, volevano suonare come fossero i primi Interpol (il produttore Alan Moulder voleva provarci almeno) ma il risultato è una specie di seguito del precedente: si parte con Success, decisamente riflessiva e con un bel ritornello che ci riporta ad atmosfere molto eighties, si prosegue con Memory Serves e si capisce da che parte va l'album; verso l'introspezione. Suoni dilatati, ritmo cadenzato. Il primo singolo che aveva annunciato l'album era stato Barricades, una ballatona dark fatta per provare a scalare le classifiche, un pezzo decisamente sottotono rispetto al resto dell'album (suonano un po' troppo Spandau Ballet). Rispetto anche al nuovo singolo Lights, una sorta di splendida poesia in musica quasi chitarra e voce (leggero tappeto synth) che sale piano piano e guadagna il cielo di un crescendo come solo i primi U2, forse. A proposito di quest'ultimi, forse non tutti sanno che gli Interpol saranno il gruppo d'apertura del concerto romano del gruppo di Bono Vox, del prossimo 8 ottobre allo stadio Olimpico di Roma. Ragion per cui mi verrebbe quasi voglia di andarci e svignarmela una volta che salgono sul palco gli ormai defunti ex rocker irlandesi oggi amici intimi di potenti e potentati globalizzati. Ma torniamo all'album di Banks senza più il bassista Dengler (che qualcuno considera una perdita grave). Summer well a mio avviso avrebbe avuto le caratteristiche di singolo, una deliziosa ballata pop-wave, con un bel piano a scandire un ritmo quasi jazz. L'acuto di questo quarto lavoro però il gruppo newyorkese lo tira fuori con due pezzi davvero raffinati e romanticamente gotici; Always Malaise (The man I am) e The Undoing, la prima un'altra poesia intimista culminante in un ballata incalzante, la seconda un dolcissimo riff di chitarre che si espande in un vortice di tastiere e che la voce di Banks accarezza come salendo scalzo su una scala invisibile di armonie. Da non sottovalutare All of the ways, quasi una preghiera cupa e distorta al dio pagano assente da troppo tempo in questo strano mondo. Brillante e disincantata Try it on, classica e intrigante Safe without. Un album più che discreto tutto sommato, anzi voglio affermarlo: bello impeccabile, e bocciato dalla maggior parte della critica forse perché ormai lo sport che funziona sempre per poter vincere coppe di snobismo è il buon vecchio trito e ritrito gioco di smitizzare i miti (o almeno provarci). Ma Banks e compagni, speriamo, hanno le spalle grosse. Hanno pure lasciato la Major per tornare all'ovile. Belli de casa!
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