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Il Paradiso degli Orchi
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CINEMA E MUSICA

Alfredo Ronci

Le metropoli straniate di Matthew Herbert. One One, il suo ultimo disco.

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L'uomo si sa è eclettico, ma secondo me pure ignorante, nel senso che ignora qualche realtà delle metropoli che arricchisce di suoni. Chissà, in questo progetto dedicato ad alcune città, quasi tutte europee tranne Palm Spring e Singapore, cosa gli sia passato per la mente quando ha deciso di inserire Milano e suonarla come se fosse ossessionata dai ritmi incalzanti di Metropolis. Perché per l'ascoltatore l'impatto è quello, una perfetta colonna sonora per un film di Fritz Lang: ma ahimé la capitale del nord, craxianamente da bere negli anni ottanta ed ora ridotta alla mercè di una 'banda' che non si sa come classificarla, ha altro da offrire che un robotico martellare di incessante attività. Ma andiamo.

Si celia, probabilmente Herbert ha conosciuto per bene la città e ne è rimasto giustamente inorridito.

Si diceva di questo suo progetto: il primo di una terna che, se sono vere le voci che circolano, vedranno come seconda parte una sorta di campionatura di rumori (non è nuovo a simili imprese, lo ha fatto anche coi rumori delle buste e cartoni di Mc Donald), suoni e conversazioni in quel di Francoforte (One Club) e come terza parte, una riproduzione di ambientazioni in una stalla del Texas piena di maiali (One pig... e mi sembra appropriato!).

L'uomo dunque o è pazzo o è un esploratore di suoni: propendiamo decisamente per la seconda ipotesi. D'altronde aveva dimostrato in passato di saperci fare, e con procedure del tutto diverse, soprattutto con l'operazione, insieme alla sua Big Band, Goodbye swingtime (2005) e con quella pazzesca apertura di Turning pages (che il sottoscritto aveva inteso davvero come un volta pagina definitivo) in cui riprendeva, anche se con connotati diversi, il discorso che almeno un decennio prima aveva fatto, molto più accademicamente, Don Byron col famoso Bug music (sì il disco coi pinguini in copertina).

One one è un bell'ascolto che incalza l'ascoltatore con ritmi che non è difficile riconoscere: per esempio l'ipnotica Tornbridge che ricorda le cose più 'compresse' dei Tarwater, Dublin che ha addirittura l'incedere dei Talking Heads seconda maniera, ma è un po' tutta la struttura che si regge su un substrato elettronico che riporta anche alla vecchia collaborazione (1998: Around the house) con la musa Dani Siciliano.

Ma è su Leipzig, il terzo brano della raccolta, che vorrei soffermarmi. Un vero capolavoro. Meglio, una sintesi perfetta della musica pop degli ultimi quarant'anni. Non è esagerato dire che nei quattro minuti del brano si scoprono un'infinità di riferimenti che probabilmente anche allo stesso musicista sono sfuggiti non per ignoranza, ma per sovrabbondanza.

Ho visto sfilare in quel brano 'ovviamente' i Kraftwerk (qualcuno, e ha sentito giusto, ha rimarcato che l'impasto sonoro è una via di mezzo tra il glorioso gruppo tedesco e Donald Fagen), ma addirittura le 'vecchia' west-coast. Il coro che segna il ritornello rimanda, ebbene sì, al glorioso David Crosby e alla sua avventura più geniale: If I could only remember my name.

Insomma Leipzig è una sorta di bignami musicale, un pezzo che dovrebbe essere suonato nelle scuole (ma in Italia c'è ancora l'ora di educazione musicale?) per comprendere alla perfezione cosa è accaduto nel pop negli ultimi quarant'anni e cosa voglia dire esplorare nuovi mondi possibili.

Poi se Herbert vuole registrare anche i maiali, che lo si lasci fare, noi qui in Italia siamo abituati ad altro: i maiali li vediamo spesso in televisione e ci governano.



Matthew Herbert

One One

Accidental Records - 2010







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