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Il Paradiso degli Orchi
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Stefano Torossi

Metti, un romano qualsiasi

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Metti, un romano qualsiasi (anche un qualsiasi turista straniero, naturalmente) che si trovi a passare in un giorno qualsiasi, poco prima del tramonto, davanti alla chiesa del Gesù, forse diretto a Piazza Venezia per prendere un bus qualsiasi per la stazione.
Se decide di entrare, spinto da un impulso mistico, o anche dal semplice desiderio di riposarsi un attimo, ecco cosa gli capita.

Si ritrova, smarrito, in un antro buio (il tramonto è vicino).
Naturalmente si avvia all’altar maggiore fiocamente illuminato. Si siede in uno dei primi banchi. All’improvviso dal transetto sinistro parte una musica, qualcosa di barocco per coro e orchestra; per fortuna non le solite canzoncine delle suorine con le chitarrine e dei chierichetti coi bonghetti che imperversano normalmente nelle chiese.
Si gira in quella direzione; c’è un altare su cui si intuisce a stento, nella penombra, un quadrone seicentesco con S. Ignazio assunto in cielo.
Purtroppo sulla musica si sovrappone una voce registrata esageratamente melensa che comincia (e continuerà fino alla fine della funzione) a recitare un atto di fede che poco alla volta degenera in una dichiarazione di amore divino, quasi erotica, certo molto, troppo, appassionata. Per fortuna la musica prosegue nel sottofondo.

A un certo punto il quadrone si illumina e con lui tutta la sontuosa macchina barocca che lo incornicia (alabastro, marmi, onice, ametista, cristallo, bronzo). Ad arricchire la musica entrano trombe e tromboni che aggiungono un’atmosfera di trionfo, ma ancora sobria. La voce melensa continua imperterrita. Non sappiamo cosa sta per succedere; la tensione sale.
Colpo di scena! Subito dopo, le luci si abbassano e così la musica. Tornati al buio dell’inizio, intuiamo sull’altare un marchingegno meccanico che fatichiamo a identificare, ma qualcosa si muove. Bisogna aguzzare gli occhi (e seguire lo scomparire graduale di un elemento vistoso del quadro: per esempio lo stendardo rosso triangolare che fa da sfondo alla testa di S. Ignazio) e ci si accorge, anche se a fatica, che la pala è diventata una saracinesca che piano piano sprofonda nel pavimento.
Questa scomparsa è quasi impercettibile e, naturalmente, il colpo di teatro funziona proprio per questo; un esempio della grande sapienza scenica barocca (bisogna pensare che a suo tempo lo spettacolo nasce senza elettricità, senza riflettori, senza musica registrata, giusto  un paio di chierici appesi a due carrucole e qualche moccolo acceso; eppure con le sole candele e un probabile coretto di confratelli doveva funzionare molto bene anche allora).

      Dopo questo intervallo di penombra, carico di suspense, all’improvviso le fanfare e i cori raddoppiano, si accendono tutti i fari, e dietro la paratia scomparsa appare il prodigio: una nicchia scintillante di gemme e lapislazzuli in cui domina in trionfo una divina (è il caso di dirlo) statua di S. Ignazio, tutta d’argento.
     E’chiaro, il copione della messa in scena è questo: per cominciare vi presentiamo una scatola dignitosa, sobria, poco appariscente, niente di più. State calmi e convincetevi che sia finita lì.
Poi questa scatolona la apriamo a sorpresa per voi, e dentro c’è il più sontuoso gioiello del mondo.
Insieme alla nicchia s’illumina tutta la chiesa che, da buia, diventa anch’essa splendente di ori e stucchi.
Musica a palla con il sostegno del naturale eco delle volte (sempre cori e orchestrona barocca) e il miracolo si compie in gloria.
Noi siamo convinti che, dopo un’emozione del genere, il romano, o il turista di passaggio, che per la meraviglia si è trattenuto più del previsto, può anche essere contento di aver perso il treno.
O no?



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