INTERVISTE
Marco Vichi
Voglio ricordare ai tanti lettori del Paradiso on line la collaborazione che hai avuto col Paradiso cartaceo anni fa. Cosa è cambiato da allora?
Molte cose. Quando nessuno ti considera, pubblicare su riviste è una grande soddisfazione che ricordo con piacere... ma adesso finalmente posso vivere del mio lavoro. Ho aspettato diciotto anni prima di vedere il primo libro, ma nello scaffale ho ancora le copie del Paradiso degli Orchi, che insieme a un'altra rivista di Milano, Nuova Prosa, ha accolto i racconti di uno sconosciuto.
La trilogia dedicata al commissario Bordelli presenta un personaggio crepuscolare e lontano nel tempo. Perché hai deciso di ambientare le tue storie delittuose negli anni '60? Perché ti appartengono come memoria o perché era più facile ammazzare senza essere scoperti?
Forse per via della "memoria". Gli anni '60 sono la mia infanzia e la mia adolescenza. Ricordo bene l'atmosfera di quegli anni. Era un mondo diverso (come si sa, fu il '68 a trasformare tutto), un mondo che i ragazzi di oggi non so se riescono a immaginare. Muovermi insieme al commissario Bordelli in un'epoca per me mitica è stato un grande piacere... ma confesso di non averlo deciso, è più esatto dire che mi ci sono ritrovato.
A quando la quarta avventura?
Non so. Ci sto pensando da tempo, e forse qualche elemento c'è già. Sono molto affezionato al commissario, ma proprio per questo voglio rispettarlo. Vorrei scrivere la quarta storia quando sentirò che Bordelli mi chiama, e non per motivi editoriali. (Comunque, oltre ai tre romanzi ci sono due racconti lunghi con il Commissario).
Dei sette libri che hai scritto, tre sono gialli. Eppure tu non ti consideri e non vuoi essere considerato un giallista e il tuo mondo letterario è più vicino a un Fenoglio e a un Fante che non a uno Scerbanenco o a un Carlotto...
I libri usciti e gli armadi pieni di romanzi e racconti accumulati in diciotto anni hanno proporzioni diverse riguardo al giallo. Nella mia "produzione" (quella negli armadi) il commissario Bordelli rappresenta una piccola percentuale. Li ho scritti quasi per sfida, curioso di vedere cosa sarei stato capace di fare con storie a tinte gialle. Mi è sempre piaciuto addentrarmi in mondi e in linguaggi sempre diversi, e il giallo (o noir) è uno di questi. Non credo che perderò mai la tendenza a non ripetere formule già conosciute. Bordelli è un'eccezione, e fare quell'esperienza è stato emozionante.
Avverto ancora, nonostante tutto, una differenza tra il lettore di noir e quello, chiamiamolo con un termine ad hoc, mainstream. Credo che sia però una caratteristica tutta italiana, come lo è stata per la musica pop (fino ad una decade fa chi ascoltava Baglioni rigettava Springsteen e viceversa). Non pensi che sia il caso di eliminare questi steccati e considerare la letteratura solo per quella che è?
Addirittura fino a pochi anni fa, chi leggeva gialli lo faceva di nascosto. Adesso anche le biblioteche hanno la sezione "Giallo". Devo però ammettere che i pregiudizi su questo genere non sono del tutto infondati, e nemmeno io non ne sono esente. Ma non è una questione di etichette o di poliziotti (anche Delitto e Castigo è un poliziesco). Il fatto è che il giallo può rivelarsi - per chi scrive - una brutta trappola: si può credere che una bella trama piena di colpi di scena possa essere di per sé un bel romanzo, ma in realtà il romanzo è altrove... è nella scrittura e nello sguardo sulle cose. Proprio per questo, quando apro un cosiddetto giallo cerco subito di capire se è "solo un giallo" o se invece è un vero romanzo, come ad esempio quelli di Durrenmat dove compare il commissario Barlach. Credo che il pregiudizio sia nato proprio dalla cattiva qualità di certi gialli. Ma in fin dei conti esistono libri belli e libri brutti.
Per Rai Radio Tre hai condotto una trasmissione "Le cento lire" dedicate all'arte in carcere. Ce ne vuoi parlare?
E' stato molto bello. Ho conosciuto persone che se non fossero finite in carcere non avrebbero mai scoperto la passione per una forma d'arte. Trovo che sia una cosa grandiosa e tristissima al tempo stesso. Nella vita non tutti partono dagli stessi trampolini, e c'è chi non sa nemmeno cosa sia un trampolino. Molte persone delinquono per questioni culturali, e appena hanno la possibilità di restare un po' soli con se stessi scoprono che la loro esistenza poteva essere diversa. In quella occasione, altre allo psicologo di San Vittore Angelo Aparo (persona molto impegnata su quel fronte), ho conosciuto anche Sergio Cusani (che ho inserito nelle interviste), e ne sono rimasto molto colpito: una bella persona che non ha mai perso il senso delle cose.
Molte cose. Quando nessuno ti considera, pubblicare su riviste è una grande soddisfazione che ricordo con piacere... ma adesso finalmente posso vivere del mio lavoro. Ho aspettato diciotto anni prima di vedere il primo libro, ma nello scaffale ho ancora le copie del Paradiso degli Orchi, che insieme a un'altra rivista di Milano, Nuova Prosa, ha accolto i racconti di uno sconosciuto.
La trilogia dedicata al commissario Bordelli presenta un personaggio crepuscolare e lontano nel tempo. Perché hai deciso di ambientare le tue storie delittuose negli anni '60? Perché ti appartengono come memoria o perché era più facile ammazzare senza essere scoperti?
Forse per via della "memoria". Gli anni '60 sono la mia infanzia e la mia adolescenza. Ricordo bene l'atmosfera di quegli anni. Era un mondo diverso (come si sa, fu il '68 a trasformare tutto), un mondo che i ragazzi di oggi non so se riescono a immaginare. Muovermi insieme al commissario Bordelli in un'epoca per me mitica è stato un grande piacere... ma confesso di non averlo deciso, è più esatto dire che mi ci sono ritrovato.
A quando la quarta avventura?
Non so. Ci sto pensando da tempo, e forse qualche elemento c'è già. Sono molto affezionato al commissario, ma proprio per questo voglio rispettarlo. Vorrei scrivere la quarta storia quando sentirò che Bordelli mi chiama, e non per motivi editoriali. (Comunque, oltre ai tre romanzi ci sono due racconti lunghi con il Commissario).
Dei sette libri che hai scritto, tre sono gialli. Eppure tu non ti consideri e non vuoi essere considerato un giallista e il tuo mondo letterario è più vicino a un Fenoglio e a un Fante che non a uno Scerbanenco o a un Carlotto...
I libri usciti e gli armadi pieni di romanzi e racconti accumulati in diciotto anni hanno proporzioni diverse riguardo al giallo. Nella mia "produzione" (quella negli armadi) il commissario Bordelli rappresenta una piccola percentuale. Li ho scritti quasi per sfida, curioso di vedere cosa sarei stato capace di fare con storie a tinte gialle. Mi è sempre piaciuto addentrarmi in mondi e in linguaggi sempre diversi, e il giallo (o noir) è uno di questi. Non credo che perderò mai la tendenza a non ripetere formule già conosciute. Bordelli è un'eccezione, e fare quell'esperienza è stato emozionante.
Avverto ancora, nonostante tutto, una differenza tra il lettore di noir e quello, chiamiamolo con un termine ad hoc, mainstream. Credo che sia però una caratteristica tutta italiana, come lo è stata per la musica pop (fino ad una decade fa chi ascoltava Baglioni rigettava Springsteen e viceversa). Non pensi che sia il caso di eliminare questi steccati e considerare la letteratura solo per quella che è?
Addirittura fino a pochi anni fa, chi leggeva gialli lo faceva di nascosto. Adesso anche le biblioteche hanno la sezione "Giallo". Devo però ammettere che i pregiudizi su questo genere non sono del tutto infondati, e nemmeno io non ne sono esente. Ma non è una questione di etichette o di poliziotti (anche Delitto e Castigo è un poliziesco). Il fatto è che il giallo può rivelarsi - per chi scrive - una brutta trappola: si può credere che una bella trama piena di colpi di scena possa essere di per sé un bel romanzo, ma in realtà il romanzo è altrove... è nella scrittura e nello sguardo sulle cose. Proprio per questo, quando apro un cosiddetto giallo cerco subito di capire se è "solo un giallo" o se invece è un vero romanzo, come ad esempio quelli di Durrenmat dove compare il commissario Barlach. Credo che il pregiudizio sia nato proprio dalla cattiva qualità di certi gialli. Ma in fin dei conti esistono libri belli e libri brutti.
Per Rai Radio Tre hai condotto una trasmissione "Le cento lire" dedicate all'arte in carcere. Ce ne vuoi parlare?
E' stato molto bello. Ho conosciuto persone che se non fossero finite in carcere non avrebbero mai scoperto la passione per una forma d'arte. Trovo che sia una cosa grandiosa e tristissima al tempo stesso. Nella vita non tutti partono dagli stessi trampolini, e c'è chi non sa nemmeno cosa sia un trampolino. Molte persone delinquono per questioni culturali, e appena hanno la possibilità di restare un po' soli con se stessi scoprono che la loro esistenza poteva essere diversa. In quella occasione, altre allo psicologo di San Vittore Angelo Aparo (persona molto impegnata su quel fronte), ho conosciuto anche Sergio Cusani (che ho inserito nelle interviste), e ne sono rimasto molto colpito: una bella persona che non ha mai perso il senso delle cose.
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