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CINEMA E MUSICA

Adriano Angelini Sut

Moby si riconferma re dell'elettro-pop, il suo 'Destroyed' incanta come ai vecchi tempi.

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Di cilecche ne aveva fatte un paio negli ultimi tempi. Infatti, sia il precedente album Wait for me che quello ancora prima, Last night, avevano lasciato un po' l'amaro in bocca. Richard Melville Hall (che bello essere discendenti, come lui, del grande scrittore americano Herman), aveva conquistato per l'ultima volta il mondo con 'Lift me up', lo strepitoso singolo tratto dall'album Hotel del 2005, con cui aveva venduto due milioni di copie ottenendo il disco di platino. Eccolo tornare. Più furetto che mai. Con il suo decimo album in studio, Destroyed. Col titolo che vuol essere un buffo omaggio a un cartello dell'aeroporto La Guardia di New York su cui c'era scritto "unattended luggage will be destroyed" (i bagagli incustoditi saranno distrutti). Eccolo tornare a livelli davvero elevati. Da sognatore quale era stato con i sontuosi album 18 e Ambient. Eccolo ricreare atmosfere bellissime, rarefatte, eccentriche e tristi. I primi tre pezzi sono delle vere gemme. 'The broken places', 'Be the one' e soprattutto la devastante 'Sevastopol'. Quest'ultima sembra uscita appunto da un Moby d'annata, frizzante, che guadagna melodia e un irresistibile beat in un crescendo enfatico ed elegiaco. La quarta ci rasserena con la splendida voce di Emily Zuzik, 'The low hum', tastiere ed effetti spaziali, cantato suadente e malinconico. L'album, a detta di Moby, è una specie di colonna sonora per gente che sosta sveglia negli alberghi del mondo alle due di notte. L'idea ci sta tutta. Rockets ti trascina lì dove anche Brian Eno in Music for Airport aveva provato. In quell'oltre notturno che ha il pregio di regalarci l'intuizione di una magia che ci governa, consapevoli o no, tutti. Poi viene il singoletto, 'The day', tanto Moby che si autocita e poca originalità. Ma un fiocco di neve non fa l'inverno. Se si salta pure 'Lion in darkness' (melodiosa ma troppo stereotipo Moby) e si arriva a 'Victoria Lucas' torna decisamente l'estate. Di quelle belle e soleggiate, con riff di tastiera che hai già sentito e che dopo un po' ti trascina a ballare sulla sabbia. E poi arriva 'After', una cavalcata elettro pop imponente e un loop di voce synth tormentone e per certi versi ossessiva. 'Blue Moon' si trascina via leggera e iper anni'80 (ricordate i Visage di 'Fade to grey'?). Ma è con 'The right thing' che l'album fa un'impennata vertiginosa. Ancora la voce di Zuzik a dipingere di bellezza e armonia una base elegante, ariosa, per certi versi quasi un canto soul su un tappeto di cristalli sintetici. Deliziosa. Onirica. Un hit da altri milioni di copie, potrei giurarci. Finale di basso simil funky. Da qui si sale in cielo, in un cantato mistico e celebrativo. Una messa. 'Stella Maris'. Straziante. Acuti su suoni d'archi. Un diversivo assolutamente geniale. Si può piangere. Ancora un inno, solenne, trascinante, imprevedibile. ''The violent bear it away'. Tutta strumentale. Un piano e degli archi che scherzano a gironzolare ognuno per i fatti suoi. Altra perla, altro grazie al Melville della musica. Ma l'ipnosi non ha fine. 'Lacrimae' (durata 8.05) semplicemente straziante. C'è tutto in questa summa mobyana. Gli inizi lenti, le tastierine, gli effetti, i crescendo, l'enfasi, le cavalcate, la dance, l'eleganza di una visione notturna in un albergo, appunto, minimalista. New York. La solitudine e l'allegria. La baldanza. La grazia. Si chiude (peccato!) con 'When you are old'. Ancora synth volanti, tappeti di pop psichedelico stirato. Un leggero addio, lentissimo, forse per risvegliarsi all'alba da una notte insonne e vivo. O forse no, dentro il sogno del furetto newyorkese, meglio di Harlem.



Moby

Destroyed

Little Idiot 2011





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