CLASSICI
Gianfranco Franchi
Il grido d'orrore di Evgenij Ivanovich Zamjatin
Il Novecento è stato un secolo buio: è stato il secolo delle guerre più atroci della storia dell'umanità, del potere soffocante, umiliante e disumanizzante d'una burocrazia ciclopica, e della trasformazione esplicita dello Stato in Regime dittatoriale, franco omicida della libertà dei cittadini e avvelenatore della loro coscienza. Ne siamo usciti indeboliti, spaventati e scossi, decimati e tuttavia illusi che il ritorno dei regimi ad apparentemente democratiche forme statali significasse il principio di una rigenerazione, e di un cambiamento epocale: cambiamento che sembra eccezionalmente lontano, nel 2009, destabilizzando le vite dei cittadini e deprimendo le loro speranze.
L'incubo peggiore è che certa pervasiva presenza di un'istituzione come quella dello Stato abbia soltanto mutato strategie e tecniche di condizionamento, e di controllo della cittadinanza: la dissoluzione dei regimi va letta piuttosto come una trasformazione. Una trasformazione intelligente, e astuta.
È la letteratura, adesso, che deve saper scoprire i punti deboli di questa nuova macchina tritura-umanità. Negli anni Venti, un artista come Zamjatin era in grado di trasfigurare il raccapriccio, il disgusto e il disprezzo per un regime assassino e indecente come quello socialista sovietico in un'opera che rappresentava uno scenario plausibile di decadenza dell'umanità e divinizzazione dello Stato. Zamjatin pagò il suo coraggio e il suo genio con la costrizione all'esilio, e con una censura in patria che durò sino al termine della parabola atroce, omicida e liberticida del comunismo, due decenni fa.
Tuttavia, influenzò profondamente (Noi è del 1920) una serie di artisti che in Europa – che qui in Italia – conosciamo diversamente bene: George Orwell, Aldous Huxley, William Bordewijk. La fortuna editoriale del gran romanzo di Zamjatin, nel nostro benedetto assurdo belpaese, è stata episodica e grottesca; è per merito di Bigalli e Rizzardini e della loro collana "I Rimossi" se, appena ventiquattro anni dopo l'introvabile (e misteriosamente mai ristampata) edizione Feltrinelli, l'opera può tornare a circolare nelle abitazioni dei letterati e dei cittadini appassionati di letteratura della distopia.
A cosa serve, oggi, Noi?
Serve a non dimenticare come il regime comunista trattava gli artisti estranei alla supina adesione al suo infame verbo.
Serve a non dimenticare come la cultura e certa editoria italiana siano state, sino a pochi decenni fa, vittime in più d'una circostanza d'una sinistra sottomissione ai diktat moscoviti. Fedeli alla linea. Rossa.
Serve a interiorizzare un paradigma che appassionò e ispirò artisti occidentali.
L'opera si presenta come un diario; è suddivisa in quaranta note, ciascuna introdotta da un breve sommario. Il narratore – in prima persona, intradiegetico, non onnisciente – scrive "per gli antenati" (p. 22: selvaggi, lontani antenati...) da un futuro inquietante che possiamo così sintetizzare: tutti i cittadini hanno perduto nome e cognome, sono individuati da numeri. Numeri integrati alla perfezione – per così dire – nell'unico Stato che regge e governa il mondo. Autorità unica di questa terra, il Benefattore. Niente più nazioni, niente più guerre: Tavole delle Leggi eque per tutti e da tutti condivise. L'informazione è garantita dal Giornale dello Stato.
La linea dello Stato Unico è retta. L'unica possibile per un mondo del genere.
I cittadini – d'ora in avanti: numeri – non hanno più nessuna forma di vita privata; le pareti degli edifici sono trasparenti. Per i momenti dedicati al previsto diritto all'accoppiamento esistono sobrie tendine.
Tutti, finalmente, sono uguali: sono previste due ore di svago al giorno, durante il pomeriggio e la sera. Durante la notte si deve, inevitabilmente, dormire (p. 49). Preferibilmente senza sognare: il sogno è considerato seria malattia psichica (p. 29). L'alimentazione dello Stato Unico è ben diversa da quella che conosciamo; la parola "pane" è un'allegoria poetica per quel cibo universale che è diventato la nafta.
In questo ameno contesto, la dottrina principe è quella della Ragione: adesso lo Stato Unico vuole estenderla a tutto l'universo, pianeta per pianeta, per portare la certezza matematica della felicità ai popoli alieni rimasti estranei al comunismo; per questo, D-503, il narratore del diario, sta costruendo un Integrale Elettrico che cambierà per sempre la storia dei popoli del cosmo.
Uniformandola a quella dei numeri dello Stato Unico.
Si vive in un mondo in cui chi volesse essere "originale" andrebbe a infrangere l'uguaglianza. L'uguaglianza è fondamentale: garante totale, il nuovo Dio.
Il nuovo Dio è lo Stato (p. 39), naturalmente. L'anima è una malattia.
Non racconterò altro del mondo raccontato (trasfigurato) da D-503, auspicando che il lettore abbia già inteso la centralità dell'opera e dei suoi assi portanti, e la peculiarità delle critiche rivolte nei confronti della deviazione più orrida dello Stato Moderno. Mi limito a segnalare che, come chi ama il genere non dubita, sarà una figura femminile a destabilizzare – quanto provvisoriamente sarete voi neofiti a scoprirlo – l'equilibrio di D-503. Non mancherà l'incontro con il Benefattore.
Tempo fa, scrivendo dell'ultima utopia del Novecento – l'ultima: da oltre cento anni siamo inondati da distopie – ossia la dimessa Island di Huxley, pensavo che siamo tutti avvertiti e sensibilizzati a proposito delle possibili derive di questa abnorme istituzione che è lo Stato Moderno: e che forse questo è il momento storico di tornare a sognare e congetturare, come nei secoli scorsi, una società e un mondo migliori e più vivibili. La ricerca della felicità e della serenità di ogni cittadino non può e non deve coincidere con una insensata, generica e imposta uguaglianza: la menzogna comunista deve essere definitivamente accantonata. La strada del futuro va tracciata: servono idee per sentieri nuovi di ricerca e di costruzione di uno Stato diverso. È questa una delle grandi sfide dei letterati di questo secolo; tornare su certi binari.
Anche per omaggiare, mettiamola così, il sacrificio di quegli artisti che pur di testimoniare il loro senso di giustizia e libertà hanno compromesso la loro esistenza, vedendo oscurate o cancellate le loro creazioni.
Restituire vita a Noi di Zamjatin significa credere nella speranza.
La fiamma non s'è mai spenta, la fiaccola è accesa. Siamo pronti a sprofondare nel nuovo medioevo con la consapevolezza che l'umanità risorgerà solo grazie all'intelligenza, alla sensibilità e allo studio: all'amore per il prossimo, e all'odio per le oligarchie neoaristocratiche che dominano ogni nazione, decretando la possibilità di vita e circolazione delle opere d'arte.
Oggi, ben lo sappiamo, la censura s'è fatta adulta e astuta. Non serve far sparire i dissidenti, basta farli circolare in poche copie. Combattiamola, allora, sostenendo quelle opere che possono ancora cambiare la storia.
L'edizione considerata è:
Evgenij Ivanovich Zamjatin Noi - Lupetti editore - Milano 2007.
L'incubo peggiore è che certa pervasiva presenza di un'istituzione come quella dello Stato abbia soltanto mutato strategie e tecniche di condizionamento, e di controllo della cittadinanza: la dissoluzione dei regimi va letta piuttosto come una trasformazione. Una trasformazione intelligente, e astuta.
È la letteratura, adesso, che deve saper scoprire i punti deboli di questa nuova macchina tritura-umanità. Negli anni Venti, un artista come Zamjatin era in grado di trasfigurare il raccapriccio, il disgusto e il disprezzo per un regime assassino e indecente come quello socialista sovietico in un'opera che rappresentava uno scenario plausibile di decadenza dell'umanità e divinizzazione dello Stato. Zamjatin pagò il suo coraggio e il suo genio con la costrizione all'esilio, e con una censura in patria che durò sino al termine della parabola atroce, omicida e liberticida del comunismo, due decenni fa.
Tuttavia, influenzò profondamente (Noi è del 1920) una serie di artisti che in Europa – che qui in Italia – conosciamo diversamente bene: George Orwell, Aldous Huxley, William Bordewijk. La fortuna editoriale del gran romanzo di Zamjatin, nel nostro benedetto assurdo belpaese, è stata episodica e grottesca; è per merito di Bigalli e Rizzardini e della loro collana "I Rimossi" se, appena ventiquattro anni dopo l'introvabile (e misteriosamente mai ristampata) edizione Feltrinelli, l'opera può tornare a circolare nelle abitazioni dei letterati e dei cittadini appassionati di letteratura della distopia.
A cosa serve, oggi, Noi?
Serve a non dimenticare come il regime comunista trattava gli artisti estranei alla supina adesione al suo infame verbo.
Serve a non dimenticare come la cultura e certa editoria italiana siano state, sino a pochi decenni fa, vittime in più d'una circostanza d'una sinistra sottomissione ai diktat moscoviti. Fedeli alla linea. Rossa.
Serve a interiorizzare un paradigma che appassionò e ispirò artisti occidentali.
L'opera si presenta come un diario; è suddivisa in quaranta note, ciascuna introdotta da un breve sommario. Il narratore – in prima persona, intradiegetico, non onnisciente – scrive "per gli antenati" (p. 22: selvaggi, lontani antenati...) da un futuro inquietante che possiamo così sintetizzare: tutti i cittadini hanno perduto nome e cognome, sono individuati da numeri. Numeri integrati alla perfezione – per così dire – nell'unico Stato che regge e governa il mondo. Autorità unica di questa terra, il Benefattore. Niente più nazioni, niente più guerre: Tavole delle Leggi eque per tutti e da tutti condivise. L'informazione è garantita dal Giornale dello Stato.
La linea dello Stato Unico è retta. L'unica possibile per un mondo del genere.
I cittadini – d'ora in avanti: numeri – non hanno più nessuna forma di vita privata; le pareti degli edifici sono trasparenti. Per i momenti dedicati al previsto diritto all'accoppiamento esistono sobrie tendine.
Tutti, finalmente, sono uguali: sono previste due ore di svago al giorno, durante il pomeriggio e la sera. Durante la notte si deve, inevitabilmente, dormire (p. 49). Preferibilmente senza sognare: il sogno è considerato seria malattia psichica (p. 29). L'alimentazione dello Stato Unico è ben diversa da quella che conosciamo; la parola "pane" è un'allegoria poetica per quel cibo universale che è diventato la nafta.
In questo ameno contesto, la dottrina principe è quella della Ragione: adesso lo Stato Unico vuole estenderla a tutto l'universo, pianeta per pianeta, per portare la certezza matematica della felicità ai popoli alieni rimasti estranei al comunismo; per questo, D-503, il narratore del diario, sta costruendo un Integrale Elettrico che cambierà per sempre la storia dei popoli del cosmo.
Uniformandola a quella dei numeri dello Stato Unico.
Si vive in un mondo in cui chi volesse essere "originale" andrebbe a infrangere l'uguaglianza. L'uguaglianza è fondamentale: garante totale, il nuovo Dio.
Il nuovo Dio è lo Stato (p. 39), naturalmente. L'anima è una malattia.
Non racconterò altro del mondo raccontato (trasfigurato) da D-503, auspicando che il lettore abbia già inteso la centralità dell'opera e dei suoi assi portanti, e la peculiarità delle critiche rivolte nei confronti della deviazione più orrida dello Stato Moderno. Mi limito a segnalare che, come chi ama il genere non dubita, sarà una figura femminile a destabilizzare – quanto provvisoriamente sarete voi neofiti a scoprirlo – l'equilibrio di D-503. Non mancherà l'incontro con il Benefattore.
Tempo fa, scrivendo dell'ultima utopia del Novecento – l'ultima: da oltre cento anni siamo inondati da distopie – ossia la dimessa Island di Huxley, pensavo che siamo tutti avvertiti e sensibilizzati a proposito delle possibili derive di questa abnorme istituzione che è lo Stato Moderno: e che forse questo è il momento storico di tornare a sognare e congetturare, come nei secoli scorsi, una società e un mondo migliori e più vivibili. La ricerca della felicità e della serenità di ogni cittadino non può e non deve coincidere con una insensata, generica e imposta uguaglianza: la menzogna comunista deve essere definitivamente accantonata. La strada del futuro va tracciata: servono idee per sentieri nuovi di ricerca e di costruzione di uno Stato diverso. È questa una delle grandi sfide dei letterati di questo secolo; tornare su certi binari.
Anche per omaggiare, mettiamola così, il sacrificio di quegli artisti che pur di testimoniare il loro senso di giustizia e libertà hanno compromesso la loro esistenza, vedendo oscurate o cancellate le loro creazioni.
Restituire vita a Noi di Zamjatin significa credere nella speranza.
La fiamma non s'è mai spenta, la fiaccola è accesa. Siamo pronti a sprofondare nel nuovo medioevo con la consapevolezza che l'umanità risorgerà solo grazie all'intelligenza, alla sensibilità e allo studio: all'amore per il prossimo, e all'odio per le oligarchie neoaristocratiche che dominano ogni nazione, decretando la possibilità di vita e circolazione delle opere d'arte.
Oggi, ben lo sappiamo, la censura s'è fatta adulta e astuta. Non serve far sparire i dissidenti, basta farli circolare in poche copie. Combattiamola, allora, sostenendo quelle opere che possono ancora cambiare la storia.
L'edizione considerata è:
Evgenij Ivanovich Zamjatin Noi - Lupetti editore - Milano 2007.
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