ATTUALITA'
Stefano Torossi
Il problema è la carta
“Il problema è la carta”
Se fossimo in un film di Pierino capiremmo subito di quale carta si parla e dove si va a parare.
Invece siamo in una situazione parecchio più elevata e la carta è quella pentagrammata che il compositore si trova davanti e che deve riempire. Di note e di pause che soddisfino lui stesso, ma anche il regista del film, e il produttore, e magari pure qualche solista di particolare peso.
E’ la battuta di apertura di Ennio Morricone in un incontro davvero speciale con l’ultimo grande vecchio della musica del nostro tempo, al MACRO martedì 6 dicembre. Due chiacchiere con il maestro, durate in realtà più di un’ora, e poi il concerto di musiche sue e di Petrassi.
L’evento è parte del Festival di Nuova Consonanza, un’associazione fondata da un gruppo di musicisti, fra cui Morricone stesso, che volevano a tutti i costi sperimentare.
E’ passato mezzo secolo, molti dei fondatori se ne sono andati per sempre, i soldi delle istituzioni se ne sono andati anche loro, almeno in parte e speriamo non per sempre, ma lo spirito è rimasto quello e tutti gli anni il festival propone qualcosa di nuovo da ascoltare, ricorda i grandi che non ci sono più, festeggia i grandi che ci sono ancora.
E’ una bella famiglia, e martedì c’erano tutti, con in più due formidabili solisti: Buttà, Pincini e la Roma Sinfonietta con il Coro Petrassi che hanno suonato e cantato, egregiamente diretti da Stefano Cucci.
Tutto l’ambaradam è tenuto in pugno dall’impeccabile Patrizia Sbordoni e movimentato dalla sua assistente Silvia, una biondina dai muscoli d’acciaio, capace di distribuire programmi di sala, piazzare le sedie e spingere il pianoforte su e giù per la scena. Contemporaneamente.
Morricone, che in passato ci aveva abituati al suo parlare spesso burbero, evidentemente ammorbidito dagli anni, si abbandona a battute e a commenti pungenti ma anche sorridenti, ricordando con puntigliosa esattezza tutto di una lunga vita piena d’incontri e scontri.
Ci racconta di un periodo, i primi anni sessanta, in cui aveva fondato l’impegnatissimo Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza, però faceva anche, per la RCA, gli arrangiamenti delle canzonette di Edoardo Vianello e Gino Paoli, stando bene attento a non farsi scoprire dal suo maestro di composizione, il severo Goffredo Petrassi, che di sicuro non avrebbe gradito.
Nello stesso tempo, e con un buon senso così raro fra i sacerdoti della sperimentazione artistica, ironizza sui concerti a Darmstadt in cui Cage impazzava producendo quella che proprio musica non si poteva chiamare, ma che aveva, lo si è capito dopo, il valore della sua energia polemica.
E naturalmente ancora una volta ribadisce la differenza fra la musica di commento (cinema, teatro, TV) che gli esce dalla penna con la massima fecondità e in un tempo minimo, e quella che chiama la musica assoluta, che spesso richiede gestazioni lunghe e faticose, piace a pochi, ma evidentemente rappresenta un picco di creatività per lui importantissimo e di cui è orgoglioso.
Per concludere, non sarà che in certi casi l’arte riesce davvero ad allontanare lo spettro della decrepitezza perfino a novant’anni?
Cacciato e riammesso
Giacomo Manzù, scultore da sempre molto legato alla Chiesa a un certo punto della sua vita artistica osa uscire dalle regole manifestando un’autonomia di espressione che non piace alla direzione, la quale, senza perdere un minuto, lo fa fuori, negandogli ogni committenza.
Non è certo il primo a cui succede (Caravaggio fra tutti), ma verrebbe da pensare che alla fine del secondo millennio una scomunica di questo genere non sia più possibile.
E qual è la ragione di questa disgrazia? Difficile dirlo; probabilmente la scelta dell’artista di rappresentare nudi nelle sue crocefissioni e deposizioni sia la Maddalena, sia il grasso prelato che assiste al martirio, sia il boia panzone con elmetto tedesco, o lo stesso Cristo che penzola dalla croce nudo come la carcassa nuda di un animale abbattuto.
E pensare che queste opere sia Argan che Scialoja le avevano trovate ben più religiose dei tradizionali cristi e madonne agghindate da manti e perizomi.
E lo sono, dolorosamente.
Poi, certo, il perdono arriva, addirittura con la commissione della Porta della Morte in San Pietro. Ma c’è da pensare che sia una di quelle decisioni più che misericordiose, ricattatorie, a cui la Chiesa ci ha abituati da secoli.
La mostra si è inaugurata in questi giorni in un ambiente che simboleggia il contrasto fra severa spiritualità e bellicosità: Castel Sant’Angelo. Che è un insieme di rampe, muraglioni, feritoie, merli, saloni di straordinaria suggestione. Eppure i bronzi di Manzù, fra cui i suoi cardinali seduti, veri fossili immobili ma non senza vita, masse voluminose in cui, senza bisogno di intravvederne l’anatomia si indovina il corpo, fisico e spirituale, dell’istituzione, non si fanno schiacciare dal peso del monumento.
A fine mostra, nel cortile delle palle (di cannone), buffet quasi vegano e ottimo prosecco a temperatura ambiente, cioè gelato.
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