RECENSIONI
Martina Zaninelli, Marta Tonin
Mio padre è un uomo d'onore
Città aperta , Pag.39 Euro 13,00
Il protagonista di questa storia lo chiamano Mutomonnezza. Monnezza - cioè immondizia - perché gioca nella discarica. Lui non lo sa: ma a migliaia di chilometri di distanza da lui, altri bambini, ragazzini, e ragazzi, vivono nella rumenta. Addirittura, a Nairobi li chiamano proprio così: chokora, che in quella lingua significa appunto munnézz. Noi l'abbiamo saputo per via di uno spettacolo teatrale. Sì: un tizio, Marco Baliani, ha preso una ventina di questi pischèlli. E gli ha fatto recitare Pinocchio. Pinocchio nero, si chiama la commedia - se di commedia si tratta. Grazie a quella, venti chokora non rovistano più nel monnezzàro. Solo a Nairobi, ce ne sarebbero altri cento e passa mila. Non contiamoli altrove. Ma Baliani ha fatto quello che ha potuto. Non toccava a lui occuparsene.
Muto, il protagonista di questa storia si chiama perché è meglio. Non ha più i genitori. A lui pensa lo zio Totò. Il padrone della discarica - e di molte altre cose. Totò è uno degli zii che i ragazzini come lui incontrano spesso. Se sono molto fortunati, vogliono solo il loro corpo, sdraiato su un letto - e almeno sono quelli che pagano di più e pretendono di meno. Se sono abbastanza fortunati, il corpo lo vogliono dieci, dodici ore al giorno, imbullettato a una macchina, a un piccone, a un aratro - è la globalizzazione, baby! (*) Dalla quale si esce mezzi ciechi, storpi, mutilati, con i polmoni incretati dalla silicosi, o mangiati dall'acido delle tinture. O morti. Se poi i cìnni non sono così fortunati, incontrano gli zii che oltre al corpo vogliono l'anima: che li vogliono come loro. Ma tutti questi hanno una cosa in comune con zio Totò. A nessuno piace che i picciottèddi vadano in giro a raccontare quel che vedono.
Allora, Mutomonnezza s'adegua. Guarda. E basta. Guarda, con i suoi occhi colore dell'acqua, spalancati nella penombra. Perché le cose che sa, le deve bisbigliare allo zio - ad esempio, chi frequenta la caserma dei carabinieri. Allo zio deve refertare: lo zio che ogni tanto lo lascia libero. Libero di andarsene alla discarica. Che non è sempre stato un monnezzaro. Prima, era la terra del padre di Muto - che si chiamava Sergio, allora. E quella terra, dove lui può chiudere gli occhi celesti e dove adesso pascolano i gabbiani, era una vigna - la loro vigna. E c'era una casa - la loro casa. Poi, un giorno, suo padre e zio Totò discussero. Su chi era il proprietario di quelle cose. E poi suo papà andò dai carabinieri. E poi lui e sua mamma scomparvero. E la casa bruciò. E Muto andò a stare dallo zio. Che aveva tanta gente intorno: che lo riveriva, che gli chiedeva favori, che lo temeva, che si muoveva o chetava ogni volta che lo zio scuoteva o lasciava i fili invisibili che li tenevano legati. E lui, quando poteva, scappava alla discarica. A guardare i gabbiani: a sognare gli indiani. Gli indiani la casa se la costruiscono, non la rubano agli altri. Il bisonte, lo cacciano per la loro famiglia, non lo tolgono ai vicini. E se devono ammazzare qualcuno, lo fanno loro. Non mandano qualcun altro.
Poi, un giorno, a casa di suo zio vennero i carabinieri - con gli archi e con le frecce. E ne diedero anche a lui. Che ricominciò a chiamarsi Sergio. E ad aprire gli occhi. E a vedere che l'onore d'un uomo è la propria capacità d'essere libero - che niente, nemmeno la morte, può togliere.
Questa, è la storia. Bella, la sua realizzazione: Marta Tonin l'ha illustrata ricorrendo ad una grafìa in cui le (poche) parole del testo trovano perfetta adesione, oltre che al senso, al non detto che la narrazione solo suggerisce - spesso la campitura dell'intera pagina ha una breve cornice continua, come fotogrammi di pellicola, che ne interrompono la magniloquenza ingannevole per rivelare con ogni necessaria, chirurgica crudezza il bastione della realtà. Lo zio è un'immensa ombra nera, alla quale i colori gioiosi del piccolo protagonista - solari quanto quelli della terra, dell'aria, dei gabbiani, delle piante, delle nuvole - fanno da contrappunto, e insieme in quella nerezza cupa e cupida si smarriscono, vanificandone ogni gesto che pare affettuoso, e s'intuisce malato, falso, perso nel buio del potere dovuto alla ferocia, alla paura e all'intrallazzo, dissoluto nella grettezza del malaffare. Alla quale corrispondono i grigi dei complici, dei conniventi, dei terrorizzati, e le sagome gelatinose dei manutengoli, dei venduti, delle spie - sagome di marionette alle quali s'oppongono, malgrado lo strazio dei corpi, quelle sagome bianche, evidenziate da un tratto di matita rossastra, che sulla mappa alle pp. 30-1 sorgono sulla località "Capàci", a illustrare una delle buie notti della Repubblica - e sottolineato c'è pure il toponimo "Cìnisi", a testimoniare che la mala pianta non dà per forza frutti avvelenati. Difatti: la penultima tavola di questo amaro e dolce libretto raffigura una panca di legno. Quelli della mia generazione (sono del '63) ne han viste di simili negli uffici pubblici: questa, s'intuisce, è nella stazione dei carabinieri. D'un pizzo c'è Sergio, come intontito nell'espressione di chi non sa cosa andrà a succedere. Dall'altro, un giovane indiano, in jeans e maglietta: che pare, in tutto e per tutto, il suo fratello maggiore. La via che il bambino prenderà.
Ecco: qui, con voi pochi o tanti Lettori, ho compiuto il mio infimo dovere di cittadino, di patriota. Ho reso omaggio ai bambini che il cancro mafioso avvelena, a chi combatte perché l'Italia del Sud torni ad essere solo la terra dove fioriscono i limoni. Ma verrei meno ad un dovere che sento più grande - sia pure di quei pochi centimetri cubici che le rette proporzioni della mia minuscola esistenza consentono - se non pensassi anche a quegli altri bambini: che tengono per la squadra sbagliata, forse solo perché, nella loro esperienza quotidiana, vedono che quelli rischiano e pagano (con la vita, magari)(**) per quel che fanno. E gli altri - in divisa, dietro una scrivania o su una poltrona, in doppiopetto - no. Perché fanno parte, ahimè, "della razza pregiata". (***)
(*) basta leggere il meno recente libro di don Milani (Esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1974) per rendersi conto che i primi "globalizzati" - anche sessuali - fummo noi;
(**) Come càpita anche a loro. Oggi, trentun dicembre 2006, il tg1 ha dato notizia della morte, nell'inseguimento dopo una rapina, d'un tredicenne. La natura accidentale della morte, o, spero, qualche poca sensibilità, ha evitato l'impiego, nel commento alle immagini, della locuzione "baby-delinquente";
(***) "Il sesto ragazzo nuovo è Pierino del dottore. (...) Già segnato anche lui, ma questa volta col marchio della razza pregiata". In Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1985, p.40.
di Giulio Lascàris
Muto, il protagonista di questa storia si chiama perché è meglio. Non ha più i genitori. A lui pensa lo zio Totò. Il padrone della discarica - e di molte altre cose. Totò è uno degli zii che i ragazzini come lui incontrano spesso. Se sono molto fortunati, vogliono solo il loro corpo, sdraiato su un letto - e almeno sono quelli che pagano di più e pretendono di meno. Se sono abbastanza fortunati, il corpo lo vogliono dieci, dodici ore al giorno, imbullettato a una macchina, a un piccone, a un aratro - è la globalizzazione, baby! (*) Dalla quale si esce mezzi ciechi, storpi, mutilati, con i polmoni incretati dalla silicosi, o mangiati dall'acido delle tinture. O morti. Se poi i cìnni non sono così fortunati, incontrano gli zii che oltre al corpo vogliono l'anima: che li vogliono come loro. Ma tutti questi hanno una cosa in comune con zio Totò. A nessuno piace che i picciottèddi vadano in giro a raccontare quel che vedono.
Allora, Mutomonnezza s'adegua. Guarda. E basta. Guarda, con i suoi occhi colore dell'acqua, spalancati nella penombra. Perché le cose che sa, le deve bisbigliare allo zio - ad esempio, chi frequenta la caserma dei carabinieri. Allo zio deve refertare: lo zio che ogni tanto lo lascia libero. Libero di andarsene alla discarica. Che non è sempre stato un monnezzaro. Prima, era la terra del padre di Muto - che si chiamava Sergio, allora. E quella terra, dove lui può chiudere gli occhi celesti e dove adesso pascolano i gabbiani, era una vigna - la loro vigna. E c'era una casa - la loro casa. Poi, un giorno, suo padre e zio Totò discussero. Su chi era il proprietario di quelle cose. E poi suo papà andò dai carabinieri. E poi lui e sua mamma scomparvero. E la casa bruciò. E Muto andò a stare dallo zio. Che aveva tanta gente intorno: che lo riveriva, che gli chiedeva favori, che lo temeva, che si muoveva o chetava ogni volta che lo zio scuoteva o lasciava i fili invisibili che li tenevano legati. E lui, quando poteva, scappava alla discarica. A guardare i gabbiani: a sognare gli indiani. Gli indiani la casa se la costruiscono, non la rubano agli altri. Il bisonte, lo cacciano per la loro famiglia, non lo tolgono ai vicini. E se devono ammazzare qualcuno, lo fanno loro. Non mandano qualcun altro.
Poi, un giorno, a casa di suo zio vennero i carabinieri - con gli archi e con le frecce. E ne diedero anche a lui. Che ricominciò a chiamarsi Sergio. E ad aprire gli occhi. E a vedere che l'onore d'un uomo è la propria capacità d'essere libero - che niente, nemmeno la morte, può togliere.
Questa, è la storia. Bella, la sua realizzazione: Marta Tonin l'ha illustrata ricorrendo ad una grafìa in cui le (poche) parole del testo trovano perfetta adesione, oltre che al senso, al non detto che la narrazione solo suggerisce - spesso la campitura dell'intera pagina ha una breve cornice continua, come fotogrammi di pellicola, che ne interrompono la magniloquenza ingannevole per rivelare con ogni necessaria, chirurgica crudezza il bastione della realtà. Lo zio è un'immensa ombra nera, alla quale i colori gioiosi del piccolo protagonista - solari quanto quelli della terra, dell'aria, dei gabbiani, delle piante, delle nuvole - fanno da contrappunto, e insieme in quella nerezza cupa e cupida si smarriscono, vanificandone ogni gesto che pare affettuoso, e s'intuisce malato, falso, perso nel buio del potere dovuto alla ferocia, alla paura e all'intrallazzo, dissoluto nella grettezza del malaffare. Alla quale corrispondono i grigi dei complici, dei conniventi, dei terrorizzati, e le sagome gelatinose dei manutengoli, dei venduti, delle spie - sagome di marionette alle quali s'oppongono, malgrado lo strazio dei corpi, quelle sagome bianche, evidenziate da un tratto di matita rossastra, che sulla mappa alle pp. 30-1 sorgono sulla località "Capàci", a illustrare una delle buie notti della Repubblica - e sottolineato c'è pure il toponimo "Cìnisi", a testimoniare che la mala pianta non dà per forza frutti avvelenati. Difatti: la penultima tavola di questo amaro e dolce libretto raffigura una panca di legno. Quelli della mia generazione (sono del '63) ne han viste di simili negli uffici pubblici: questa, s'intuisce, è nella stazione dei carabinieri. D'un pizzo c'è Sergio, come intontito nell'espressione di chi non sa cosa andrà a succedere. Dall'altro, un giovane indiano, in jeans e maglietta: che pare, in tutto e per tutto, il suo fratello maggiore. La via che il bambino prenderà.
Ecco: qui, con voi pochi o tanti Lettori, ho compiuto il mio infimo dovere di cittadino, di patriota. Ho reso omaggio ai bambini che il cancro mafioso avvelena, a chi combatte perché l'Italia del Sud torni ad essere solo la terra dove fioriscono i limoni. Ma verrei meno ad un dovere che sento più grande - sia pure di quei pochi centimetri cubici che le rette proporzioni della mia minuscola esistenza consentono - se non pensassi anche a quegli altri bambini: che tengono per la squadra sbagliata, forse solo perché, nella loro esperienza quotidiana, vedono che quelli rischiano e pagano (con la vita, magari)(**) per quel che fanno. E gli altri - in divisa, dietro una scrivania o su una poltrona, in doppiopetto - no. Perché fanno parte, ahimè, "della razza pregiata". (***)
(*) basta leggere il meno recente libro di don Milani (Esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1974) per rendersi conto che i primi "globalizzati" - anche sessuali - fummo noi;
(**) Come càpita anche a loro. Oggi, trentun dicembre 2006, il tg1 ha dato notizia della morte, nell'inseguimento dopo una rapina, d'un tredicenne. La natura accidentale della morte, o, spero, qualche poca sensibilità, ha evitato l'impiego, nel commento alle immagini, della locuzione "baby-delinquente";
(***) "Il sesto ragazzo nuovo è Pierino del dottore. (...) Già segnato anche lui, ma questa volta col marchio della razza pregiata". In Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1985, p.40.
di Giulio Lascàris
CERCA
NEWS
-
12.11.2024
La nave di Teseo.
Settembre nero. -
12.11.2024
Tommaso Pincio
Panorama. -
4.11.2024
Alessandro Barbero
Edizioni Effedi. La voglia dei cazzi.
RECENSIONI
-
Han Kang
La vegetariana
-
Han Kang
Atti umani
-
Giuliano Pavone
Per diventare Eduardo
ATTUALITA'
-
Ettore Maggi
La grammatica della Geopolitica.
-
marco minicangeli
CAOS COSMICO
-
La redazione
Trofeo Rill. I risultati.
CLASSICI
CINEMA E MUSICA
-
Marco Minicangeli
La gita scolastica
-
Marco Minicangeli
Juniper - Un bicchiere di gin
-
Lorenzo Lombardi
IL NERD, IL CINEFILO E IL MEGADIRETTORE GENERALE
RACCONTI
-
Fiorella Malchiodi Albedi
Ad essere infelici sono buoni tutti.
-
Roberto Saporito
30 Ottobre
-
Marco Beretti
Tonino l'ubriacone