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Il Paradiso degli Orchi
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INTERVISTE

Mary Morris

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Può per favore dirci qualcosa di Lei e del Suo lavoro, a beneficio dei nostri lettori d'alto ingegno e lignaggio?



Scrivo sia storie che saggi, ma direi senz'altro che sono un'Autrice di narrativa. Mi piace la psicologia, quello spazio nelle persone che non si può mai affermare di conoscere del tutto. L'intero mio lavoro è un'esplorazione di tale luogo. Anche quando scrivo di viaggi, e lo faccio spesso, la mia attenzione si concentra sulle storie individuali sottese alla storia.

Ho pubblicato circa quindici libri, e con la mia prima raccolta di racconti vinsi il Rome Prize. Così ho passato un anno a Roma, all'American Academy, innamorandomi dell'Italia, della sua cultura, del suo popolo, del suo cibo. Penso di essere un'esploratrice, sia del mondo che del cuore umano.



Agatha Christie e Patricia Highsmith hanno più o meno influito sul Suo stile?



Non direttamente. Certo, ammiro il loro lavoro. Tuttavia, credo d'inclinare più verso la narrativa di Paul Auster, di Joyce Carol Oates, e di Haruki Murakami - mi attira molto l'idea dell'ossessione, il thriller psicologico. Benché Revenge non abbia nulla a che vedere con i treni, mi piacciono gli incontri casuali e sorprendenti - sto pensando alla Highsmith di Sconosciuti in treno, e ovviamente a Il talento di mr. Ripley -, in cui due vite s'incrociano e accade qualcosa di terribile e però fruttuosamente imprevisto. Adoro l'idea che due persone s'incontrino, che davvero non conoscano molto l'uno dell'altro. I rapporti umani, in fondo, si basano sull'istinto e sulla fiducia. Dopo vent'anni che conosci qualcuno, trovi qualcosa in lui o in lei che non hai mai visto prima. Oppure incroci un tale o una talaltra sull'autobus o a una festa, e la tua vita cambia.

Dei personaggi, infine, mi interessano le debolezze. Le nostre zone mute, se si vuole. E di sicuro entrambi le Autrici di cui stiamo parlando hanno scandagliato queste profondità.



E' stata influenzata da Michael Cunningham durante la redazione di "Revenge"? E in che modo?



Michael Cunningham è un caro e vecchio amico. Ci conosciamo da tantissimi anni. E, anche se non posso dire che Revenge sia stato direttamente influenzato da lui, abbiamo narrato entrambi storie di scrittori e sul mondo dell'arte, interessandoci del luogo da dove vengono le storie medesime: entrambi siamo estremamente presi dall'analisi dei processi che soggiacciono all'essere scrittori. Inoltre, amo quel che dice, e ho amato Le ore. Così, credo che la sua influenza sia piuttosto indiretta, e sempre benvenuta.



Sente una qualche affinità, stilistica o di contenuto, con Nicci French?



Affatto, sebbene ambedue scriviamo di ossessioni, e ci attraggono.



Cosa pensa dei "noiristi" che scrivono di serial killer, assassini di massa e sparatorie nelle scuole?



Beh, accadono cose tremende. Indicibili. E sì, gli scrittori ne scrivono e ne scriveranno. Ma a me interessa guardare con più serietà ciò che rende una persona capace di azioni del genere. Inoltre, per me un libro vive nel suo linguaggio. Se non mi attira questo, non lo leggo. Tant'è che ci sono un mucchio di libri affascinanti che non ho letto perché non riuscivo a sopportarne il giro delle frasi.



Quale psicologia deve avere un Suo personaggio, per convincerLa che è quella giusta?



Devo sentire che ha un carattere appassionato, e questa passione può divenire un'ossessione, ma non sempre. Ho lavorato a lungo sulla storia di un jazzista, del quale non posso dire che fosse un ossesso, ma certo era un uomo di forti passioni. In Revenge credo che sia Andrea che Loretta siano caratteri ossessivi. Forse proprio le passioni frustrate, artistiche o politiche che siano, diventano ossessioni. Direi comunque che non sono molto attirata dalla follìa, ma dai segreti sì. C'è molto spazio in questo mondo per l'insanìa, per i sadici e gli assassini di massa, ma ciò che trovo davvero stringente sono gli "scatti", le rotture della quotidianità. Ogni personalità è facile a rompersi, a strapparsi, e per molti versi noi siamo costruiti con rattoppi. Questa è la piega della psicologia umana che perseguo nei miei personaggi.



"Nothing to declare" è un libro che tratta di storie vere. Dunque la vita ha qualcosa a che fare con l'arte, o no?



Certo che sì. La vita è fatta di storie e le storie sono nella vita. Però: Nothing to declare ha a che vedere con la realtà, ma io ho speso ore e ore per dare forma a ogni periodo di quel libro. Dunque alla fine è un'opera d'arte, no? Ho letto di recente che Graham Greene ha trascorso quarant'anni, per mesi alle volte, scrivendo su Capri. Il bello è che non scrisse mai del periodo che passò sull'isola, ma qualcosa dello spirito di Capri vive in ogni sua pagina. Non so come, però succede. In quanto scrittori, si conduce costantemente un dialogo tra mondo esterno ed interiore. In questo senso, dunque, l'intera gamma della nostra esperienza, fino alla parte più altamente immaginativa, è vera.



E' più facile essere scrittori oggi, o nella generazione precedente.



Domanda difficilissima da soddisfare, e in tutta onestà vorrei non dover rispondere. Per essere onesti fino in fondo, direi che è più difficile esserlo oggi, però dipende da che tipo di scrittore si è. Nel mio Paese sono stati pubblicati molti romanzi sul Medio Oriente (The kite runner, per dirne uno che ammiro molto): negli USA è più facile venir pubblicati, se si ha una visione o un indirizzo politico o multiculturale. Per chi tratta dell'esperienza di vita degli asioamericani o degli afroamericani, può essere più semplice trovare un editore, siccome per tali argomenti c'è un interesse enorme, e voci nuove ed eccellenti appaiono con buona frequenza. Junot Diaz, Jhumpa Lahiri, Edwidge Dandicat, per fare dei nomi, sono Autori che traggono linfa dalla loro etnicità, trovando un vasto riscontro. Questa è la nuova esperienza vitale americana, e di essa la gente vuol leggere, come dovrebbe. E quando penso ai narratori italiani che da tempo ammiro - Moravia, Tomasi di Lampedusa (Il gattopardo è uno dei romanzi che preferisco), Silone - vedo che le loro opere provengono da una temperie ben precisa. Tuttavia, per la letteratura pura, be', ho l'impressione che sia un momento difficile. Non sono poi sicura di come verrebbero oggi accolte, al di fuori d'un contesto culturale o storico, le più poderose storie quotidiane di scialo e d'amore. L'intera questione dei rapporti che l'arte e la cultura intrattengono col proprio tempo è molto complessa, e credo abbia a che fare con il punto ove si è giunti riguardo la pubblicazione di narrativa. Credo sia stato H. L. Mencken, polemista e critico, a dire che si vive o in tempi di fiction o in tempi di verità - e il nostro tempo, nel bene o nel male (soprattutto nel male, ritengo) è tempo di verità.

Inoltre, gli editori non fanno altro che lamentarsi di quanto sia terribile pubblicare narrativa. Oggi, tutti gli scrittori sono giudicati in base alle vendite del loro ultimo libro: è la triste e dura realtà. Moltissimi ottimi libri non trovano pubblico. Ma alla fin fine si è scrittori, e come tali non ci si può far nulla. Si continua a sgobbare, e ci si adatta. E' quel che ho appreso un paio d'anni fa, viaggiando nelle Galapagos: l'adattamento è tutto.









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