RECENSIONI
Luigi Romersa
Le armi segrete di Hitler
Mursia, Pag. 172 Euro 14.00
Immediatamente prima, e durando la seconda guerra mondiale, i tecnici e gli scienziati tedeschi progettarono e realizzarono armamenti che, per l'epoca, erano insuperabili: caccia a razzo e a reazione, missili, sottomarini transoceanici, sembra anche un prototipo di bomba atomica. Solo gli intrighi fra partito nazista e apparato militare, oltre all'incredulità e alla testardaggine di Hitler - emendatosi per fortuna dell'umanità troppo tardi - impedirono il progresso quantitativo e qualitativo di tali ordigni sino a far loro determinare il conflitto.
Questo, è ciò che è dato sapere con sicurezza di questo brano di storia: e questo, tutto sommato, Romersa dice. L'Autore ha una sua non disprezzabile e lunga (è nato nel 1917) storia di giornalista, riportata qui alle pp. 5-8: inoltre, fu prescelto da Mussolini, nel 1944 (ed è dimostrato che ebbe diverse udienze) per indagare sulla reale consistenza delle chiacchiere dell'alleato germanico a proposito delle "armi-meraviglia". I tedeschi, pare ansiosi di mostrargliele, non si fecero pregare: e lo condussero per fabbriche e basi e impianti segretissimi. E i loro maggiorenti, come le anime malnate a quel conoscitor de'le peccata, tutte a lui si confessarono - come si evince dalla lettura di questo libro, primo d'una serie di quattro, nei quali l'Autore "racconta battaglie, retroscena politici, storie di uomini di cui fu diretto testimone". (p. 5)
E fin qui, tutto bene. Solo che all'inizio Romersa scrive che sulle armi segrete "i tedeschi erano avari d'informazioni persino con gli alleati e in particolare con gli italiani, considerati poco affidabili come depositari di segreti militari di quell'importanza". (p. 19) A parte quell'essere "avari di informazioni persino con gli alleati" - non potendo esserne prodighi ai nemici, evidentemente -, sta di fatto che i germanesi erano stitici (ed a ragione: sennò che segreti erano?), in questo campo, d'informazioni di qualsiasi importanza, e soprattutto con gli italiani. Prima dell'otto settembre, per naturale diffidenza verso dei mangiaspaghetti inaffidabili, ariani per modo di dire; e perché erano sicuri dell'impossibilità altrui di decrittare i codici delle proprie cifranti - dunque le informazioni che gli angloamericani ricevevano, dovevano averle dalla forzatura dei cifrati italiani, o da una spia a Roma: ottima ragione per far sapere agli "alleati" il meno possibile. (*) Dopo il tracollo, i nazisti tacquero per evidenti e ovvi motivi.
Malgrado questi carichi da undici, Romersa va, vede, si presume prenda appunti, - data la precisione con cui elenca prototipi, tipi, modelli, variazioni - e faccia fotografie: e una di queste (riportata nel libro a fianco di p. 110) mostra (copio la didascalia) "nebbiogeni italiani in azione nella base segreta di Peenemünde". Riporta difatti l'Autore: "nella zona di Peenemünde era presente, a quell'epoca, un battaglione di nebbiogeni italiano cui spettava il compito, delicatissimo e di notevole importanza, di provvedere all'occultamento delle installazioni missilistiche in caso di allarmi e di attacchi aerei. Prima dell'8 settembre 1943, in Germania, di battaglioni nebbiogeni italiani ce n'erano altri due (...)". (p. 112) Dopo la disfatta, i reparti "vennero entrambi ricostituiti e agli esistenti se ne aggiunse un terzo (...) dislocato nelle isole del Baltico (...) con il compito di difendere l'importantissima base navale di Swinemünde e il canale di Stettino. (...) Il settore affidato alla difesa dei nostri uomini comprendeva anche la base missilistica di Peenemünde". (pp. 112-3) Cioè: dopo tutti i casini che gli italiani gli avevano combinato, i tedeschi non solo aprivano le loro basi ultrasegrete a un inviato di Mussolini, ma le facevano servire e proteggere dai repubblichini. Da quelli che non mandavano nemmeno a combattere gli angloamericani al fronte (solo un battaglione della repubblichetta fu impegnato in zona di guerra), e le cui quattro divisioni, che pure addestravano, esitavano a far tornare in Italia, sapendo che nella guerra partigiana si sarebbero sfasciate tra diserzioni e passaggi al fronte dei patrioti. (**) Dacché: io non gli avrei affidato un orticello di guerra, e quelli li schierarono nel ganglio vitale e unica speranza della loro macchina bellica. E perdipiù dei reparti nebbiogeni, quindi con scarso addestramento di guerra - non è che fossero assaltatori o para', nevvero.
Altra questione controversa: l'Autore dichiara "nella notte fra l'11 e il 12 ottobre 1944 (...) partìi per Rügen (...) un centro sperimentale dove venivano collaudate le nuove armi", e sempre affidato agli italici spandinebbia. (p. 48: qui di seguito, riassumo dalle pagine successive.) Romersa viene portato in una torretta semisepolta, blindata, distante alcuni chilometri dal punto del brillamento. Dopo un po', un boato, un bagliore, e una nube che avanza - la guardavano "con gli occhi incollati alle feritoie" - e "li inghiotte". Passano delle ore, e arrivano dei soldati "con addosso curiosi scafandri". Uno se ne toglie la parte sopra, e dichiara: "Alles kaputt". Dopodiché, viene fornito agli ospiti un "mantello bianchiccio", forse "di amianto", e via che si va nella zona della deflagrazione: Romersa nota gli alberi ridotti a "tronchi e rami spogli", case annientate, "una capra carbonizzata", l'erba di un colore "scamosciato".
Federico Zeri sosteneva che un falsario si smaschera perché introduce, in un'opera che si vorrebbe d'epoca ben precedente, elementi della propria. Ebbene: dove l'abbiamo già visto, quel soldato (tedesco, I presume) che commenta togliendosi il casco "alles kaputt"? Non sarà una delle migliaia di comparse dei film di guerra visti e stravisti negli ultimi sessant'anni - magari appena scesa dal side-car dopo la sgommata? E ammettiamo che non fosse tedesco, vista la proliferazione di italiani nebbiogeni nel contorno: ma nel racconto, pur dettagliato, mancano proprio i particolari essenziali. Non si dice se l'esplosione fu vista attraverso vetri o lenti scure: non si fa cenno all'onda di calore e pressione dovuta all'energia sprigionata, che è ben diversa da una semplice "nube" che avanza e può essere guardata fissa con gli occhi alle feritoie; non c'è nozione del movimento regressivo dell'aria, cioè dell'"implosione" che segue, cambiata di verso, la primitiva espansione; inoltre, la nube non è meglio identificata, né nella forma, né per ulteriori caratteristiche.
Invece, spiovono una serie di amenità da fumetto: dall' "herr Kaputt" preso di pacca tra i figuranti post-neorealisti; ai "curiosi scafandri" che a me ricordano, più che preservativi antiradiazioni, le tute viste in un film Luce che presentava gli esercizi a mare dei pompieri portuali; insino alle cappe argentee, d'imprecisato materiale, le quali, più che adatte a una scampagnata nel Dopobomba, paiono buone per un all-inclusive sul pianeta Mongo. E, a proposito: in condizioni tali, il tasso di radioattività assorbito è sufficiente a farti venire la leucemia. Non è una legge deterministica, è vero: ma Romersa è arrivato ai novant'anni. Buon per lui, comunque la sua sopravvivenza in buona salute non è una prova a favore.
Per finire: la deflagrazione di un ordigno atomico marchia indelebilmente il luogo su cui avviene, anche a distanza di decenni - Hiroshima insegna. In un documentario sul lavoro di Romersa realizzato dalla Rai-istituto Luce e da Fox Italia, (***) uno studioso tedesco, Karlsch, pur affermando che l'Autore non è stato capace di identificare il punto esatto della conflagrazione, ha trovato un secondo testimone dell'evento - che ci viene detto concordare con l'italiano. E ha raccolto evidenze secondo le quali la radioattività a Rügen è cinque volte più alta del normale, e vi si ritrova un'anomala concentrazione di Cesio 156, uno dei prodotti di fissione dell'uranio. Tuttavia, nel medesimo documentario, si dà la probabile struttura della seconda bomba "atomica" che i nazisti avrebbero realizzato e sperimentato nel marzo 1945. E si mostra come, assieme a un nucleo misto d'elementi leggeri e pesanti, essa conteneva diversi chili di esplosivo tradizionale. E' ben possibile che il congegno esploso nell'occasione citata da Romersa fosse analogo. Allora le tracce residue di radioattività sarebbero ascrivibili a elementi portatori di emissioni naturali, che la deflagrazione dei comuni balistici potrebbe aver micronizzato - come accade quando si usano le moderne granate all'uranio impoverito. Il cesio poteva, dunque, essere presente o come impurità nella miscela, o, se l'uranio usato veniva per riciclo (ce n'era poco a disposizione) da un impianto nucleare per la fissione controllata, come scoria di moderatore.
La tesi (mia) favorevole è che allora a Romersa sia stato in effetti mostrato uno scoppio d'un esplosivo non tradizionale, ma non atomico in senso stretto. Quella a sfavore, sempre mia, è che l'Autore abbia visitato gli impianti, imbastendo poi la storia dell' Ordigno-Fine-di-Mondo, magari su racconti in seguito fattigli da Von Braun. Va detto in ultimo, e per dover di cronaca, che nel libro l'Autore parla di una "capra" carbonizzata, nell'audio del film di "pecore"; e nella pellicola rammenta che le feritoie erano protette da un non meglio identificato "materiale", e che prima di uscire furono forniti anche di occhiali.
Stando così le cose, mi evito di parlare della "trottola volante" (vedi disegno fronte p. 143) che la didascalia dà per "collaudata tra il 1944 e il 1945 dall'inventore", per non abbassarmi al facile gioco di parole con "frottola volante"; e passo all'ultimo capitolo, che ricorda l'"operazione S", un bombardamento dimostrativo su Manhattan da tentarsi con una staffetta italiana tra un sottomarino transoceanico e un idrovolante, per far vedere agli americani che, volendo, ci saremmo arrivati. La missione - possibile? Impossibile? - non ebbe luogo: ma la dice lunga sulla mentalità con cui alcuni italiani andavano a combattere - e purtroppo avevano il potere di trascinarvi gli altri. Quella del "bel gesto", dell'affermazione quasi sportiva. La stessa mentalità guascona e improvvisata, e incurante dei risultati aldilà della propria vanagloria, che aveva gettato - assieme al lurido tornaconto, al calcolo brigantesco - una nazione intera nell'indecenza impotente e nella vergogna della rovina. E qualcuno, tutto ciò, lo chiama "onore". Lo chiama "patria".
Nessun giudizio.
(*) cfr. (è il caso di scriverlo) A. Hodges, Storia di un enigma, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; M. Franzinelli, Guerra di spie, Mondadori, Milano 2004, p. 80 e seg.;
(**) cfr. S. Bertoldi, Salò, Rizzoli, Milano 1976;
(***)In missione per Mussolini, di Vania del Borgo, prod. DocLab, trasmesso da RaiTre per la serie La grande storia il nove febbraio 2006.
di Marco Lanzòl
Questo, è ciò che è dato sapere con sicurezza di questo brano di storia: e questo, tutto sommato, Romersa dice. L'Autore ha una sua non disprezzabile e lunga (è nato nel 1917) storia di giornalista, riportata qui alle pp. 5-8: inoltre, fu prescelto da Mussolini, nel 1944 (ed è dimostrato che ebbe diverse udienze) per indagare sulla reale consistenza delle chiacchiere dell'alleato germanico a proposito delle "armi-meraviglia". I tedeschi, pare ansiosi di mostrargliele, non si fecero pregare: e lo condussero per fabbriche e basi e impianti segretissimi. E i loro maggiorenti, come le anime malnate a quel conoscitor de'le peccata, tutte a lui si confessarono - come si evince dalla lettura di questo libro, primo d'una serie di quattro, nei quali l'Autore "racconta battaglie, retroscena politici, storie di uomini di cui fu diretto testimone". (p. 5)
E fin qui, tutto bene. Solo che all'inizio Romersa scrive che sulle armi segrete "i tedeschi erano avari d'informazioni persino con gli alleati e in particolare con gli italiani, considerati poco affidabili come depositari di segreti militari di quell'importanza". (p. 19) A parte quell'essere "avari di informazioni persino con gli alleati" - non potendo esserne prodighi ai nemici, evidentemente -, sta di fatto che i germanesi erano stitici (ed a ragione: sennò che segreti erano?), in questo campo, d'informazioni di qualsiasi importanza, e soprattutto con gli italiani. Prima dell'otto settembre, per naturale diffidenza verso dei mangiaspaghetti inaffidabili, ariani per modo di dire; e perché erano sicuri dell'impossibilità altrui di decrittare i codici delle proprie cifranti - dunque le informazioni che gli angloamericani ricevevano, dovevano averle dalla forzatura dei cifrati italiani, o da una spia a Roma: ottima ragione per far sapere agli "alleati" il meno possibile. (*) Dopo il tracollo, i nazisti tacquero per evidenti e ovvi motivi.
Malgrado questi carichi da undici, Romersa va, vede, si presume prenda appunti, - data la precisione con cui elenca prototipi, tipi, modelli, variazioni - e faccia fotografie: e una di queste (riportata nel libro a fianco di p. 110) mostra (copio la didascalia) "nebbiogeni italiani in azione nella base segreta di Peenemünde". Riporta difatti l'Autore: "nella zona di Peenemünde era presente, a quell'epoca, un battaglione di nebbiogeni italiano cui spettava il compito, delicatissimo e di notevole importanza, di provvedere all'occultamento delle installazioni missilistiche in caso di allarmi e di attacchi aerei. Prima dell'8 settembre 1943, in Germania, di battaglioni nebbiogeni italiani ce n'erano altri due (...)". (p. 112) Dopo la disfatta, i reparti "vennero entrambi ricostituiti e agli esistenti se ne aggiunse un terzo (...) dislocato nelle isole del Baltico (...) con il compito di difendere l'importantissima base navale di Swinemünde e il canale di Stettino. (...) Il settore affidato alla difesa dei nostri uomini comprendeva anche la base missilistica di Peenemünde". (pp. 112-3) Cioè: dopo tutti i casini che gli italiani gli avevano combinato, i tedeschi non solo aprivano le loro basi ultrasegrete a un inviato di Mussolini, ma le facevano servire e proteggere dai repubblichini. Da quelli che non mandavano nemmeno a combattere gli angloamericani al fronte (solo un battaglione della repubblichetta fu impegnato in zona di guerra), e le cui quattro divisioni, che pure addestravano, esitavano a far tornare in Italia, sapendo che nella guerra partigiana si sarebbero sfasciate tra diserzioni e passaggi al fronte dei patrioti. (**) Dacché: io non gli avrei affidato un orticello di guerra, e quelli li schierarono nel ganglio vitale e unica speranza della loro macchina bellica. E perdipiù dei reparti nebbiogeni, quindi con scarso addestramento di guerra - non è che fossero assaltatori o para', nevvero.
Altra questione controversa: l'Autore dichiara "nella notte fra l'11 e il 12 ottobre 1944 (...) partìi per Rügen (...) un centro sperimentale dove venivano collaudate le nuove armi", e sempre affidato agli italici spandinebbia. (p. 48: qui di seguito, riassumo dalle pagine successive.) Romersa viene portato in una torretta semisepolta, blindata, distante alcuni chilometri dal punto del brillamento. Dopo un po', un boato, un bagliore, e una nube che avanza - la guardavano "con gli occhi incollati alle feritoie" - e "li inghiotte". Passano delle ore, e arrivano dei soldati "con addosso curiosi scafandri". Uno se ne toglie la parte sopra, e dichiara: "Alles kaputt". Dopodiché, viene fornito agli ospiti un "mantello bianchiccio", forse "di amianto", e via che si va nella zona della deflagrazione: Romersa nota gli alberi ridotti a "tronchi e rami spogli", case annientate, "una capra carbonizzata", l'erba di un colore "scamosciato".
Federico Zeri sosteneva che un falsario si smaschera perché introduce, in un'opera che si vorrebbe d'epoca ben precedente, elementi della propria. Ebbene: dove l'abbiamo già visto, quel soldato (tedesco, I presume) che commenta togliendosi il casco "alles kaputt"? Non sarà una delle migliaia di comparse dei film di guerra visti e stravisti negli ultimi sessant'anni - magari appena scesa dal side-car dopo la sgommata? E ammettiamo che non fosse tedesco, vista la proliferazione di italiani nebbiogeni nel contorno: ma nel racconto, pur dettagliato, mancano proprio i particolari essenziali. Non si dice se l'esplosione fu vista attraverso vetri o lenti scure: non si fa cenno all'onda di calore e pressione dovuta all'energia sprigionata, che è ben diversa da una semplice "nube" che avanza e può essere guardata fissa con gli occhi alle feritoie; non c'è nozione del movimento regressivo dell'aria, cioè dell'"implosione" che segue, cambiata di verso, la primitiva espansione; inoltre, la nube non è meglio identificata, né nella forma, né per ulteriori caratteristiche.
Invece, spiovono una serie di amenità da fumetto: dall' "herr Kaputt" preso di pacca tra i figuranti post-neorealisti; ai "curiosi scafandri" che a me ricordano, più che preservativi antiradiazioni, le tute viste in un film Luce che presentava gli esercizi a mare dei pompieri portuali; insino alle cappe argentee, d'imprecisato materiale, le quali, più che adatte a una scampagnata nel Dopobomba, paiono buone per un all-inclusive sul pianeta Mongo. E, a proposito: in condizioni tali, il tasso di radioattività assorbito è sufficiente a farti venire la leucemia. Non è una legge deterministica, è vero: ma Romersa è arrivato ai novant'anni. Buon per lui, comunque la sua sopravvivenza in buona salute non è una prova a favore.
Per finire: la deflagrazione di un ordigno atomico marchia indelebilmente il luogo su cui avviene, anche a distanza di decenni - Hiroshima insegna. In un documentario sul lavoro di Romersa realizzato dalla Rai-istituto Luce e da Fox Italia, (***) uno studioso tedesco, Karlsch, pur affermando che l'Autore non è stato capace di identificare il punto esatto della conflagrazione, ha trovato un secondo testimone dell'evento - che ci viene detto concordare con l'italiano. E ha raccolto evidenze secondo le quali la radioattività a Rügen è cinque volte più alta del normale, e vi si ritrova un'anomala concentrazione di Cesio 156, uno dei prodotti di fissione dell'uranio. Tuttavia, nel medesimo documentario, si dà la probabile struttura della seconda bomba "atomica" che i nazisti avrebbero realizzato e sperimentato nel marzo 1945. E si mostra come, assieme a un nucleo misto d'elementi leggeri e pesanti, essa conteneva diversi chili di esplosivo tradizionale. E' ben possibile che il congegno esploso nell'occasione citata da Romersa fosse analogo. Allora le tracce residue di radioattività sarebbero ascrivibili a elementi portatori di emissioni naturali, che la deflagrazione dei comuni balistici potrebbe aver micronizzato - come accade quando si usano le moderne granate all'uranio impoverito. Il cesio poteva, dunque, essere presente o come impurità nella miscela, o, se l'uranio usato veniva per riciclo (ce n'era poco a disposizione) da un impianto nucleare per la fissione controllata, come scoria di moderatore.
La tesi (mia) favorevole è che allora a Romersa sia stato in effetti mostrato uno scoppio d'un esplosivo non tradizionale, ma non atomico in senso stretto. Quella a sfavore, sempre mia, è che l'Autore abbia visitato gli impianti, imbastendo poi la storia dell' Ordigno-Fine-di-Mondo, magari su racconti in seguito fattigli da Von Braun. Va detto in ultimo, e per dover di cronaca, che nel libro l'Autore parla di una "capra" carbonizzata, nell'audio del film di "pecore"; e nella pellicola rammenta che le feritoie erano protette da un non meglio identificato "materiale", e che prima di uscire furono forniti anche di occhiali.
Stando così le cose, mi evito di parlare della "trottola volante" (vedi disegno fronte p. 143) che la didascalia dà per "collaudata tra il 1944 e il 1945 dall'inventore", per non abbassarmi al facile gioco di parole con "frottola volante"; e passo all'ultimo capitolo, che ricorda l'"operazione S", un bombardamento dimostrativo su Manhattan da tentarsi con una staffetta italiana tra un sottomarino transoceanico e un idrovolante, per far vedere agli americani che, volendo, ci saremmo arrivati. La missione - possibile? Impossibile? - non ebbe luogo: ma la dice lunga sulla mentalità con cui alcuni italiani andavano a combattere - e purtroppo avevano il potere di trascinarvi gli altri. Quella del "bel gesto", dell'affermazione quasi sportiva. La stessa mentalità guascona e improvvisata, e incurante dei risultati aldilà della propria vanagloria, che aveva gettato - assieme al lurido tornaconto, al calcolo brigantesco - una nazione intera nell'indecenza impotente e nella vergogna della rovina. E qualcuno, tutto ciò, lo chiama "onore". Lo chiama "patria".
Nessun giudizio.
(*) cfr. (è il caso di scriverlo) A. Hodges, Storia di un enigma, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; M. Franzinelli, Guerra di spie, Mondadori, Milano 2004, p. 80 e seg.;
(**) cfr. S. Bertoldi, Salò, Rizzoli, Milano 1976;
(***)In missione per Mussolini, di Vania del Borgo, prod. DocLab, trasmesso da RaiTre per la serie La grande storia il nove febbraio 2006.
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