DE FALSU CREDITU
Earl Y. Warning
Il cinema eastern - volume primo: ombre rosse
Castoroilcinema-Kinoglazprom Soyuza, LXXXVII-850 Euro 16,35
No, nel titolo non c'è alcun errore - chi ha visto il documentario East side story l'avrà capito. Warning (*) ha qui compiuto un'impresa tanto meritoria quanto erculea. Dopo la caduta del Comunismo, s'è dato a battere cinema, cineteche, case del popolo, club, cantine, solai, insomma ogni possibile luogo ove le pellicole potevano venir proiettate, e ha compilato un monumentale regesto della filmografia sovietica, diviso per generi. Si comincia dal più curioso: forse non tutti sanno che, oltre a copiare la tecnologia dei manufatti, i sovietici realizzarono centinaia - forse migliaia - di "kaviar-western" (così li chiama l'Autore, in analogia con gli "spaghetti" di Sergio Leone e sodali), la maggior parte dei quali destinati all'esportazione nei "paesi fratelli" o satelliti, ma anche nel Terzo Mondo e perfino nelle repubbliche delle banane, taroccati con titoli italiani appunto o spagnoli.
Spesso queste opere non erano altro che pure trasposizioni degli omologhi statunitensi: così abbiamo un Ombre rosse, ribattezzato Krasnovij varij (lett. "La diligenza rossa"); un Mezzogiorno di fuoco, (cioè Garytovo Romanovo diegu), nel quale la parte di Gary Cooper è affidata a un attore non stranamente simile a Krusciov; un I magnifici sette (tradotto come Bol'shoij setìrij) con un sosia perfetto di Yul Brynner, di suo già di fisionomia cosacca, tant'è che aveva girato Taras Bulba; e persino un Massacro di fort Apache (dunque Port-Apashev sciagrinogo) corretto alla luce di Alexander Nevskij, Pugacëv e Stalingrado, recitato con un'enfasi scespiriana prima che realsocialista.
Oltre a questi "remake", circolavano però anche opere autoctone: parecchio sfruttata era l'evenienza storica per cui l'Alaska era stata zarista, come tratto d'unione funzionale alle sceneggiature, per giustificare la presenza di russi o russofoni tra i navajos o cheyenne, tra le "giacche blu" e le "ragazze di Parigi", - cioè francamente le puttane; ma in generale i personaggi venivano spacciati per americani "pur-sang", e le loro storie ricalcavano le forme logiche del film di "frontiera": il "cattivo" minaccia la piccola comunità, che si rivolge al "giustiziere" di turno per venir liberata, quindi c'è il duello. Ovvero gli indiani assaltano il fortino o la fattoria isolati, poi arrivano i nostri ("The cavalry!" nel sonoro originale, qui "Konarmija!", con una strizzata d'occhio a Babel). Colpisce, dice l'Autore, vedere che la maggior parte dei film realizzati in URSS hanno storie che rammentano quest'ultimo caso, e avanza l'ipotesi che sia un portato psicologico della "sindrome da assedio" che ha avvelenato la società sovietica sin dalla sua preistoria rivoluzionaria.
Girati nelle plaghe della Siberia o sui monti Urali, con le scritte dei negozi o dei cartelli in cirillico, gli indiani che sono comparse mongole, tartare o kirghize, e gli attori che hanno naturalmente un piglio cecoviano o gorkiano - ma si ricordi che l'Actor's studio aveva tra le sue basi il "metodo", cioè lo Stanislavskij - e colonne sonore improbabili (e talvolta melense: addirittura si sente un adagio dal concerto Ryom 93 di Vivaldi!), i film realizzati (rifatti o d'invenzione) erano naturalmente sofisticati dalla censura nelle storie e nelle battute in maniera da avere un'impronta didascalica e da rispondere ai dettàmi della morale e dell'ordine leninista (e diamaterialistico). Ciò che impressiona, dice l'Autore, non è tuttavia la manipolazione, piuttosto il contrario, ovvero quante opere western vennero trasposte integre in buona sostanza, dunque adatte al pubblico sovietico da un punto di vista ideologico e drammaturgico così come lo erano per l'"audience" statunitense. Warning a questo proposito nota come il famoso e famigerato "codice Hays" - il decalogo che regolamentava sin dalla fine degli anni Venti ciò che gli americani potevano o non potevano vedere sullo schermo - funzionava alla perfezione anche oltrecortina. Per paradosso, erano più pericolosi gli spaghetti western, che difatti venivano ben più rimaneggiati: nella versione moscoviàna di Per un pugno di dollari (cioè Eto dolarogo kulakuvo), il terribile e tossicomane bandito interpretato (in maniera solenne) da Gian Maria Volonté - che però inspiegabilmente Warning indica con lo pseudonimo che compare nei titoli americani, John Wells, chiamando invece Sergio Leone col vero nome - è rivisitato à la Brecht-Weill, divenendo un ex direttore di banca, criminale ma non "fatto"!
Va detto, comunque, che un certo numero di western autentici circolarono in Unione Sovietica, con buon successo di pubblico e di critica: ad esempio Soldato blu e Piccolo grande uomo. Ma vennero proiettati quasi sempre dopo una "spiega" ideologica dovuta a qualche membro del partito, sicché se ne temeva, argomenta Warning, l'analogia con le situazioni dei popoli delle repubbliche non russe e del patto di Varsavia, che potevano identificarsi con gli indiani e trarre le loro conclusioni - da lì, la necessità di disinnescarli, e renderli funzionali al solo antiamericanismo, e alla propaganda panslava. Curiosa è poi la storia di un western minore, I cowboys: John Wayne, rimasto a corto di uomini, arruola un branco di ragazzini e un cuoco nero per portare i suoi capi di bestiame alla ferrovia. E', come dire, un "bildungsmovie": i malcìcchi affrontano le difficoltà della vita e crescono superando le dure prove - persino uno scontro a fuoco con i "vilains" di turno - che la sorte mette loro d'innanzi. E però essa li ricompensa con un senso di identità, di forza e di appartenenza che si intuisce nelle scene più intime. Ma è anche, per come lo poteva concepire Wayne, un regolamento di conti con il Sessantotto (il film è dei primi anni Settanta): e si può capire quali risonanze destasse in una nazione in cui molti adulti avevano avuto come giardino d'infanzia l'invasione nazista, guardando capolavori come L'infanzia di Ivan, o bei film quali Le cicogne volano ancora.
Chiudendo questo primo volume d'un'opera che intuiamo vasta (e bene ha fatto l'Editore a pubblicarla subito in economica, ben introdotta da Gottfried Phopfer e ben tradotta da Melita Cuccurullo Norwell Hardy), l'Autore, che si presenta come liberale di scuola chomskyana, si raccomanda al fruitore perché "sospenda il giudizio", ovvero ricordi che questa è una storia cinematografica, non evenemenziale né tampoco politica, e dunque consideri solo sotto questo rispetto ogni tema o dettaglio. Ma, in qualche modo, c'è un filo rosso - è il caso di dirlo - che lega l'analisi disparata delle pellicole, oltre alle similitudini proprio evidenti fra la "sinistra" e la "destra" cinematografiche: l'idea che il giorno in cui due fratelli di Besançon impressionarono i primi metri di nitrocellulosa trattata con nitrato d'argento, fu da segnare nel calendario dell'uomo come un'ennesima conquista del percorso umano verso una lingua che altro non può chiamarsi -malgrado tutto - che "della realtà".
(*)(1951-viv.) Bimbo prodigio, laureato del Vassar quindicenne, esordisce a sedici anni con uno studio sui primi cinque minuti di Quarto potere(Citizen Two Real, Acne&Misfits, New York-Pasadena, 1967 - tr. it. Nuovo cinema di garofano, in AA.VV. Cinema Reale, SugarCo, 1988) che pare sia stato la scintilla che ispirato a Tom Wolfe il suo mordente Radical Chic). Autore in seguito di innumerevoli ammirevoli saggi (uno fra tutti: Giorgio Orso Pozzi - Orson Welles' march on Cinecittà, Moore's Savannah Publishers, London-New York-Pantigliate, 1981), oggi è critico cinematografico del The Worm Your Honor Quarterly, la rivista più recente e già più letta dall'intellighenzia della Grande Mela. E' anche storico della settima arte - suo quel Mummy dearest, (Andy Eight, New York-Palermo-Rome 1996) che analizza il personaggio-Mummia e affini nel cinema occidentale.
Spesso queste opere non erano altro che pure trasposizioni degli omologhi statunitensi: così abbiamo un Ombre rosse, ribattezzato Krasnovij varij (lett. "La diligenza rossa"); un Mezzogiorno di fuoco, (cioè Garytovo Romanovo diegu), nel quale la parte di Gary Cooper è affidata a un attore non stranamente simile a Krusciov; un I magnifici sette (tradotto come Bol'shoij setìrij) con un sosia perfetto di Yul Brynner, di suo già di fisionomia cosacca, tant'è che aveva girato Taras Bulba; e persino un Massacro di fort Apache (dunque Port-Apashev sciagrinogo) corretto alla luce di Alexander Nevskij, Pugacëv e Stalingrado, recitato con un'enfasi scespiriana prima che realsocialista.
Oltre a questi "remake", circolavano però anche opere autoctone: parecchio sfruttata era l'evenienza storica per cui l'Alaska era stata zarista, come tratto d'unione funzionale alle sceneggiature, per giustificare la presenza di russi o russofoni tra i navajos o cheyenne, tra le "giacche blu" e le "ragazze di Parigi", - cioè francamente le puttane; ma in generale i personaggi venivano spacciati per americani "pur-sang", e le loro storie ricalcavano le forme logiche del film di "frontiera": il "cattivo" minaccia la piccola comunità, che si rivolge al "giustiziere" di turno per venir liberata, quindi c'è il duello. Ovvero gli indiani assaltano il fortino o la fattoria isolati, poi arrivano i nostri ("The cavalry!" nel sonoro originale, qui "Konarmija!", con una strizzata d'occhio a Babel). Colpisce, dice l'Autore, vedere che la maggior parte dei film realizzati in URSS hanno storie che rammentano quest'ultimo caso, e avanza l'ipotesi che sia un portato psicologico della "sindrome da assedio" che ha avvelenato la società sovietica sin dalla sua preistoria rivoluzionaria.
Girati nelle plaghe della Siberia o sui monti Urali, con le scritte dei negozi o dei cartelli in cirillico, gli indiani che sono comparse mongole, tartare o kirghize, e gli attori che hanno naturalmente un piglio cecoviano o gorkiano - ma si ricordi che l'Actor's studio aveva tra le sue basi il "metodo", cioè lo Stanislavskij - e colonne sonore improbabili (e talvolta melense: addirittura si sente un adagio dal concerto Ryom 93 di Vivaldi!), i film realizzati (rifatti o d'invenzione) erano naturalmente sofisticati dalla censura nelle storie e nelle battute in maniera da avere un'impronta didascalica e da rispondere ai dettàmi della morale e dell'ordine leninista (e diamaterialistico). Ciò che impressiona, dice l'Autore, non è tuttavia la manipolazione, piuttosto il contrario, ovvero quante opere western vennero trasposte integre in buona sostanza, dunque adatte al pubblico sovietico da un punto di vista ideologico e drammaturgico così come lo erano per l'"audience" statunitense. Warning a questo proposito nota come il famoso e famigerato "codice Hays" - il decalogo che regolamentava sin dalla fine degli anni Venti ciò che gli americani potevano o non potevano vedere sullo schermo - funzionava alla perfezione anche oltrecortina. Per paradosso, erano più pericolosi gli spaghetti western, che difatti venivano ben più rimaneggiati: nella versione moscoviàna di Per un pugno di dollari (cioè Eto dolarogo kulakuvo), il terribile e tossicomane bandito interpretato (in maniera solenne) da Gian Maria Volonté - che però inspiegabilmente Warning indica con lo pseudonimo che compare nei titoli americani, John Wells, chiamando invece Sergio Leone col vero nome - è rivisitato à la Brecht-Weill, divenendo un ex direttore di banca, criminale ma non "fatto"!
Va detto, comunque, che un certo numero di western autentici circolarono in Unione Sovietica, con buon successo di pubblico e di critica: ad esempio Soldato blu e Piccolo grande uomo. Ma vennero proiettati quasi sempre dopo una "spiega" ideologica dovuta a qualche membro del partito, sicché se ne temeva, argomenta Warning, l'analogia con le situazioni dei popoli delle repubbliche non russe e del patto di Varsavia, che potevano identificarsi con gli indiani e trarre le loro conclusioni - da lì, la necessità di disinnescarli, e renderli funzionali al solo antiamericanismo, e alla propaganda panslava. Curiosa è poi la storia di un western minore, I cowboys: John Wayne, rimasto a corto di uomini, arruola un branco di ragazzini e un cuoco nero per portare i suoi capi di bestiame alla ferrovia. E', come dire, un "bildungsmovie": i malcìcchi affrontano le difficoltà della vita e crescono superando le dure prove - persino uno scontro a fuoco con i "vilains" di turno - che la sorte mette loro d'innanzi. E però essa li ricompensa con un senso di identità, di forza e di appartenenza che si intuisce nelle scene più intime. Ma è anche, per come lo poteva concepire Wayne, un regolamento di conti con il Sessantotto (il film è dei primi anni Settanta): e si può capire quali risonanze destasse in una nazione in cui molti adulti avevano avuto come giardino d'infanzia l'invasione nazista, guardando capolavori come L'infanzia di Ivan, o bei film quali Le cicogne volano ancora.
Chiudendo questo primo volume d'un'opera che intuiamo vasta (e bene ha fatto l'Editore a pubblicarla subito in economica, ben introdotta da Gottfried Phopfer e ben tradotta da Melita Cuccurullo Norwell Hardy), l'Autore, che si presenta come liberale di scuola chomskyana, si raccomanda al fruitore perché "sospenda il giudizio", ovvero ricordi che questa è una storia cinematografica, non evenemenziale né tampoco politica, e dunque consideri solo sotto questo rispetto ogni tema o dettaglio. Ma, in qualche modo, c'è un filo rosso - è il caso di dirlo - che lega l'analisi disparata delle pellicole, oltre alle similitudini proprio evidenti fra la "sinistra" e la "destra" cinematografiche: l'idea che il giorno in cui due fratelli di Besançon impressionarono i primi metri di nitrocellulosa trattata con nitrato d'argento, fu da segnare nel calendario dell'uomo come un'ennesima conquista del percorso umano verso una lingua che altro non può chiamarsi -malgrado tutto - che "della realtà".
(*)(1951-viv.) Bimbo prodigio, laureato del Vassar quindicenne, esordisce a sedici anni con uno studio sui primi cinque minuti di Quarto potere(Citizen Two Real, Acne&Misfits, New York-Pasadena, 1967 - tr. it. Nuovo cinema di garofano, in AA.VV. Cinema Reale, SugarCo, 1988) che pare sia stato la scintilla che ispirato a Tom Wolfe il suo mordente Radical Chic). Autore in seguito di innumerevoli ammirevoli saggi (uno fra tutti: Giorgio Orso Pozzi - Orson Welles' march on Cinecittà, Moore's Savannah Publishers, London-New York-Pantigliate, 1981), oggi è critico cinematografico del The Worm Your Honor Quarterly, la rivista più recente e già più letta dall'intellighenzia della Grande Mela. E' anche storico della settima arte - suo quel Mummy dearest, (Andy Eight, New York-Palermo-Rome 1996) che analizza il personaggio-Mummia e affini nel cinema occidentale.
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