CINEMA E MUSICA
Alfredo Ronci
Mamma mia che talento sprecato! Altro che lo zuccherino della 'Caramella'.
Massimiliano Pani andrebbe arrestato. Come si processa giustamente Tanzi per il crack della Parmalat, il figlio di Mina andrebbe internato per dissipazione di bene comune. Perché la voce della madre è un bene comune. E invece noi fans (mi ci metto pure io anche se non sono iscritto a quell'incredibile fan club di sfigati, tutti culattonissimi, che conta anche le volte che la 'divina' va al cesso e se usa il doppio velo) siamo costretti ogni anno ad aspettarci qualcosa che non viene mai, compriamo puntualmente il disco e dopo il primo ascolto lo mettiamo da parte e non lo riprendiamo più.
Caramella, l'ultima 'fatica' della tigre è simile a tutte le altre uscite da almeno trent'anni a questa parte, fondamentalmente brutto, fondamentalmente inutile, freddo quel tanto da non sembrare comunque una tormenta di neve e prevedibile.
Lei si diceva è una risorsa nazionale: ascoltatela in Accendi questa luce e capirete il perché. E' in grado di impennate vocali straordinarie a settant'anni suonati (la stessa Ella, nell'ultima periodo, aveva un timbro di voce così consumato che si faceva fatica ad ascoltarla, soprattutto in confronto alla stupefacente cristalleria degli anni d'oro), ma nonostante ciò, come si direbbe per una faccia in tv, non buca. Sarà per quella sorta di 'firma' musicale che strumentisti di rango le hanno cucito addosso da decenni (sempre colpa di Massimiliano), ma che a lungo andare sfianca per noia e scontatezza (e basta con l'invadenza pianistica di Danilo Rea!) e che la fanno navigare da un genere all'altro, dal jazz al pop, dal vernacolo (Mina ritenta il 'napoletano' ma stavolta con scarsi risultati, ma andatevela a prendere con l'autore Maurizio Morante, che firma un'altra orrenda canzone, in puro stile gayo-disperato, adatte a serate trans con abbigliamento copiato dalle copertine del solito Convertino) al nazional-popolare, ma il risultato finale rimane quello: approssimativo.
Diciamocela: da trent'anni Mina non azzecca un album. Se escludiamo il primo Napoli e l'omaggio a Modugno, tutto il resto sarebbe da buttare (con qualche chicca qua e là, sparsa come mollica dopo un pasto a panino dentro un'utilitaria... fa molto sixties), con punte di assoluta bruttezza come Canarino Mannaro devastato da brani scritti da quel 'grumo' di autori, tutti maschi, che siccome sono e si sentono donne, ripongono le loro speranze di redenzione e di cambiamento di sesso nella voce di Mina e sperano poi di conseguenza di essere rapiti da un principe azzurro etero che se li scopa a sangue.
Non basta qualche ciliegina per fare di un album un lavoro riuscito: You get me, il duetto con Seal è quello che è, asfittico. Lo specchietto delle allodole della Mina vicina al rock più 'giovanile' (vedi la La clessidra del fondatore dei Subsonica, o Solo se sai rispondere di Massimiliano "Max" Casacci, chitarrista, produttore e – anche lui – fondatore dei Subsonica o Io e te di Paolo Benvegnù, firmata dal chitarrista e autore milanese con Andrea Franchi e Gionni Dall'Orto) sono solo tentativi per rendere la 'tigre' più attuale nel panorama nazionale.
Stupidaggini: la voce di Mina è rock di per sé, senza bisogno di addentellati, anche se è evidente che ai lamenti gay-borghesi dell'inascoltabile Morante, si preferisce assai un autore civile e serio come Benvegnù.
Anni fa Ivano Fossati disse che un suo sogno sarebbe stato quello di produrre per intero un album della cantante (è anche un nostro sogno): bene, per una volta tanto si facesse da parte il Massimiliano e pure il figlio di questo che ogni tanto ci strazia con ripescaggi che alla nonna fanno più male che bene.
Cosa potrebbe succedere in quel caso? Quello che successe nel 1983 nell'album di Mina 25. Cowboys, una canzone di appena un minuto e cinquanta secondi, fu un evento. Un pezzo che dopo più di trent'anni risuona ancora limpido ed essenziale. Un capolavoro assoluto. Cosa che Caramella proprio non è. Ahinoi.
Caramella, l'ultima 'fatica' della tigre è simile a tutte le altre uscite da almeno trent'anni a questa parte, fondamentalmente brutto, fondamentalmente inutile, freddo quel tanto da non sembrare comunque una tormenta di neve e prevedibile.
Lei si diceva è una risorsa nazionale: ascoltatela in Accendi questa luce e capirete il perché. E' in grado di impennate vocali straordinarie a settant'anni suonati (la stessa Ella, nell'ultima periodo, aveva un timbro di voce così consumato che si faceva fatica ad ascoltarla, soprattutto in confronto alla stupefacente cristalleria degli anni d'oro), ma nonostante ciò, come si direbbe per una faccia in tv, non buca. Sarà per quella sorta di 'firma' musicale che strumentisti di rango le hanno cucito addosso da decenni (sempre colpa di Massimiliano), ma che a lungo andare sfianca per noia e scontatezza (e basta con l'invadenza pianistica di Danilo Rea!) e che la fanno navigare da un genere all'altro, dal jazz al pop, dal vernacolo (Mina ritenta il 'napoletano' ma stavolta con scarsi risultati, ma andatevela a prendere con l'autore Maurizio Morante, che firma un'altra orrenda canzone, in puro stile gayo-disperato, adatte a serate trans con abbigliamento copiato dalle copertine del solito Convertino) al nazional-popolare, ma il risultato finale rimane quello: approssimativo.
Diciamocela: da trent'anni Mina non azzecca un album. Se escludiamo il primo Napoli e l'omaggio a Modugno, tutto il resto sarebbe da buttare (con qualche chicca qua e là, sparsa come mollica dopo un pasto a panino dentro un'utilitaria... fa molto sixties), con punte di assoluta bruttezza come Canarino Mannaro devastato da brani scritti da quel 'grumo' di autori, tutti maschi, che siccome sono e si sentono donne, ripongono le loro speranze di redenzione e di cambiamento di sesso nella voce di Mina e sperano poi di conseguenza di essere rapiti da un principe azzurro etero che se li scopa a sangue.
Non basta qualche ciliegina per fare di un album un lavoro riuscito: You get me, il duetto con Seal è quello che è, asfittico. Lo specchietto delle allodole della Mina vicina al rock più 'giovanile' (vedi la La clessidra del fondatore dei Subsonica, o Solo se sai rispondere di Massimiliano "Max" Casacci, chitarrista, produttore e – anche lui – fondatore dei Subsonica o Io e te di Paolo Benvegnù, firmata dal chitarrista e autore milanese con Andrea Franchi e Gionni Dall'Orto) sono solo tentativi per rendere la 'tigre' più attuale nel panorama nazionale.
Stupidaggini: la voce di Mina è rock di per sé, senza bisogno di addentellati, anche se è evidente che ai lamenti gay-borghesi dell'inascoltabile Morante, si preferisce assai un autore civile e serio come Benvegnù.
Anni fa Ivano Fossati disse che un suo sogno sarebbe stato quello di produrre per intero un album della cantante (è anche un nostro sogno): bene, per una volta tanto si facesse da parte il Massimiliano e pure il figlio di questo che ogni tanto ci strazia con ripescaggi che alla nonna fanno più male che bene.
Cosa potrebbe succedere in quel caso? Quello che successe nel 1983 nell'album di Mina 25. Cowboys, una canzone di appena un minuto e cinquanta secondi, fu un evento. Un pezzo che dopo più di trent'anni risuona ancora limpido ed essenziale. Un capolavoro assoluto. Cosa che Caramella proprio non è. Ahinoi.
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