INTERVISTE
Marco Candida
La domanda, come ormai è nostra consuetudine, è d'obbligo: cosa hai fatto prima della pubblicazione de "La mania per l'alfabeto". Presentati dunque ai molti lettori del Paradiso.
Premetto che sono nato nel 1978, e adesso ti dico quello che ho fatto, e non quello che ho studiato. Ho fatto l'imbianchino, ho fatto il dj in una radio locale per due anni (parlavo di libri), ho suonato in un gruppo musicale come chitarrista solista per due anni, ho scritto articoli per i giornali locali e provinciali dall'età di dodici anni, ho lavorato in una biblioteca per nove mesi (come uomo di fatica; all'epoca la biblioteca traslocava), ho fatto il censore (e ho guadagnato quattro milioni e ottocentomila delle vecchie lire), ho lavorato come tuttofare in una ditta che produce conglomerato bituminoso dove sono riuscito a stare per due anni e tre mesi con contratti a tempo determinato. Ho curato corsi di scrittura creativa, presentazioni di romanzi, letture pubbliche a Tortona in provincia di Alessandria dove risiedo. Aggiungo: meno male che non mi hai chiesto che cosa faccio 'adesso' che il libro è pubblicato...
Cito da uno studio su Georges Perec: L'esperienza oulipiana risulta così il dato decisivo della sua evoluzione, poiché fornisce a Perec gli strumenti necessari a distanziare la Storia, il vissuto personale, la persistenza infraordinaria del quotidiano, e ad assumerli come elementi di un gioco letterario in cui nella combinazione inesausta dei singoli tasselli si intravede la possibilità della ricomposizione dell'identità in un quadro unitario. Le dinamiche dell'opera seguono così le linee di una combinatoria introspettiva che gioca a permutare le tessere dell'esperienza come tasselli di un puzzle. Come a dire: ho avuto la sensazione netta che nel tuo romanzo "La mania per l'alfabeto" Perec fosse un punto di riferimento imprescindibile.
E' un impressione corretta, anche se personalmente conosco Perec pochissimo. Il brano che riporti, infatti, assomiglia, secondo me, a quello che compare in esergo al libro, tratto dall'introduzione a Genio e follia di Karl Jaspers, firmata da Umberto Galimberti. "Ma qual è la parola di cui si fa portavoce la follia creativa? Qui le due ancelle, la psichiatria e la filosofia, trovano il loro accordo intorno a una parola. La parola è schizofrenia, la mente (phrén) scissa (schizo) in due mondi dove l'uno si rifrange nell'altro, per cui è in decidibile quale dei due sia il mondo vero. Ma l'uomo, l'uomo che non teme la profondità dell'abisso (Ab-grund) e che non si difende con terreni solidi e sicuri (Grund), può accedere alla schizofrenia perché è dell'uomo abitare la dimensione frantumata dell'essere che, inaccessibile alla sua originaria unità, si concede all'uomo solo come lacerazione (Zerrisenheit). [...] possiamo pensare all'arte e alla filosofia come alla proclamazione alta e forte dell'incomponibilità di questa lacerazione, da cui l'uomo è nato come frammento scisso tra la terra e il cielo per dirne tutta la distanza. "La nostra forza – scrive Jaspers – è la scissione".
Perec usa le parole "ricomposizione dell'identità". Ora, certamente questo romanzo, che ho scritto tra il 2004 e il 2006, risponde anche alla domanda: "Chi sono io?". Diversi scritti inseriti nel romanzo cercano di far notare partendo da dati molto concreti e quotidiani, che la nostra identità anche quando ci sembra perfettamente unitaria e coerente, a uno sguardo più attento, più analitico, più diabolico, direi, è il risultato di una collazione di atteggiamenti e pensieri che provengono da altrove – mi riferisco ad esempio al racconto "Desideria si chiede", dove una ragazza ci descrive come ogni parola che pronuncia, ogni movimento che compie, i suoi gusti e le sue preferenze, persino l'intonazione della voce, vengono da altre persone, e che di suo, praticamente, scava scava, non ci sia nulla; oppure alla e-mail dove Michele, il protagonista del romanzo, osservando gli oggetti nella sua stanza, che sono tutti diversi l'uno dall'altro e provenienti da "mondi" molto lontani tra loro, si domanda quale sia il suo di mondo, il che nasconde, se vogliamo, la domanda implicita su quale sia nel mondo la sua identità. "Chi sono io?". "Che ruolo ho?". Domande piuttosto tipiche per un venticinquenne precario come Michele Astrini o per me nel 2004.
A pag. 45 del tuo romanzo leggo: Il microlinguaggio della scrittura niente ha a che vedere con il linguaggio quotidiano.(...) Saper scrivere è conoscere il macrolinguaggio. Parole che mi hanno infastidito e che mi hanno procurato prurigine. Convincimi della bontà dell'assunto.
Michele è percorso da alcuni dubbi. La sua ossessione è fare un libro, perché, secondo lui, è facendo un libro che la sua vita tutta scombinata si riordinerà e acquisterà senso. Il problema è che vive in una situazione di blocco perché non sa bene che cosa scrivere in questo libro. Ha tutte le parole, ha i racconti, ha le idee, ma non ha la cosa. O forse non ha la volontà di affrontare tutte assieme le sue ossessioni, e di vincerle. Teme di uscire sconfitto dalla prova che considera la più importante della sua vita, e che gli dirà di lui quanto vale, quale è il suo valore. Accanto a questi dubbi, Michele si inventa – e non è un'esperienza insolita in un aspirante scrittore – teorie le più complicate per cercare di spiegarsi che cos'è la scrittura. La teoria di Michele ti crea prurigine, io penso, perché quello è il tentativo di descrivere qualcosa che per Michele è un mostro. E' qualcosa che teme parecchio, e di cui non parla in termini immediatamente comprensibili, o con familiarità, ma che cerca di ingabbiare con teorie complesse. Secondo Michele, il linguaggio letterario è un linguaggio verticale così come lo sono il linguaggio giuridico, quello medico, quello delle scienze. E' un linguaggio specifico, che solo per opportunità, e occasionalmente (certo occasioni che possono durare anche per decenni – si pensi al linguaggio freudiano, pansessualista quanto ha influenzato il linguaggio letterario) si nutre di altri linguaggi – compreso quello del cosiddetto quotidiano. Il macrolinguaggio letterario è quel linguaggio che una volta appreso permette di far filtrare tutto quel che c'è di poetico nella, diciamo, realtà che di volta in volta si decide di considerare. Così il macrolinguaggio letterario è un linguaggio che si sovrappone a quello, poniamo, giuridico, e che consente di evidenziare di questo linguaggio e di distillare da questo linguaggio l'essenza poetica. Il macrolinguaggio letterario è quel linguaggio che permette, ad esempio, di trovare il poetico in una ditta che produce conglomerato bituminoso, o in un ipermercato, persino in un mercato ortofrutticolo, ovunque – ammesso che ci sia del poetico (e questo può voler significare che il poetico non sta proprio ovunque). Esattamente come il linguaggio giuridico proietta un cono di luce sugli aspetti giuridici di un fatto o il linguaggio della matematica sugli aspetti matematici di un fatto. Ora, esistendo un linguaggio letterario di cui ci si può appropriare, consegue che esistono veri poeti (o scrittori) e falsi poeti (o scrittori) oppure poeti mediocri o scrittori mediocri o poeti ottimi e poeti mediocri, ossia persone che conoscono a diversi livelli questo linguaggio (o macrolinguaggio) letterario.
Soprattutto, però, Alfredo, vorrei far notare che questo brano di una paginetta infilato nel corso di una narrazione di trecento pagine, si conclude con una osservazione amara sulla condizione esistenziale di Michele, che non riesce ad avere relazioni sociali, lui dice, a causa di questo macrolinguaggio – come se Michele parlasse un linguaggio alieno, e questo allontanasse tutti quanti.
A pag. 72/73 un'affermazione che è tutto un programma: Non costruisco mondi, nomino soltanto. E' la certificazione della tua ossessione a costruire elenchi e a dividere la storia e la vita a compartimenti stagni?
Non capisco bene la domanda, ma provo a rispondere.
Prima di tutto, anche se un lettore attento come te, Alfredo, so di non poterlo prendere in castagna, provo a dirti che c'è una certa differenza tra Michele e me. Certamente ci sono innegabili radici autobiografiche nel personaggio, ma questo succede non perché abbia voluto fare outing in certi casi, o scrivere dichiarazioni programmatiche in altri, ma per comodità. Volendo parlare della condizione di un ragazzo che vive nella provvisorietà, che non sa bene ancora chi è, ho deciso di rifarmi a argomenti e situazioni che conosco, e di reperire da lì tutto il materiale per il libro. Banalmente, se avessi fatto Michele addetto in un Ufficio Qualità di una ditta che produce sottaceti, avrei dovuto fare anche tutto un lavoro di ricerca per rendere credibile il mio personaggio, perché io non ho la minima idea di come è fatta una fabbrica di sottaceti. Conosco invece molto bene una ditta che produce conglomerato bituminoso, perché ci ho lavorato. Analogamente, se avessi messo in scena un personaggio che vuole costruire l'astronave in grado di portarti nella galassia delle meraviglie avrei dovuto fare parecchia ricerca, e per questo, e quasi soltanto per questo, ho scelto allora di parlare di un ragazzo che vuole scrivere un libro.
Allora le affermazioni di Michele non sono le mie affermazioni, anche se io sono l'autore delle parole di Michele. E' un concetto strano, e magari stento anch'io a crederci, ma una volta predisposti certi meccanismi della narrazione, il personaggio 'vive' da solo, e certe frasi non può non dirle, in un certo senso.
Così, secondo me, è perfettamente sensato che dalla penna di Michele Astrini escano parole come Non costruisco mondi, nomino soltanto. Perché Michele è un ragazzo che fatica a trovare una logica che governi la sua esistenza, un senso, una bandiera, e allora conseguentemente non riesce a costruirsi un mondo coerente, come dire?, una sorta di ecosistema, ma appiccica (come i post-it nella sua stanza) tanti pezzetti di mondi uno diverso dall'altro, si limita a nominarli uno accanto all'altro, senza trovare una logica che li faccia coesistere sensatamente. Difatti all'inizio della prima parte si cita Kandisky in un passo di Sguardi sul passato che esalta la bellezza della tavolozza che contiene potenzialmente tutti i quadri possibili. Sono assolutamente d'accordo con Kandinsky: una tavolozza è superbamente bella. Già, però non ha senso.
Per il resto della tua domanda, ecco quella è la parte che proprio non capisco. Da dove hai dedotto quello che io ho una "ossessione a costruire elenchi e a dividere la storia e la vita a compartimenti stagni"? La cosa un po' mi allarma e un po' mi consola. Mi allarma perché il testo dice cose che io non volevo dire; mi consola perché se il testo dice cose non volevo dire allora è ben vero che esiste una distanza tra me che ho scritto il testo e il testo e che quando dico che Michele non sono io, se non parzialmente, e solo nelle parti accessorie, forse non sto dicendo proprio male.
E' evidente il tuo sentirti diverso in quanto scrittore: Perché allora scrivere se scrivere è diversità, sofferenza, solitudine? (...)Perché la scrittura è un demone e davanti un demone non si può fare molto.
Michele ha problemi a socializzare, e per questo incolpa il demone della scrittura, la mania per l'alfabeto che lo invade, lo percorre. Il demone è la sua croce, ma è anche quel che lo salva, come si cerca di spiegare rifacendosi alla parola greca eudaimonia, che significa 'felicità', e che può tradursi come 'buon demone'. La felicità è qualcosa che ci divora, che ci pretende completamente, che ci convoca in un campo di irriducibilità, che ci consuma: e che ci ammazza anche.
Non ho riscontrato nel tuo libro riferimenti precisi ad autori, al di là di Perec (sempre se è giusto il mio appunto), tanto meno italiani. Ma considerando che abbiamo più di 2 millenni di scrittura alle spalle, c'è qualche scrittore che ti ha influenzato?
Oh, come no?
Questa domanda assomiglia un po' alla domanda: qual è il tuo autore preferito?
La risposta è: io non ho un solo autore preferito. Però ne ho avuti parecchi. A dodici anni Jack London. A quattordici Stephen King. A sedici Hemingway. A vent'anni Verga. Nice. E sicuramente l'elenco potrebbe continuare – ma non lo continuo, altrimenti mi dici che ho l'ossessione degli elenchi e dei compartimenti stagni.
Sono stato influenzato da diverse scritture, e in genere, l'affabulazione mi piace: mi piace raccontare storie, intrattenere. E impazzisco per le narrazioni gastronomiche nel senso che siccome da piccolino ho cominciato acquistando libri alla standa e all'iper, ho sempre collegato alla lettura e ai libri qualcosa di gastronomico, qualcosa, voglio dire, intriso dell'odore delle patatine fritte, delle fritelle con lo sciroppo d'acero, e dei polli allo spiedo che girano sulla fiamma delle rosticcerie dell'iper, qualcosa che ha a che fare con il linoleum e le piastrelle bianche o a scacchi, qualcosa che ha a che fare con i saponi e i detersivi, qualcosa che ha a che fare con la macchina delle gomme da masticare colorate, e con la giostrine per il bimbo di tre anni - la macchinina, il cavalluccio o l'astronave - , qualcosa che ha a che fare con le offerte speciali e gli sconti, qualcosa che ha a che fare con l'asfalto delle strade statali o delle tangenziali che bisogna imboccare per arrivare all'iper, al super, o a qualche discount, qualcosa che ha a che fare con i pneumatici che puzzano di bruciato dopo una corsa sul nastro d'asfalto, e con il caldo, con il sudore, oppure con la pioggerella estiva, ecco questo associo ai libri, all'oggetto libro, ogni volta che lo vedo, perché queste cose stavano attorno all'oggetto libro le prime volte che ho cominciato a toccarlo, a volerlo possedere. Penserei altro, forse, se avessi avuto una biblioteca in famiglia, assocerei altre immagini - magari, molto più raffinate -; e però, questa è, in tutta sincerità, la mia esperienza. Faccia o non faccia orrore, il primo libro che ho scelto, io personalmente, io tutto da solo, è stato alla standa, a dodici anni, ed era un tascabile supereconomico sperling&kupfer di Jack Higgins dal titolo Il confessionale.
La risposta alla domanda è quindi: che mi hanno influenzato gli scrittori gastronomici, soprattutto.
Il punto è che ci sono molti più scrittori da iper di quel che si pensi in giro. Voglio dire oggigiorno Dostojevskij lo trovi all'iper così come Richard Leymon o Michael Marshall Smith.
Da anni dico: non ci sto alla "santificazione" di Pier Vittorio Tondelli, scrittore per nulla essenziale. Lo citi in un passo del romanzo. Dimmene due in proposito.
In quel passo si citano Tondelli e Sciascia per ragioni precise e assolutamente strumentali rispetto alla tesi che si sostengono in quel discorso. Non mi pare ci sia santificazione. Certo, riconosco che Tondelli ha avuto idee coraggiose, sbalorditive. E secondo me siamo stati sfortunati che sia morto così presto.
Grazie di tutto
Premetto che sono nato nel 1978, e adesso ti dico quello che ho fatto, e non quello che ho studiato. Ho fatto l'imbianchino, ho fatto il dj in una radio locale per due anni (parlavo di libri), ho suonato in un gruppo musicale come chitarrista solista per due anni, ho scritto articoli per i giornali locali e provinciali dall'età di dodici anni, ho lavorato in una biblioteca per nove mesi (come uomo di fatica; all'epoca la biblioteca traslocava), ho fatto il censore (e ho guadagnato quattro milioni e ottocentomila delle vecchie lire), ho lavorato come tuttofare in una ditta che produce conglomerato bituminoso dove sono riuscito a stare per due anni e tre mesi con contratti a tempo determinato. Ho curato corsi di scrittura creativa, presentazioni di romanzi, letture pubbliche a Tortona in provincia di Alessandria dove risiedo. Aggiungo: meno male che non mi hai chiesto che cosa faccio 'adesso' che il libro è pubblicato...
Cito da uno studio su Georges Perec: L'esperienza oulipiana risulta così il dato decisivo della sua evoluzione, poiché fornisce a Perec gli strumenti necessari a distanziare la Storia, il vissuto personale, la persistenza infraordinaria del quotidiano, e ad assumerli come elementi di un gioco letterario in cui nella combinazione inesausta dei singoli tasselli si intravede la possibilità della ricomposizione dell'identità in un quadro unitario. Le dinamiche dell'opera seguono così le linee di una combinatoria introspettiva che gioca a permutare le tessere dell'esperienza come tasselli di un puzzle. Come a dire: ho avuto la sensazione netta che nel tuo romanzo "La mania per l'alfabeto" Perec fosse un punto di riferimento imprescindibile.
E' un impressione corretta, anche se personalmente conosco Perec pochissimo. Il brano che riporti, infatti, assomiglia, secondo me, a quello che compare in esergo al libro, tratto dall'introduzione a Genio e follia di Karl Jaspers, firmata da Umberto Galimberti. "Ma qual è la parola di cui si fa portavoce la follia creativa? Qui le due ancelle, la psichiatria e la filosofia, trovano il loro accordo intorno a una parola. La parola è schizofrenia, la mente (phrén) scissa (schizo) in due mondi dove l'uno si rifrange nell'altro, per cui è in decidibile quale dei due sia il mondo vero. Ma l'uomo, l'uomo che non teme la profondità dell'abisso (Ab-grund) e che non si difende con terreni solidi e sicuri (Grund), può accedere alla schizofrenia perché è dell'uomo abitare la dimensione frantumata dell'essere che, inaccessibile alla sua originaria unità, si concede all'uomo solo come lacerazione (Zerrisenheit). [...] possiamo pensare all'arte e alla filosofia come alla proclamazione alta e forte dell'incomponibilità di questa lacerazione, da cui l'uomo è nato come frammento scisso tra la terra e il cielo per dirne tutta la distanza. "La nostra forza – scrive Jaspers – è la scissione".
Perec usa le parole "ricomposizione dell'identità". Ora, certamente questo romanzo, che ho scritto tra il 2004 e il 2006, risponde anche alla domanda: "Chi sono io?". Diversi scritti inseriti nel romanzo cercano di far notare partendo da dati molto concreti e quotidiani, che la nostra identità anche quando ci sembra perfettamente unitaria e coerente, a uno sguardo più attento, più analitico, più diabolico, direi, è il risultato di una collazione di atteggiamenti e pensieri che provengono da altrove – mi riferisco ad esempio al racconto "Desideria si chiede", dove una ragazza ci descrive come ogni parola che pronuncia, ogni movimento che compie, i suoi gusti e le sue preferenze, persino l'intonazione della voce, vengono da altre persone, e che di suo, praticamente, scava scava, non ci sia nulla; oppure alla e-mail dove Michele, il protagonista del romanzo, osservando gli oggetti nella sua stanza, che sono tutti diversi l'uno dall'altro e provenienti da "mondi" molto lontani tra loro, si domanda quale sia il suo di mondo, il che nasconde, se vogliamo, la domanda implicita su quale sia nel mondo la sua identità. "Chi sono io?". "Che ruolo ho?". Domande piuttosto tipiche per un venticinquenne precario come Michele Astrini o per me nel 2004.
A pag. 45 del tuo romanzo leggo: Il microlinguaggio della scrittura niente ha a che vedere con il linguaggio quotidiano.(...) Saper scrivere è conoscere il macrolinguaggio. Parole che mi hanno infastidito e che mi hanno procurato prurigine. Convincimi della bontà dell'assunto.
Michele è percorso da alcuni dubbi. La sua ossessione è fare un libro, perché, secondo lui, è facendo un libro che la sua vita tutta scombinata si riordinerà e acquisterà senso. Il problema è che vive in una situazione di blocco perché non sa bene che cosa scrivere in questo libro. Ha tutte le parole, ha i racconti, ha le idee, ma non ha la cosa. O forse non ha la volontà di affrontare tutte assieme le sue ossessioni, e di vincerle. Teme di uscire sconfitto dalla prova che considera la più importante della sua vita, e che gli dirà di lui quanto vale, quale è il suo valore. Accanto a questi dubbi, Michele si inventa – e non è un'esperienza insolita in un aspirante scrittore – teorie le più complicate per cercare di spiegarsi che cos'è la scrittura. La teoria di Michele ti crea prurigine, io penso, perché quello è il tentativo di descrivere qualcosa che per Michele è un mostro. E' qualcosa che teme parecchio, e di cui non parla in termini immediatamente comprensibili, o con familiarità, ma che cerca di ingabbiare con teorie complesse. Secondo Michele, il linguaggio letterario è un linguaggio verticale così come lo sono il linguaggio giuridico, quello medico, quello delle scienze. E' un linguaggio specifico, che solo per opportunità, e occasionalmente (certo occasioni che possono durare anche per decenni – si pensi al linguaggio freudiano, pansessualista quanto ha influenzato il linguaggio letterario) si nutre di altri linguaggi – compreso quello del cosiddetto quotidiano. Il macrolinguaggio letterario è quel linguaggio che una volta appreso permette di far filtrare tutto quel che c'è di poetico nella, diciamo, realtà che di volta in volta si decide di considerare. Così il macrolinguaggio letterario è un linguaggio che si sovrappone a quello, poniamo, giuridico, e che consente di evidenziare di questo linguaggio e di distillare da questo linguaggio l'essenza poetica. Il macrolinguaggio letterario è quel linguaggio che permette, ad esempio, di trovare il poetico in una ditta che produce conglomerato bituminoso, o in un ipermercato, persino in un mercato ortofrutticolo, ovunque – ammesso che ci sia del poetico (e questo può voler significare che il poetico non sta proprio ovunque). Esattamente come il linguaggio giuridico proietta un cono di luce sugli aspetti giuridici di un fatto o il linguaggio della matematica sugli aspetti matematici di un fatto. Ora, esistendo un linguaggio letterario di cui ci si può appropriare, consegue che esistono veri poeti (o scrittori) e falsi poeti (o scrittori) oppure poeti mediocri o scrittori mediocri o poeti ottimi e poeti mediocri, ossia persone che conoscono a diversi livelli questo linguaggio (o macrolinguaggio) letterario.
Soprattutto, però, Alfredo, vorrei far notare che questo brano di una paginetta infilato nel corso di una narrazione di trecento pagine, si conclude con una osservazione amara sulla condizione esistenziale di Michele, che non riesce ad avere relazioni sociali, lui dice, a causa di questo macrolinguaggio – come se Michele parlasse un linguaggio alieno, e questo allontanasse tutti quanti.
A pag. 72/73 un'affermazione che è tutto un programma: Non costruisco mondi, nomino soltanto. E' la certificazione della tua ossessione a costruire elenchi e a dividere la storia e la vita a compartimenti stagni?
Non capisco bene la domanda, ma provo a rispondere.
Prima di tutto, anche se un lettore attento come te, Alfredo, so di non poterlo prendere in castagna, provo a dirti che c'è una certa differenza tra Michele e me. Certamente ci sono innegabili radici autobiografiche nel personaggio, ma questo succede non perché abbia voluto fare outing in certi casi, o scrivere dichiarazioni programmatiche in altri, ma per comodità. Volendo parlare della condizione di un ragazzo che vive nella provvisorietà, che non sa bene ancora chi è, ho deciso di rifarmi a argomenti e situazioni che conosco, e di reperire da lì tutto il materiale per il libro. Banalmente, se avessi fatto Michele addetto in un Ufficio Qualità di una ditta che produce sottaceti, avrei dovuto fare anche tutto un lavoro di ricerca per rendere credibile il mio personaggio, perché io non ho la minima idea di come è fatta una fabbrica di sottaceti. Conosco invece molto bene una ditta che produce conglomerato bituminoso, perché ci ho lavorato. Analogamente, se avessi messo in scena un personaggio che vuole costruire l'astronave in grado di portarti nella galassia delle meraviglie avrei dovuto fare parecchia ricerca, e per questo, e quasi soltanto per questo, ho scelto allora di parlare di un ragazzo che vuole scrivere un libro.
Allora le affermazioni di Michele non sono le mie affermazioni, anche se io sono l'autore delle parole di Michele. E' un concetto strano, e magari stento anch'io a crederci, ma una volta predisposti certi meccanismi della narrazione, il personaggio 'vive' da solo, e certe frasi non può non dirle, in un certo senso.
Così, secondo me, è perfettamente sensato che dalla penna di Michele Astrini escano parole come Non costruisco mondi, nomino soltanto. Perché Michele è un ragazzo che fatica a trovare una logica che governi la sua esistenza, un senso, una bandiera, e allora conseguentemente non riesce a costruirsi un mondo coerente, come dire?, una sorta di ecosistema, ma appiccica (come i post-it nella sua stanza) tanti pezzetti di mondi uno diverso dall'altro, si limita a nominarli uno accanto all'altro, senza trovare una logica che li faccia coesistere sensatamente. Difatti all'inizio della prima parte si cita Kandisky in un passo di Sguardi sul passato che esalta la bellezza della tavolozza che contiene potenzialmente tutti i quadri possibili. Sono assolutamente d'accordo con Kandinsky: una tavolozza è superbamente bella. Già, però non ha senso.
Per il resto della tua domanda, ecco quella è la parte che proprio non capisco. Da dove hai dedotto quello che io ho una "ossessione a costruire elenchi e a dividere la storia e la vita a compartimenti stagni"? La cosa un po' mi allarma e un po' mi consola. Mi allarma perché il testo dice cose che io non volevo dire; mi consola perché se il testo dice cose non volevo dire allora è ben vero che esiste una distanza tra me che ho scritto il testo e il testo e che quando dico che Michele non sono io, se non parzialmente, e solo nelle parti accessorie, forse non sto dicendo proprio male.
E' evidente il tuo sentirti diverso in quanto scrittore: Perché allora scrivere se scrivere è diversità, sofferenza, solitudine? (...)Perché la scrittura è un demone e davanti un demone non si può fare molto.
Michele ha problemi a socializzare, e per questo incolpa il demone della scrittura, la mania per l'alfabeto che lo invade, lo percorre. Il demone è la sua croce, ma è anche quel che lo salva, come si cerca di spiegare rifacendosi alla parola greca eudaimonia, che significa 'felicità', e che può tradursi come 'buon demone'. La felicità è qualcosa che ci divora, che ci pretende completamente, che ci convoca in un campo di irriducibilità, che ci consuma: e che ci ammazza anche.
Non ho riscontrato nel tuo libro riferimenti precisi ad autori, al di là di Perec (sempre se è giusto il mio appunto), tanto meno italiani. Ma considerando che abbiamo più di 2 millenni di scrittura alle spalle, c'è qualche scrittore che ti ha influenzato?
Oh, come no?
Questa domanda assomiglia un po' alla domanda: qual è il tuo autore preferito?
La risposta è: io non ho un solo autore preferito. Però ne ho avuti parecchi. A dodici anni Jack London. A quattordici Stephen King. A sedici Hemingway. A vent'anni Verga. Nice. E sicuramente l'elenco potrebbe continuare – ma non lo continuo, altrimenti mi dici che ho l'ossessione degli elenchi e dei compartimenti stagni.
Sono stato influenzato da diverse scritture, e in genere, l'affabulazione mi piace: mi piace raccontare storie, intrattenere. E impazzisco per le narrazioni gastronomiche nel senso che siccome da piccolino ho cominciato acquistando libri alla standa e all'iper, ho sempre collegato alla lettura e ai libri qualcosa di gastronomico, qualcosa, voglio dire, intriso dell'odore delle patatine fritte, delle fritelle con lo sciroppo d'acero, e dei polli allo spiedo che girano sulla fiamma delle rosticcerie dell'iper, qualcosa che ha a che fare con il linoleum e le piastrelle bianche o a scacchi, qualcosa che ha a che fare con i saponi e i detersivi, qualcosa che ha a che fare con la macchina delle gomme da masticare colorate, e con la giostrine per il bimbo di tre anni - la macchinina, il cavalluccio o l'astronave - , qualcosa che ha a che fare con le offerte speciali e gli sconti, qualcosa che ha a che fare con l'asfalto delle strade statali o delle tangenziali che bisogna imboccare per arrivare all'iper, al super, o a qualche discount, qualcosa che ha a che fare con i pneumatici che puzzano di bruciato dopo una corsa sul nastro d'asfalto, e con il caldo, con il sudore, oppure con la pioggerella estiva, ecco questo associo ai libri, all'oggetto libro, ogni volta che lo vedo, perché queste cose stavano attorno all'oggetto libro le prime volte che ho cominciato a toccarlo, a volerlo possedere. Penserei altro, forse, se avessi avuto una biblioteca in famiglia, assocerei altre immagini - magari, molto più raffinate -; e però, questa è, in tutta sincerità, la mia esperienza. Faccia o non faccia orrore, il primo libro che ho scelto, io personalmente, io tutto da solo, è stato alla standa, a dodici anni, ed era un tascabile supereconomico sperling&kupfer di Jack Higgins dal titolo Il confessionale.
La risposta alla domanda è quindi: che mi hanno influenzato gli scrittori gastronomici, soprattutto.
Il punto è che ci sono molti più scrittori da iper di quel che si pensi in giro. Voglio dire oggigiorno Dostojevskij lo trovi all'iper così come Richard Leymon o Michael Marshall Smith.
Da anni dico: non ci sto alla "santificazione" di Pier Vittorio Tondelli, scrittore per nulla essenziale. Lo citi in un passo del romanzo. Dimmene due in proposito.
In quel passo si citano Tondelli e Sciascia per ragioni precise e assolutamente strumentali rispetto alla tesi che si sostengono in quel discorso. Non mi pare ci sia santificazione. Certo, riconosco che Tondelli ha avuto idee coraggiose, sbalorditive. E secondo me siamo stati sfortunati che sia morto così presto.
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