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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Gianfranco Goretti, Tommaso Giartosio

La città e l'isola

Donzelli, Pag.275 Euro 13,00
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Presente l'isola che non c'è? Peter Pan, Bennato, Robin Williams... bravi, quella. E proprio come quella, anche questa del titolo è un'isola che non c'è. O meglio, che c'è stata - ma siccome nessuno ne parlava e ne ricorda (con le transeunti apparizioni di brevi articoli su "Panorama" (20 aprile 1986) e "il Venerdì di Repubblica" (sette giugno 2002)) è come se non ci fosse.

Tranquilli: il fervorino sulla "nostra civiltà ormai priva di memoria" lo farò altrove, e il lài sulla "storia sottaciuta" (la storia, diceva Chiara Noschese, è un "barattolo di sottaciuti") volentieri lo lascio intonare ad altri. Però le storie raccontate da Goretti e Giartosio in effetti hanno eroi non solo pressoché ignoti e dimenticati, ma anche autocensuratisi, per i motivi che chiariremo.

Storie, dico: perché il libro della ditta G&G è sì un saggio (e serio, e ragionato, e con i documenti, i parafernàli e i moderni zebedèj che a tali esercizi doverosamente si allegano), ma ha un'impostazione narrativa che lo fa leggere e partecipare. Scopriamo così, nella placida Catania anni Trenta, la rete o società degli "arrusi". In lingua sìcula, "arruso" sta per omosessuale - e non è un complimento. Omosessuali, dunque, i protagonisti della nostra vicenda. E da gran presto: gli ora attempati Filippo e Salvatore, che sono i "leitmotive", i motori della ricerca, cominciarono a darsi da fare agli otto o poco più anni. Camminando per il corso, se si ricambiavano certe occhiate, i masculìlli non avevano che da voltare in qualche vicolo, e il sesso con un adulto era garantito. Non restava allora che crescere, e frequentare l'"àrvulu russu" (l'albero grosso), i carrugi portuali, le attigue sale da ballo, per entrare a far parte della perduta gente della società capovolta, e divertirsi "da pazze".

Ma che è, la repubblica del Chiggòde, il paradiso dei lavor-recchiòni? Eh, no. Ancora nel 1980 (e oggi, temo) di froceria si poteva morire ammazzati - vedi il caso accaduto proprio nel catanese, a Giarre. All'epoca, bene che ti andava, ti menavano. E la società tutta, che pure concedeva un angolino di esistenza ai diversi, a patto che non si facessero notare, quando decideva di rompere il tacito accordo non andava per il sottile. E difatti: a Catania arriva un questore, tale Alfonso Molina, che, prendendo spunto da un fatto di sangue (l'uccisione di un ragionier Ranieri di "dubbie frequentazioni"), decide di "ripulire" la città dal serpaio dei degenerati - e cominciano gli arresti. Bisogna dire che gli "arrusi", abituati ai provvedimenti poliziotteschi, non si spaventano granché. E sbagliano: perché tira un'ariaccia, non solo in Sicilia, ma in Italia e in Europa. Roma ha il suo impero in Affrica, e i vincoli sempre più forti con la Nazione Amica e il suo Condottiero Adolfo Hitler, rinfocolano l'identità - imperialista, razzista, "cresci e moltiplicati", antisemita (insomma da herrenrasse) - che il fascismo avrebbe voluto dare al Bel Paese. Impresa più o meno fallita, ma che il peronismo dei mass-media e l'omologazione consumistica hanno splendidamente realizzato (o risvegliato?), e il modo ancor m'offende.

Così, nella virile atmosfera littoria (analoga alla "polarized atmosphere" che ha preceduto e preparato la tempesta dei casi di falsa memoria negli USA (cfr. Luther Blissett, Lasciate che i bimbi, Castelvecchi, Roma 1997)) non è più tempo di mezze misure: il dù-dù-dù-Dux vuole "ripulire gli angolini", e perciò con gli "arrusi" ci vuole un giro di vite. E li si spedisce al confino.

Da questo punto, gli Autori iniziano una convincente esposizione che intreccia i destini personali ai documenti e alle testimonianze, e che riguarda la pura e dura prigionia confinaria nelle isole più sperdute e selvagge che la natura ha disperso presso lo Stivale, (altro che "vacanza"!), la sua fine, e i suoi strascichi - rimasti sepolti finora anche perché la condanna che i protagonisti avevano avuto era stata un "outing", li aveva cioè identificati, peggiorandone la situazione perché li esponeva ai pregiudizi e ai rancorosi capricci di quel mondo che non era finito il Venticinque aprile, e rispetto al quale il nazifascismo era stato non una "rivoluzione", ma una "rivelazione". Dunque, non restava che subire e tacere, nella speranza di farsi dimenticare.

Ciò compone la storia e il romanzo dei confinati per omosessualità in un paese dove l'omosessualità non era nemmeno prevista nei codici - e viene spiegato il perché e il percome dai nostri signori G. Fosse solo per questo, il presente lavoro già sarebbe riuscito a rievocare con vivida sincerità e immedesimazione la memoria spa(u)rita degli eroi negati (F. Gnerre) di cui si tratta. Ma, saggi, Goretti e Giartosio hanno delineato pure una compiuta, per quanto possibile, indagine "in interiore omo": e il libro allora disegna una psicografia degli omofili - e, di riflesso, dei loro persecutori e carcerieri. Cataloga le similitudini fra "arrusi" e "gay", puntualizza le differenze - così dàndo elementi della grammatica della trasformazione, se mai avvenuta, di quelli in questi. Ricorda che i "ricchiòni" adottavano atteggiamenti comportamentali e linguistici infemminati, ed amavano i maschi, essendo l'unica identità possibile per loro quella femminile, ma che ciò non era del tutto vero e vero per tutti. Suggerisce che il modello dell'omosessualità di surrogazione (ad esempio: i carcerati o i marinai maschi s'ingroppano tra loro perché non hanno donne "a portata di tiro") si proponeva anche per gli "arrusi", siccome i più masculi di loro s'acconciavano a inchiappettare gli altri. Espone dunque tic, tabù, mitologia e visione del mondo dei (p)reclusi.

Si delinea nelle pagine di questo libro quindi una dettagliata e profonda ricostruzione d'un caso, d'una temperie, d'un'umanità che è difficile ritrovare altrove. E che, totale com'è, offre a tutti occasioni di rivedere e ripensare un'epoca e un'epopea di cui crediamo di sapere moltissimo, e ben poco invece sappiamo e sentiamo.



di Marco Lanzòl


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