CLASSICI
Alfredo Ronci
La vita “oscura” di una donna fantasiosa: “Ricordi di una telegrafista” di Nyta Jasmar.

Qualcuno di voi dirà: Nyta Jasmar chi?
Ma, tra l’altro, è italiana? Beh, se non fosse stato per il parere fin troppo coinvolgente di Mario Praz che, nel suo lungo saggio dedicato per lo più alla letteratura gotica e liberty Il patto col serpente, ne parla come una vera e propria rivelazione, rimarrebbe di sicuro nella sfera degli sconosciuti se non addirittura degli inesistenti.
Diciamolo: sì, è italiana ma Nyta Jasmar è un nom de plume, perché il vero nome è Clotilde Scanabissi, nata a Budrio il 4 marzo1873. Un nome scelto non a caso, perché non è altro che l’anagramma di suo marito (che tra l’altro lasciò pochi anni dopo) Tomaso Samaritani.
Perché dunque Nyta si nasconde dietro questo cognome reso anche esotico? Di preciso non si sa, ma non è certo lo smascheramento di una procedura a rendere famosa una donna che s’era prefissata di superare la monomania letteraria.
Con Ricordi di una telegrafista Nyta Jasmar ha scritto un vero e proprio romanzo liberty, usando sì gli elementi caratteristici del periodo (paesaggi, ambienti, toilettes, suppellettili), ma utilizzandoli per portare avanti una finalità liberatoria che era propria dello stile liberty.
Non è un caso che soprattutto nella fase iniziale del libro il decor della signora si lascia andare a vere e proprie descrizioni di un mondo che sembra essere suo ma che serve anche a renderlo più accessibile a chi non può avvicinarlo.
Clotilde Scanabissi era in realtà, nella vita reale, una telegrafista: una vita, diciamolo, normale, con un marito ed un’attività consueta. Perché dunque questo tentativo, peraltro riuscito, di una realtà ultraletteraria e che costituisce un evento narrativo?
Diciamo allora che accanto ad istanze più propriamente kitsch e modern style c’è un elemento che caratterizza il romanzo e ne fa una lettura importante e positiva: quello di un accostamento sostanziale tra la vita di una telegrafista e quella di un mondo più alto e sofisticato.
Una sorta di socialismo da donna in carriera che rende la distanza tra il coté più volte descritto e beneamato da un lato e le ausiliarie telegrafiche dall’altro tutt’atro che distante e lontano.
I Ricordi di una telegrafista raccontano la doppia vita di una ragazza che, per sfuggire alcuni pericoli che lei ritiene pressanti, di giorno fa la telegrafista e di notte, sofisticata figlia del secolo, avvolta in morbide e colorate vestaglie, fa la donna di mondo, ma preda di ardori ed amori quasi inconfessabili.
Per quanto riguarda la trama non conviene aggiungere altro: il libro è un polpettone quasi indigeribile di una trama che, questa sì, non contiene nulla di spettacolare o innovativo. Anche se lo stile dello scritto, cioè su come la Jasmar possa rendere attuale gli avvenimenti e anche trasformarli, ha la leggerezza e la proprietà di un Gabriele D’Annunzio. Di contro, un’affettazione tipica del periodo ed una lascivia cerebrale l’accosta ad una regina dell’epoca, sì famosa ed insuperabile, ma totalmente anti-letteraria: Carolina Invernizio
Prendendo spunto dall’introduzione efficacissima che del libro fa Giulio Ungarelli, potremmo dire che Ricordi di una telegrafista deve essere letto non per quello che vuole dire ma per quello che vuole nascondere, meglio ancora, per ciò che vuole travestire: una vita sognata, ma resa quanto meno reale, da una trasfigurazione letteraria perfettamente riuscita.
Di Nyta Jasmar non si sa altro: è stata tentata una ricostruzione dei suoi precedenti (Ricordi… fu pubblicato a proprie spese nel 1913), ma oltre qualche titolo indicato su una rivista L’imparziale, tutta scritta e diretta dalla stessa Jasmar, null’altro è emerso.
Ricordi di una telegrafista è un delizioso romanzo di una donna presa da un successo che solo lei pensava di avere. E che assume sostanza feticista: di un feticismo mitomane.
L’edizione da noi considerata è:
Nyta Jasmar
Ricordi di una telegrafista
Centopagine Einaudi
Ma, tra l’altro, è italiana? Beh, se non fosse stato per il parere fin troppo coinvolgente di Mario Praz che, nel suo lungo saggio dedicato per lo più alla letteratura gotica e liberty Il patto col serpente, ne parla come una vera e propria rivelazione, rimarrebbe di sicuro nella sfera degli sconosciuti se non addirittura degli inesistenti.
Diciamolo: sì, è italiana ma Nyta Jasmar è un nom de plume, perché il vero nome è Clotilde Scanabissi, nata a Budrio il 4 marzo1873. Un nome scelto non a caso, perché non è altro che l’anagramma di suo marito (che tra l’altro lasciò pochi anni dopo) Tomaso Samaritani.
Perché dunque Nyta si nasconde dietro questo cognome reso anche esotico? Di preciso non si sa, ma non è certo lo smascheramento di una procedura a rendere famosa una donna che s’era prefissata di superare la monomania letteraria.
Con Ricordi di una telegrafista Nyta Jasmar ha scritto un vero e proprio romanzo liberty, usando sì gli elementi caratteristici del periodo (paesaggi, ambienti, toilettes, suppellettili), ma utilizzandoli per portare avanti una finalità liberatoria che era propria dello stile liberty.
Non è un caso che soprattutto nella fase iniziale del libro il decor della signora si lascia andare a vere e proprie descrizioni di un mondo che sembra essere suo ma che serve anche a renderlo più accessibile a chi non può avvicinarlo.
Clotilde Scanabissi era in realtà, nella vita reale, una telegrafista: una vita, diciamolo, normale, con un marito ed un’attività consueta. Perché dunque questo tentativo, peraltro riuscito, di una realtà ultraletteraria e che costituisce un evento narrativo?
Diciamo allora che accanto ad istanze più propriamente kitsch e modern style c’è un elemento che caratterizza il romanzo e ne fa una lettura importante e positiva: quello di un accostamento sostanziale tra la vita di una telegrafista e quella di un mondo più alto e sofisticato.
Una sorta di socialismo da donna in carriera che rende la distanza tra il coté più volte descritto e beneamato da un lato e le ausiliarie telegrafiche dall’altro tutt’atro che distante e lontano.
I Ricordi di una telegrafista raccontano la doppia vita di una ragazza che, per sfuggire alcuni pericoli che lei ritiene pressanti, di giorno fa la telegrafista e di notte, sofisticata figlia del secolo, avvolta in morbide e colorate vestaglie, fa la donna di mondo, ma preda di ardori ed amori quasi inconfessabili.
Per quanto riguarda la trama non conviene aggiungere altro: il libro è un polpettone quasi indigeribile di una trama che, questa sì, non contiene nulla di spettacolare o innovativo. Anche se lo stile dello scritto, cioè su come la Jasmar possa rendere attuale gli avvenimenti e anche trasformarli, ha la leggerezza e la proprietà di un Gabriele D’Annunzio. Di contro, un’affettazione tipica del periodo ed una lascivia cerebrale l’accosta ad una regina dell’epoca, sì famosa ed insuperabile, ma totalmente anti-letteraria: Carolina Invernizio
Prendendo spunto dall’introduzione efficacissima che del libro fa Giulio Ungarelli, potremmo dire che Ricordi di una telegrafista deve essere letto non per quello che vuole dire ma per quello che vuole nascondere, meglio ancora, per ciò che vuole travestire: una vita sognata, ma resa quanto meno reale, da una trasfigurazione letteraria perfettamente riuscita.
Di Nyta Jasmar non si sa altro: è stata tentata una ricostruzione dei suoi precedenti (Ricordi… fu pubblicato a proprie spese nel 1913), ma oltre qualche titolo indicato su una rivista L’imparziale, tutta scritta e diretta dalla stessa Jasmar, null’altro è emerso.
Ricordi di una telegrafista è un delizioso romanzo di una donna presa da un successo che solo lei pensava di avere. E che assume sostanza feticista: di un feticismo mitomane.
L’edizione da noi considerata è:
Nyta Jasmar
Ricordi di una telegrafista
Centopagine Einaudi
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