CINEMA E MUSICA
Alfredo Ronci
L'America agreste, bucolica e dolorosa dei Decemberists: 'The king is dead'.
A vederli sul loro sito ispirano simpatia e tenerezza: ragazzoni dell'Oregon che se ne stanno seduti ai bordi di un prato verde e che sembrano sfidare il mondo. Poi le cose stanno diversamente.
The hazard of love, il precedente album, aveva in qualche modo esplicitato le ossessioni di Colin Melloy, il leader, che s'era buttato con passione sul folk britannico.
Questo The king is dead vira su tutt'altri lidi: i più nostalgici troveranno echi della west coast e del caro Neil Young, i meno vecchierelli risonanze di Stipe e dei Rem. E per fortuna da lì non si esce, perché il disco è una cosa delle cose più affascinanti e riuscite che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi.
Se il brano di apertura Don't carry it all scorre via leggero nella sua pronunciata ritmica, è con Calamity song che si incomincia ad intravedere la nuova strada, che è quella che ricorda sostanzialmente i Rem (curiosità: al disco ha collaborato anche Peter Buck, chitarrista del gruppo di Athens e abitué di apparizioni improvvise) e certo folk rock dal fascino immortale.
Ma i rimandi del disco non si fermano qua: con Rise to me ci troviamo improvvisamente immersi nelle atmosfere di Harvest, mitico progetto di Neil Young (a proposito: l'album in questione e il capolavoro di Joni Mitchell, Blue, quest'anno compiono quarant'anni, e sarebbe il caso di ricordarli): anzi sembrerebbe proprio preso di sana pianta da quelle session.
Ma come si diceva anche nel titolo, The king is dead affascina per quella sorta di mescidazione tra l'aspetto rurale e bucolico delle situazioni (vedi per esempio la splendida Down by the water o June Hymn, che come lo stesso titolo fa intuire, parla dell'esplosione dell'estate, del chiacchiericcio dei tordi e della fioritura dei gelsomini) e la persistente sensazione di nostalgia e solitudine dei personaggi 'raccontati': come in January hymn, una storia d'amore andata male e rimpianta, o Dear Avery, il pezzo che chiude il disco, vicenda di solitudine e fuga dalla realtà.
I Rem tornano prepotenti nella ballata This is the light, mentre ci si riallontana con All arise che, tra mandolini melodiosi e 'svisate' di fisarmonica, sembra rincorrere i fantasmi della Nitty Gritty Dirt Band.
Intendiamoci: non è disco per nostalgici, o per quelli che ancora si fanno le pere ascoltando i mitici anni sessanta e settanta. I Decemberists sono un gruppo che hanno omaggiato i padri putativi della loro arte (a quelli già nominati si aggiungano echi di Byrds e Giant Sand), ma nello stesso tempo propongono una miscela affascinante e suggestiva.
The king is dead è opera da tenere stretta, ascoltando nello stesso tempo il battito del nostro cuore.
The Decemberists
The king is dead
Rough Trade records - 2010
The hazard of love, il precedente album, aveva in qualche modo esplicitato le ossessioni di Colin Melloy, il leader, che s'era buttato con passione sul folk britannico.
Questo The king is dead vira su tutt'altri lidi: i più nostalgici troveranno echi della west coast e del caro Neil Young, i meno vecchierelli risonanze di Stipe e dei Rem. E per fortuna da lì non si esce, perché il disco è una cosa delle cose più affascinanti e riuscite che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi.
Se il brano di apertura Don't carry it all scorre via leggero nella sua pronunciata ritmica, è con Calamity song che si incomincia ad intravedere la nuova strada, che è quella che ricorda sostanzialmente i Rem (curiosità: al disco ha collaborato anche Peter Buck, chitarrista del gruppo di Athens e abitué di apparizioni improvvise) e certo folk rock dal fascino immortale.
Ma i rimandi del disco non si fermano qua: con Rise to me ci troviamo improvvisamente immersi nelle atmosfere di Harvest, mitico progetto di Neil Young (a proposito: l'album in questione e il capolavoro di Joni Mitchell, Blue, quest'anno compiono quarant'anni, e sarebbe il caso di ricordarli): anzi sembrerebbe proprio preso di sana pianta da quelle session.
Ma come si diceva anche nel titolo, The king is dead affascina per quella sorta di mescidazione tra l'aspetto rurale e bucolico delle situazioni (vedi per esempio la splendida Down by the water o June Hymn, che come lo stesso titolo fa intuire, parla dell'esplosione dell'estate, del chiacchiericcio dei tordi e della fioritura dei gelsomini) e la persistente sensazione di nostalgia e solitudine dei personaggi 'raccontati': come in January hymn, una storia d'amore andata male e rimpianta, o Dear Avery, il pezzo che chiude il disco, vicenda di solitudine e fuga dalla realtà.
I Rem tornano prepotenti nella ballata This is the light, mentre ci si riallontana con All arise che, tra mandolini melodiosi e 'svisate' di fisarmonica, sembra rincorrere i fantasmi della Nitty Gritty Dirt Band.
Intendiamoci: non è disco per nostalgici, o per quelli che ancora si fanno le pere ascoltando i mitici anni sessanta e settanta. I Decemberists sono un gruppo che hanno omaggiato i padri putativi della loro arte (a quelli già nominati si aggiungano echi di Byrds e Giant Sand), ma nello stesso tempo propongono una miscela affascinante e suggestiva.
The king is dead è opera da tenere stretta, ascoltando nello stesso tempo il battito del nostro cuore.
The Decemberists
The king is dead
Rough Trade records - 2010
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