CLASSICI
Alfredo Ronci
Insisto su un grande scrittore (e un grande libro): 'Le figlie inquiete' di Ugo Facco de Lagarda.
Rimane un mistero perché Calvino, Vittorini, Cassola, Pavese e Fenoglio (tanto per citarne alcuni) sì e Facco de Lagarda no. Non mi spiego l'oblio che è caduto su uno scrittore straordinario che, se non fosse per un improvviso bagliore di lucidità di Ettore Scola che nel 1969 realizzò il film Il commissario Pepe, tratto da un suo bellissimo romanzo, rimarrebbe sconosciuto ai più ed ignorato dalla critica 'militante'.
A mio dire Facco de Lagarda ha l'eleganza misurata appunto di un Fenoglio e la grazia affabulatoria, anche se non proprio bulimica, di un Gadda e l'integra propensione alla descrizione di un Moravia. Eppure i tre citati appartengono alla dimensione del mito, lo scrittore veneziano, ahimé, non sappiamo davvero che 'fine' abbia fatto.
Le figlie inquiete, raccolta di racconti apparsa per la prima volta nel 1956, conferma la sostanza polposa della narrativa lagardiana: per certi versi disordinatamente eterogenea, assume una consistenza granitica e compatta proprio nello stile aggraziato ed esplorativo dello scrittore.
La prima parte, composta per lo più da storielline rapide e sapidamente ironiche, potrebbe gareggiare con il dopoguerra falsamente frizzante dell'opera prima di Arbasino (Le piccole vacanze): ambientate nel lido di Venezia, sono il ritratto nostalgico e per certi versi tagliente di una generazione alle prese con la prima ventata di libertà dopo la fine della guerra: ecco la ragazza che non vuole ammettere di cercar sesso ('La vergine'), ecco il commendatore che è ridicolo nel tentativo di andar per mare ('Bagno del commendatore'): egli è uno qualunque, sbattuto qua e là, che ride male e sta a guardare a bocca aperta ondine e nettuni i quali da un alto trampolino si lanciano a braccia aperte, come angeli, in mare. Ecco la ragazza a cui viene via il costume ('Il flutto decumano'), ecco il maestro di nuoto che si sospetta che non sappia nuotare ('Il maestro di nuoto'). Insomma ci troviamo di fronte a ritratti apparentemente leggeri ad una prima lettura, ma la versatilità dei motivi, la dosatura degli effetti caricaturali e il dispettoso gioco satirico sono, oltre che un tratto inconfondibile dell'arte lagardiana, veicolo per una rappresentazione più socialmente impegnativa della realtà del tempo. Che la si ritrova ancor più puntuale nella seconda parte dell'antologia: dove in essa leggiamo uno dei racconti più belli e terribili del nostro dopoguerra, quel 'La disperata' nel quale, con pochi e leggiadri tratti di penna, Lagarda raffigura la transizione tra il regime ed il nuovo ordine attraverso la figura di una donna irriducibilmente fascista (Ha così avuto, dopo tanto errare per mezzanini e soffitte, un appartamento tutto per sé, coi tappeti degli ebrei sotto i piedi) che non esita a fare il saluto romano nemmeno di fronte a quelli che l'hanno salvata da un linciaggio.
Ma Lagarda sa cogliere altro: per esempio quella furbizia tutta italica, che sarà democristianicissima negli anni appena successivi a quelli che racconta, in cui personaggi cinici e affaristi s'aggiustano virtù proprie e futuro ('La famiglia guerriera'). O la sessualità vista spesso attraverso il buco della serratura o pruriginosa, che appena rivelatasi per quello che è determina tragedie e dolori: come nel caso del bellissimo racconto 'Il velo d'Armida' in cui una figlia si uccide dopo aver scoperto che la madre fa la vita.
Ma la bellezza della narrativa di de Lagarda risiede, nonostante le folgoranti intuizioni sociologiche dell'autore, in un stile brillante ed incisivo. Come si diceva prima non gaddianamente bulimico, ma vicino ad esso per capacità espressiva e per profondità quasi visionaria. In poche righe riesce a contenere un'umanità spesso sospesa ed aggredita dai dolori del mondo con un'ironia al fulmicotone.
Un esempio a pag.45: C'è sì il laureando in medicina, che è bello, ma è costantemente occupato a filtrare sabbia fra le magre dita e a parlare del colon come di una passione.
O a pag. 81: Quella donna-botte che ha smarrito il senso e lo stesso ricordo della cintola. O a pag. 98 nell'acutissima descrizione di omosessuali ancien-régime, ahimé tutt'ora attuale: I settembrini si salutano festosamente con gridarelli e rapide mangiatine d'orecchia: si scambiano in fretta le novità e il bollettino di movimento nell'idioma convenzionale dei fedeli. Nella preziosa parlata s'impone la erre; chi ascolta è come se girasse velocemente il bottone d'onda della Radio; c'è di tutto, un po' di Milano, di Oxford, di Roma, di Parigi place Pigalle, di Monaco birreria, e ogni tanto, per riguardo all'incomparabile città-ospite, un "Ciò, ostregheta..." e una risatina generale a cascatella.
Un consiglio dunque ai lettori del Paradiso: Ugo Facco de Lagarda non è autore da prendere alla leggera, tanto meno ignorarlo come si sta facendo tutt'ora. E' autore di straordinaria sagacia e di rara bellezza linguistica. Capite che tesoro in questi malmestosi tempi?
L'edizione da noi considerata è:
Ugo Facco de Lagarda
Le figlie inquiete
Bompiani - 1956
A mio dire Facco de Lagarda ha l'eleganza misurata appunto di un Fenoglio e la grazia affabulatoria, anche se non proprio bulimica, di un Gadda e l'integra propensione alla descrizione di un Moravia. Eppure i tre citati appartengono alla dimensione del mito, lo scrittore veneziano, ahimé, non sappiamo davvero che 'fine' abbia fatto.
Le figlie inquiete, raccolta di racconti apparsa per la prima volta nel 1956, conferma la sostanza polposa della narrativa lagardiana: per certi versi disordinatamente eterogenea, assume una consistenza granitica e compatta proprio nello stile aggraziato ed esplorativo dello scrittore.
La prima parte, composta per lo più da storielline rapide e sapidamente ironiche, potrebbe gareggiare con il dopoguerra falsamente frizzante dell'opera prima di Arbasino (Le piccole vacanze): ambientate nel lido di Venezia, sono il ritratto nostalgico e per certi versi tagliente di una generazione alle prese con la prima ventata di libertà dopo la fine della guerra: ecco la ragazza che non vuole ammettere di cercar sesso ('La vergine'), ecco il commendatore che è ridicolo nel tentativo di andar per mare ('Bagno del commendatore'): egli è uno qualunque, sbattuto qua e là, che ride male e sta a guardare a bocca aperta ondine e nettuni i quali da un alto trampolino si lanciano a braccia aperte, come angeli, in mare. Ecco la ragazza a cui viene via il costume ('Il flutto decumano'), ecco il maestro di nuoto che si sospetta che non sappia nuotare ('Il maestro di nuoto'). Insomma ci troviamo di fronte a ritratti apparentemente leggeri ad una prima lettura, ma la versatilità dei motivi, la dosatura degli effetti caricaturali e il dispettoso gioco satirico sono, oltre che un tratto inconfondibile dell'arte lagardiana, veicolo per una rappresentazione più socialmente impegnativa della realtà del tempo. Che la si ritrova ancor più puntuale nella seconda parte dell'antologia: dove in essa leggiamo uno dei racconti più belli e terribili del nostro dopoguerra, quel 'La disperata' nel quale, con pochi e leggiadri tratti di penna, Lagarda raffigura la transizione tra il regime ed il nuovo ordine attraverso la figura di una donna irriducibilmente fascista (Ha così avuto, dopo tanto errare per mezzanini e soffitte, un appartamento tutto per sé, coi tappeti degli ebrei sotto i piedi) che non esita a fare il saluto romano nemmeno di fronte a quelli che l'hanno salvata da un linciaggio.
Ma Lagarda sa cogliere altro: per esempio quella furbizia tutta italica, che sarà democristianicissima negli anni appena successivi a quelli che racconta, in cui personaggi cinici e affaristi s'aggiustano virtù proprie e futuro ('La famiglia guerriera'). O la sessualità vista spesso attraverso il buco della serratura o pruriginosa, che appena rivelatasi per quello che è determina tragedie e dolori: come nel caso del bellissimo racconto 'Il velo d'Armida' in cui una figlia si uccide dopo aver scoperto che la madre fa la vita.
Ma la bellezza della narrativa di de Lagarda risiede, nonostante le folgoranti intuizioni sociologiche dell'autore, in un stile brillante ed incisivo. Come si diceva prima non gaddianamente bulimico, ma vicino ad esso per capacità espressiva e per profondità quasi visionaria. In poche righe riesce a contenere un'umanità spesso sospesa ed aggredita dai dolori del mondo con un'ironia al fulmicotone.
Un esempio a pag.45: C'è sì il laureando in medicina, che è bello, ma è costantemente occupato a filtrare sabbia fra le magre dita e a parlare del colon come di una passione.
O a pag. 81: Quella donna-botte che ha smarrito il senso e lo stesso ricordo della cintola. O a pag. 98 nell'acutissima descrizione di omosessuali ancien-régime, ahimé tutt'ora attuale: I settembrini si salutano festosamente con gridarelli e rapide mangiatine d'orecchia: si scambiano in fretta le novità e il bollettino di movimento nell'idioma convenzionale dei fedeli. Nella preziosa parlata s'impone la erre; chi ascolta è come se girasse velocemente il bottone d'onda della Radio; c'è di tutto, un po' di Milano, di Oxford, di Roma, di Parigi place Pigalle, di Monaco birreria, e ogni tanto, per riguardo all'incomparabile città-ospite, un "Ciò, ostregheta..." e una risatina generale a cascatella.
Un consiglio dunque ai lettori del Paradiso: Ugo Facco de Lagarda non è autore da prendere alla leggera, tanto meno ignorarlo come si sta facendo tutt'ora. E' autore di straordinaria sagacia e di rara bellezza linguistica. Capite che tesoro in questi malmestosi tempi?
L'edizione da noi considerata è:
Ugo Facco de Lagarda
Le figlie inquiete
Bompiani - 1956
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