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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Andrea Pezzi

Mondi nuovi

Halley editrice, Pag. 123 Euro 13,00
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Ammiro Andrea Pezzi - il personaggio, ovvio: non conosco la persona - per una ragione che Paolo Crepet definirebbe "banale, ma efficace": giovane, molto giovane, è uno dei due (l'altro è Massimo Coppola) che si sono imposti con modi espressivi originali e complessi, "avanguardistici", senza tuttavia perdere la capacità di renderli in spettacoli di buon successo - il succo sarebbe: ci sono e lo fanno. Non senza cadute: chi scrive, ricorda puntate di Sushi dopo le quali leggeva un capitolo della Scienza della logica, perché prima di andare a letto bisogna distendersi con qualcosa di leggero; e riconosce a Il tornasole il singolare primato d'essere la prima trasmissione tv al mondo ad aver ospitato una percentuale di Oronzi mai inferiore all'ottanta per cento. Il V.ro Aff.mo non avrebbe saputo dar più metodo alla follia.

Così, recato alle stampe in Matelica (MC) questo suo "diario figurato", o "script", d'un percorso in Russia e in Cina, ne ho avuto subito interesse. Per assonanza col Marx di Russia, India e Cina. Per curiosità e rispetto sinceri verso il Nostro. E per saperne di più: le poche cose che so di quei Paesi - a parte l'armamentario strumentale che può aver lambito un adolescente (nel Settantasette!) di famiglia veterocomunista e però lettore onnivoro, e guardone (La locanda della sesta felicità) - vengono da Tiziano Terzani (devo citare qualche titolo?) e dalla sua signora, più varie ed eventuali.

Risultato dell'incursione nel Pezzi-pensiero? Deludente ed esaltante. Nello stesso istante, nella stessa istanza (un'istanza tutta per sé), nel loro concatenarsi. Esempio: Terzani (non mi viene di scrivere "il fu" - se non (perdonino gli Dèi se non conviene) con la spiazzante allegria del "Fu Cimìn" di Totò ne I soliti ignoti) sosteneva che India e Cina tentarono, con sforzi ciclopici e catastrofi immani, vie alternative all'Abendsland. Nel rapido scrivere di Pezzi c'è una eco di quest'orgogliosa, altezzosa alterità autorevole: che sarebbe ammirevole e suasiva, se non venisse espressa come esaltazione dell'autorità, dell'ordine, della disciplina, tenendo la "democrazia" come "ipotesi" (p. 73) - con i feroci accenti d'un intervistato cinese che dichiara "un solo popolo un solo interesse un solo partito", (p. 77: la memoria va allo slogan nazifascista "un popolo, uno stato, un duce"). E un russo parla (p. 55) di Mosca come della "Terza Roma" - suffit avec! E però! - interviene un "moderno": faticàmmo a elaborare un "pensiero della differenza", e se ne incontriamo una (che ci spiaccia, ci spiazzi, ci spezzi, o meno), ci prude la culatta? Ma viene la recensione pasoliniana (signora mia!) delle lettere di don Milani alla madre: "la libertà sentita come costrizione è una contraddizione in termini", (cfr. Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 428). Allora il cronista si rivolta, e rivendica; questo si dice e si pensa (o almeno, taluni pensano e dicono) nell'Estasia d'oggi: bisognava censurare, adattare, troncare e sopire? Insorge il "liberal" che è in noi: ma davvero nella zolla più vasta, antica, colta, raffinata e popolosa del mondo (solo la Russia, è la sesta parte della terra!) questo si pensa? Davvero si crede che "bisogna organizzare e occupare il tempo dei bambini. E' giusto che la disciplina sia dappertutto"? (p. 43) Non è, cotesta, fons et origo di ogni catechismo e cioè plagio? Risponde il lettore di Robert Hughes: ma se ne La cultura del piagnisteo (Adelphi, Milano 1994, pp. 118-120) v'ha tutt'un peana all'educazione d'una volta, che tutto il tempo de' bàmboli occupava - moltiplicando pensi, compiti, corvè ("an idle hand is the devil's workshop") - cosa rimproveriamo agli sciti e ai cataìti? E però lo storico australiano, alla sua pagina centoventisei, ricorda che "il maoismo non può essere compreso se non come ricomparsa, in veste marxista, dell'arcaico culto cinese per l'immutabile imperatore-dio". E Federico Zeri, da qualche parte che non ricordo per non appesantire la rubrica, sosteneva con buoni motivi che la figura di Stalin era da ricondurre all'iconografia bizantina. Torniamo così alla cultura "altra", "alternativa", di quei paesi - e il cerchio si chiude, ricordando quel che Gaetano Arfé notava della scuola di Barbiana: che era una comunità né democratica né antidemocratica, per la quale dunque valevano regole e valori che non avevano nulla a che fare con quelli delle comuni laiche. Così come - parafrasando il Quine del "gavagai" - diverse culture hanno un fondo intraducibile e incommensurabile (Savinio: abituiamoci a far convivere le culture più disparate e disperate).

Fin qui, tutto scorre. Ma trovo a p. 11 "mentre noi in Europa perdiamo tempo a discutere di come garantirci un posto fisso, le vacanze, l'asilo nido sul posto di lavoro... (...) loro (i cinesi, nota mia) pensano a lavorare, trovano la dignità nel lavorare per il loro paese e la loro famiglia, dormono sul posto di lavoro, si riproducono sul posto di lavoro, obbediscono e vivono la vita con un senso della disciplina e del pragmatismo che per un italiano è raramente concepibile"; e a p. 14 "in Russia ho ritrovato quella passione intellettuale e quella vivacità che la cultura istituzionalizzata in Italia mi aveva fatto dimenticare". Leggendo queste righe che sclerotizzano il fluido concettuale descritto più sopra, mi viene un sospetto: ma Andrea Pezzi, c'è, o ci fa?



di Marco Lanzòl


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