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CLASSICI

Alfredo Ronci

La realtà rapsodica di Antonio Pizzuto: 'Signorina Rosina'.

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Quando questa edizione fu pubblicata nel 2004, erano passati ben 48 anni dalla prima uscita di Signorina Rosina. Definirla uscita tutt'ora appare esagerato: lo scrittore palermitano s'industriò personalmente a farla rilegare come sorta di documento di appartenenza all'arte del narrare.

Perché prima di quel giugno 1956, Antonio Pizzuto aveva sì scritto qualcosa (novelle giovanili, traduzioni di Kant e di classici antichi, pure uno scritto teorico Note su una nuova estetica) ma nulla di quello che sarebbe stata una vera e propria dimensione letteraria che avrebbe segnato il nostro novecento.

Di lui, ancor oggi, si sa poco e l'editoria nostrana (tranne l'eccezione delle Edizioni Polistampa e di un singolo evento Sellerio) mostra poca accortezza e rispetto: in un'epoca come la nostra smaniosa di vuoto dove, parafrasando Altan, tutto si agita ma non succede mai nulla, un autore come Pizzuto, inevitabilmente soffre dell'oblio e della dimenticanza.

Quando Sergio Solmi lesse Signorina Rosina, in una lettera inviata all'autore, espresse un giudizio che a distanza di mezzo secolo ha la forma della preveggenza: Sono d'accordo su quanto lei scrive circa l'attuale disfacimento del "genere romanzo". Per questo poco ormai mi interessano le elaborazioni dei 'romanzieri professionali', ricalchi su ricalchi di 'tranches' di realtà, variati soltanto esteriormente, in relazione ad una 'attualità' apparente.

Questo perché la realtà dei romanzi di Pizzuto, a cominciare dal suo vero e proprio esordio letterario (che avvenne quando già era in pensione!), era diversa: qualcuno l'ha definita disarticolata, come il suo linguaggio, anti-tradizionale, qualcun altro, a spingersi oltre, come nella post-fazione alla presente edizione, curata da Denis Ferraris, da nouveau roman.

Nulla comunque che in quegli anni cinquanta potesse essere ricondotto a qualcosa di già letto (tranne, forse, l'inevitabile aggancio al prodigioso incedere di Gadda, di cui Pizzuto, in più di un'occasione, rivelò la sua stima e il suo attaccamento come lettore). Insomma Signorina Rosina costituisce davvero il primo tassello pizzutiano verso l'elaborazione di una struttura narrativa da contrapporre al tradizionale raccontare.

Ma non si pensi che Signorina Rosina neghi un canovaccio: tutt'altro. Paradossalmente la storia del romanzo (poco più di un centinaio di pagine, diviso in 19 capitoletti numerati) è rappresentazione della vita di quegli anni e delle sue aspettative e le vicende dei due protagonisti, la segretaria Compiuta e l'assistente edile Bibi, suo amante (chissà se Pizzuto adottando quel diminutivo pensò a Lewis Carroll), aggiungono una zeppa alla riconoscibilità dell'epoca.

Ma chi si accosti allo scrittore palermitano sa d'aspettarsi altro. Nella apparente inconsistenza del romanzo, nella sua filiformità senza quasi armature, Signorina Rosina mostra la sua grandezza e la sua diversità. A cominciare dal titolo, che se un lettore distratto ( e fidatevi ce ne saranno, perché come dice giustamente Ferrarsi nella post-fazione: una mossa sbagliata di un personaggio o un acceleramento indebito della lettura bastano a precipitarli nel caos del non sense), non avesse l'accortezza di proseguire, rimarrebbe inchiodato alla figura iniziale di Rosina, vecchia zia per cui la morte fu tre sospiri. Invece la Rosina del titolo è anche altro: un carosello d'invenzioni, un calembour d'effetto che coinvolge nell'onomastica una zingara che attacca un bottone, una cuoca che prepara i pasti ad un prete, la nave che porterà la protagonista sull'Isola di Santa Rosa per cercare di sapere qualcosa sull'amato Bibi, addirittura un gruppo di asine ed una donna che canta litanie.

Pizzuto, nel cesellare questa sorta di romanzo-antiromanzo non rinuncia al lirismo, ad un linguaggio che improvvisamente s'involi verso una limpidezza armonica: I tram in corsa strappavano dal filo grappoli di scintille che prima di toccare il suolo erano già spente.

L'estensore, che in questo caso sarei io, sa che raccontar di Pizzuto, anzi delle sue opere, è già un levar: occorre leggerlo perché si apprezzi la sua statura e il suo modo appunto di raccontare, di cogliere quelle tracce ancora visibili della tradizione romanzesca che solo dopo alcuni anni, in un crescendo di sperimentazione linguistica (pensiamo al gruppo, riunito dallo stesso autore, col titolo classificatorio di Pagelle) approderà ad una sorta di scrittura indeterminata.

Signorina Rosina rimane un garbato ritratto dell'epoca, ma rivoluzionario nel suo approccio metodologico e strutturale. Non toglie al lettore (quello che non si spaventa di fronte a parole come sperimentazione e rivoluzione) il gusto della trama: nella quasi astratta vicenda dell'amore mai consumato e quasi mai 'avvicinato' tra Compiuta e Bibì (straordinario il viaggio quasi spirituale che la donna compie su una nave per poter avere segni delle presenza effettiva del suo amato), qua e là, nel dispiegarsi di situazioni ed epifanie improvvise, come non commuoversi di fronte alla struggente storia della gatta Camilla (capitolo settimo) o al doloroso commiato della cavallina che fugge tentando di evitare il mattatoio (capitolo ottavo).

Un indizio di coscienza animalista che in quegli anni, come per tante cose che riguardano lo 'sconosciuto' Antonio Pizzuto, ha un che di anticipatorio.



P.S. Se avete tempo cercate su Internet Carmelo Bene che legge Antonio Pizzuto



L'edizione da noi considerata è:



Antonio Pizzuto

Signorina Rosina

Edizioni Polistampa

2004





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