CINEMA E MUSICA
Stefano Torossi
Il quarantesimo del Signor G.

Facciamo adesso un salto verso il mare. Il 2011 è il quarantesimo anniversario del debutto milanese de "Il Signor G". A Viareggio è esploso sabato e domenica 23 e 24 il Festival Teatro Canzone Giorgio Gaber. Un evento organizzato in grande, in primo luogo per il posto, la Cittadella del Carnevale, uno spazio che sembra Cape Canaveral. Un semicerchio di enormi hangar dove riposano i famosi carri allegorici, e al centro un grande palcoscenico e platea di tremila posti.
Poi per il livello degli ospiti, che, a quanto ci hanno detto, lavorano tutti gratis in omaggio al sommo Gaber. Ci sono passati da Dalla a Zero a Baglioni. Quest'anno i big erano Ornella Vanoni, la PFM, Ruggeri, e altri. Sorprendente fra i meno big Marco Mengoni, un personaggio di strabiliante ma molto attraente disumanità per il modo di cantare, di muoversi, per il trucco, per l'espressione degli occhi che ne fanno una specie di essere virtualmente reale (o realmente virtuale). Altrettanto sorprendente, ma in senso opposto, Cristiano De Andrè, che cita continuamente (usurpando applausi, di famiglia, sì, ma non proprio suoi) il grande Fabrizio nelle presentazioni dei brani, nei frammenti autobiografici, e soprattutto nel modo di cantare. Poveri questi figli che non riescono a liberarsi dell'ombra dei padri.
L'organizzazione è stata perfetta, i buffet succulenti, le navette in orario e il grande burattinaio della manifestazione, Paolo Dal Bon, un ospite superlativo, un principe rinascimentale. Perché allora sentiamo la voglia di punzecchiare questo evento?
Ci sono alcuni dettagli dello spettacolo che ci costringono a tirare fuori i denti avvelenati. Non riguardano i musicisti, ma gli altri. Ci chiediamo perché comici affermati e di sicuro mestiere come Giobbe Covatta, presente tutte due le sere, o il nuovo Maurizio Lastrico, geniale improvvisatore in terzine dantesche su qualsiasi argomento, non riescano a fare a meno di farcire le loro battute (che non ne avrebbero nessun bisogno, perché sono pronte, intelligenti e acute) di merda (molte volte Covatta), di flatulenze e corse al gabinetto (ancora Covatta, e parlando come Dante nel dugento, anche Lastrico) di peli, con immaginabili riferimenti, e alla fine, proprio come battuta di chiusura, Lastrico ci ha anche regalato la FIGA!
Naturalmente la gente si sganascia. E' l'infantilismo del pubblico che nell'anonimato della platea regredisce e rinuncia alla maturità dell'ironia, per riempirsi le orecchie dell'altra pietanza che abbiamo appena citato.
Cosa augurarci? Certo non è facile rinunciare a un pubblico facile, ma chi ha il microfono in mano, potrebbe, attraverso la scelta delle parole che usa, selezionare gli applausi, perderne magari qualcuno, ma guadagnare in buon gusto ed eleganza. E anche in dignità professionale.
Utopia?
Poi per il livello degli ospiti, che, a quanto ci hanno detto, lavorano tutti gratis in omaggio al sommo Gaber. Ci sono passati da Dalla a Zero a Baglioni. Quest'anno i big erano Ornella Vanoni, la PFM, Ruggeri, e altri. Sorprendente fra i meno big Marco Mengoni, un personaggio di strabiliante ma molto attraente disumanità per il modo di cantare, di muoversi, per il trucco, per l'espressione degli occhi che ne fanno una specie di essere virtualmente reale (o realmente virtuale). Altrettanto sorprendente, ma in senso opposto, Cristiano De Andrè, che cita continuamente (usurpando applausi, di famiglia, sì, ma non proprio suoi) il grande Fabrizio nelle presentazioni dei brani, nei frammenti autobiografici, e soprattutto nel modo di cantare. Poveri questi figli che non riescono a liberarsi dell'ombra dei padri.
L'organizzazione è stata perfetta, i buffet succulenti, le navette in orario e il grande burattinaio della manifestazione, Paolo Dal Bon, un ospite superlativo, un principe rinascimentale. Perché allora sentiamo la voglia di punzecchiare questo evento?
Ci sono alcuni dettagli dello spettacolo che ci costringono a tirare fuori i denti avvelenati. Non riguardano i musicisti, ma gli altri. Ci chiediamo perché comici affermati e di sicuro mestiere come Giobbe Covatta, presente tutte due le sere, o il nuovo Maurizio Lastrico, geniale improvvisatore in terzine dantesche su qualsiasi argomento, non riescano a fare a meno di farcire le loro battute (che non ne avrebbero nessun bisogno, perché sono pronte, intelligenti e acute) di merda (molte volte Covatta), di flatulenze e corse al gabinetto (ancora Covatta, e parlando come Dante nel dugento, anche Lastrico) di peli, con immaginabili riferimenti, e alla fine, proprio come battuta di chiusura, Lastrico ci ha anche regalato la FIGA!
Naturalmente la gente si sganascia. E' l'infantilismo del pubblico che nell'anonimato della platea regredisce e rinuncia alla maturità dell'ironia, per riempirsi le orecchie dell'altra pietanza che abbiamo appena citato.
Cosa augurarci? Certo non è facile rinunciare a un pubblico facile, ma chi ha il microfono in mano, potrebbe, attraverso la scelta delle parole che usa, selezionare gli applausi, perderne magari qualcuno, ma guadagnare in buon gusto ed eleganza. E anche in dignità professionale.
Utopia?
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