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Il Paradiso degli Orchi
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INTERVISTE

Juan Aparicio - Belmonte

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Come è nostra abitudine, chiediamo agli autori cosa hanno fatto prima di aver pubblicato libri.



Ero avvocato. Poi ho fatto il giornalista e ho anche provato a diventare controllore di volo. Riuscii a superare tutte le prove psico-attitudinali, tranne il colloquio finale. Tuttora rimpiango di non fare quel lavoro. Adesso guadagnerei parecchio di più, lavorerei poco e avrei un sacco di tempo libero per scrivere. Oggi mi guadagno da vivere collaborando con giornali e case editrici. Nel mondo degli avvocati non mi sono divertito per niente, ma continua a essere una magnifica fonte d'ispirazione.



Non avendo altri riferimenti – questo è il primo romanzo tradotto in italiano - per ora ti identifichiamo come scrittore, anche se inusuale, di noir. Mi pare evidente che – ragionando per estremi - tra il "classicismo" di Arturo Perez Revert e l'ironia del compianto Vazquez Montalban, noi ti vediamo più vicino a quest'ultimo. Quanto c'è di vero?



Sí, sono più vicino a Vázquez Montalban, anche se in realtà non mi identifico in nessuno dei due. I miei riferimenti in ambito noir sono piuttosto statunitensi, come Jim Thompson o Dashiell Hammett; soprattutto per il loro coté saracastico. Però non leggo solo noir, anzi, prediligo la narrativa-narrativa, senza aggettivi. I miei romanzi si possono qualificare come noir, ma anche come umoristici, hanno persino una componente fantastica. L'etichetta di noir deriva dal fatto che mi succede sempre di ammazzare qualcuno dei personaggi, non riesco a farne a meno. Voglio dire che le etichette devono servire a orientare il lettore in libreria, non a porre delle costrizioni al lavoro del romanziere. In questo senso, non sono fedele a nessun genere narrativo, scrivo come mi pare, lasciandomi trasportare. Fra i miei autori prediletti: Graham Greene, Vargas Llosa, Cortazar, Conrad, Primo Levi e tantissimi altri. Però uno non scrive come vorrebbe, ma come è capace, e io cerco di fare in modo che i miei romanzi siano il più possibile simili a come sono io, perché sono convinto che solo così riuscirò a ottenere una certa originalità.



Nel tuo romanzo tutti i protagonisti si rivolgono allo stesso analista, ma non mi pare che la psicanalisi ci faccia bella figura. Come stanno davvero le cose?



La psicoanalisi mi ha sempre interessato, anche se non credo che sia una panacea. In ogni caso, in Mala suerte non do giudizi sulla psicoanalisi, che risulta essere un semplice strumento al servizio della narrazione, dei personaggi e delle loro peripezie. Si suppone che lo psicoanalista sia una specie di sacerdote: una persona che va rispettata, perché ci ascolta e ci assolve dai nostri traumi. Ecco, cosa succederebbe se un paziente non facesse altro che punzecchiare il suo psicoanalista? Questo è quello che succede in Mala suerte, e lo psicoanalista Don Fernando si meriterebbe l'appellativo di santo.



Quando uscì il film di Demme "Il silenzio degli innocenti" le associazioni gay accusarono il regista di presentare un "diverso" – cioè lo psicopatico a cui veniva data la caccia - come prototipo della violenza e della malattia mentale. Considerando che il "tuo" Rafael Pichón non è da meno, qualcuno ha avuto da ridire?



No. Pichón è anche calvo, ma spero che nessuna associazione di persone affette da alopecia mi accusi di aver utilizzato un calvo come prototipo della violenza. La possibile omosessualità di Pichón è una caratteristica che aiuta a comprendere il personaggio, non tanto come omosessuale quanto piuttosto come persona incapace di accettarsi, e pertanto piena di complessi che fanno aumentare la sua paranoia e la sua pericolosità. È un uomo che non si è mai guardato allo specchio perché dentro di se non è in pace con se stesso, per questo si lancia in una fuga in avanti che mette in pericolo chiunque incroci sulla sua strada. Solo uno con gli stessi problemi di Pichón potrebbe sentirsi offeso. Detto altrimenti: benché la Spagna oggi sia all'avanguardia nel riconoscimento dei diritti civili degli omosessuali, quarant'anni di incendiaria educazione franchista bruciano ancora. Fare coming out richiede ancora oggi un alto grado di coraggio e di coerenza personale. Pichón è una vittima di questa educazione, che poneva gli omosessuali nel gradino più basso della scala sociale.



Ma ti sei ispirato a "Psycho" nel tratteggiare i rapporti tra Pichón e sua madre?



Mi sono ispirato a un collega di lavoro che assomigliava molto a Pichón. Per giunta era il mio capo. Anche lui era innamorato di sua madre e la sua situazione personal era confusa come quella di Pichón. Condividere la vita lavorativa con lui era molto complicato, e quando tornavo a casa mi sfogavo trasformandolo nello psicopatico del mio romanzo. Il peggio è che alla fine mi affezionai così tanto al personaggio che finni per affezionarmi anche al mio capo. Scrivere romanzi non è un'attività innocua: comporta rischi inattesi.



Ci puoi anticipare a grandi linee il prossimo romanzo – sempre pubblicato da gran vía – "Il delirante circolo degli uccelli ubriachi"?



Alcuni personaggi sono gli stessi di Mala suerte e in parte affronta gli stessi temi che mi interessano: la contraddizione tra la nostra visione personale della realtà e di noi stessi e quella di chi ci sta intorno. I miei romanzi sono costruiti come un contrappunto di voci che cozzando tra loro generano l'artefatto narrativo. Mi piace scrivere senza vincoli, e se questo mi porta a varcare il confine di ciò che è politicamente corretto, tanto meglio, perché credo che la funzione del narratore non sia moralizzare o istruire il lettore, bensì catturare la sua attenzione e astrarlo dal mondo reale, e ce la metto tutta per cercare di costruire personaggi credibili, complessi, riflessivi, che nascondono sempre qualcosa più di quello che appare a prima vista. Come diceva Graham Greene: «Persino nell'esistenza più semplice, si scoprono sempre indizi di complessità».





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