ATTUALITA'
Stefano Torossi
La morte è una cosa seria.

…ecco perché bisogna scherzarci su.
Come ha fatto Renato Bialetti con la sua caffettiera.
Tutti sanno che era lui l’omino coi baffi, inutile spiegare. Ma non avremmo mai immaginato una famiglia con abbastanza ironia da sistemare le ceneri del patriarca morto a più di novant’anni in una caffettiera, anzi, nella SUA caffettiera, e seppellirlo così.
Bravi davvero i figli, o chiunque abbia deciso di seguire la volontà del defunto (ci viene da pensare che lo abbia lasciato scritto lui stesso).
E ancora più stupefacente che un parroco abbia avuto lo spirito di accettare in chiesa, e di benedirlo, un feretro, diciamolo pure, un tantino anticonformista.
Una moka da dodici, ci sembra. Giusta giusta per le ceneri di un serio burlone.
Eugenio Carmi
Onore anche a lui, pittore astratto, ma presenza concreta nella storia dell’arte degli ultimi anni.
Arrivato a quasi un secolo decide che ne ha abbastanza. Chiude lo studio, saluta gli amici e i figli e si prenota una bella stanza in uno di quegli istituti in Svizzera in cui, a richiesta, si è aiutati ad andarsene.
Una decorosa e civilissima uscita offerta a chiunque (se lo possa permettere, s’intende), ma che dalle nostre parti pare un’offesa a non si sa quale legge non scritta impostaci dal cielo. Una speciale vergogna italiana.
Il maestro sbaglia i conti, ma di poco. La consegna arriva un giorno prima della scadenza (che, con una certa ironia lui aveva fatto coincidere con il suo compleanno – novantasei anni tondi tondi) con una morte indolore e naturale; e così i bravi infermieri non fanno in tempo a servirgli il bicchiere di cicuta che aveva ordinato.
Poco male: il risultato è lo stesso, e soprattutto è l’intenzione che conta e che ci fa considerare con grande stima e rispetto la sua decisione.
“Non riesco più a dipingere – aveva dichiarato – e allora perché continuare? Senza arte non posso più vivere”.
Giustissimo. Soprattutto che sia stato lui stesso a deciderlo.
I Merz al Macro
Cambiamo argomento e andiamocene al Macro dove c’è una esposizione di opere dei due Merz, Mario e Marisa. Arte povera, materiali poveri e (bisbigliamo piano piano nella speranza che il patron del movimento, Achille Bonito Oliva, aggirantesi negli spazi, non ci senta) povere emozioni.
Dobbiamo ammettere che le scarpine di filo metallico lavorato ai ferri da Marisa, le testine di stucco dai lineamenti inintelligibili, i cunei orizzontali o i coni verticali ci lasciano freddini.
A costo di essere presi per qualunquisti dichiariamo che le uniche emozioni ce le hanno date gli spazi immensi dei saloni del Macro, le strutture di ferro nero dei soffitti, e, ebbene sì lo confessiamo, anche un’opera: la grande spirale al neon di Mario.
Ma non perché è abbinata alla serie dei numeri di Fibonacci o perché, secondo la presentazione critica, ha la forma delle galassie o “dell’inconoscibile che si libera altrove”.
Perchè è grande. E la grandezza emoziona. Non c’è dubbio.
Per tornare in argomento:
Eco se n’è andato ieri, Scola l’altro ieri, come tanti altri. Camilleri invece è ancora con noi, insieme a pochi vecchi compagni (Colombo, Guglielmi). E la loro biografia ci dice che sono tutti figli o figliastri, o figliocci, comunque orfani, di una grande madre che, lei sì, è proprio, definitivamente morta e sepolta: la Rai.
Come ha fatto Renato Bialetti con la sua caffettiera.
Tutti sanno che era lui l’omino coi baffi, inutile spiegare. Ma non avremmo mai immaginato una famiglia con abbastanza ironia da sistemare le ceneri del patriarca morto a più di novant’anni in una caffettiera, anzi, nella SUA caffettiera, e seppellirlo così.
Bravi davvero i figli, o chiunque abbia deciso di seguire la volontà del defunto (ci viene da pensare che lo abbia lasciato scritto lui stesso).
E ancora più stupefacente che un parroco abbia avuto lo spirito di accettare in chiesa, e di benedirlo, un feretro, diciamolo pure, un tantino anticonformista.
Una moka da dodici, ci sembra. Giusta giusta per le ceneri di un serio burlone.
Eugenio Carmi
Onore anche a lui, pittore astratto, ma presenza concreta nella storia dell’arte degli ultimi anni.
Arrivato a quasi un secolo decide che ne ha abbastanza. Chiude lo studio, saluta gli amici e i figli e si prenota una bella stanza in uno di quegli istituti in Svizzera in cui, a richiesta, si è aiutati ad andarsene.
Una decorosa e civilissima uscita offerta a chiunque (se lo possa permettere, s’intende), ma che dalle nostre parti pare un’offesa a non si sa quale legge non scritta impostaci dal cielo. Una speciale vergogna italiana.
Il maestro sbaglia i conti, ma di poco. La consegna arriva un giorno prima della scadenza (che, con una certa ironia lui aveva fatto coincidere con il suo compleanno – novantasei anni tondi tondi) con una morte indolore e naturale; e così i bravi infermieri non fanno in tempo a servirgli il bicchiere di cicuta che aveva ordinato.
Poco male: il risultato è lo stesso, e soprattutto è l’intenzione che conta e che ci fa considerare con grande stima e rispetto la sua decisione.
“Non riesco più a dipingere – aveva dichiarato – e allora perché continuare? Senza arte non posso più vivere”.
Giustissimo. Soprattutto che sia stato lui stesso a deciderlo.
I Merz al Macro
Cambiamo argomento e andiamocene al Macro dove c’è una esposizione di opere dei due Merz, Mario e Marisa. Arte povera, materiali poveri e (bisbigliamo piano piano nella speranza che il patron del movimento, Achille Bonito Oliva, aggirantesi negli spazi, non ci senta) povere emozioni.
Dobbiamo ammettere che le scarpine di filo metallico lavorato ai ferri da Marisa, le testine di stucco dai lineamenti inintelligibili, i cunei orizzontali o i coni verticali ci lasciano freddini.
A costo di essere presi per qualunquisti dichiariamo che le uniche emozioni ce le hanno date gli spazi immensi dei saloni del Macro, le strutture di ferro nero dei soffitti, e, ebbene sì lo confessiamo, anche un’opera: la grande spirale al neon di Mario.
Ma non perché è abbinata alla serie dei numeri di Fibonacci o perché, secondo la presentazione critica, ha la forma delle galassie o “dell’inconoscibile che si libera altrove”.
Perchè è grande. E la grandezza emoziona. Non c’è dubbio.
Per tornare in argomento:
Eco se n’è andato ieri, Scola l’altro ieri, come tanti altri. Camilleri invece è ancora con noi, insieme a pochi vecchi compagni (Colombo, Guglielmi). E la loro biografia ci dice che sono tutti figli o figliastri, o figliocci, comunque orfani, di una grande madre che, lei sì, è proprio, definitivamente morta e sepolta: la Rai.
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