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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Gino Bianchi

Nel parco

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Cielo terso, aria di quiete, i fiori sul balcone: gialli, viola, colorati come un carnevale. Gli uccelli che trillano volteggiando sopra i tetti, il sole che torna a splendere, Maggio. Il mese perfetto, a metà strada tra il troppo dell'estate e il nulla dell'inverno; il mese della rinascita, delle serate all'aperto, dei vestiti leggeri, della voglia di risvegliarsi dopo il lungo letargo. Maggio è un invito, una promessa, un nuovo inizio sempre migliore, sempre carico di speranza; è il mio mese preferito. Si torna attivi a Maggio, si ha voglia di fare, di rinnovarsi: si svuota il guardaroba dai maglioni e dalle giacche pesanti per fare spazio alle magliettine colorate e ai pantaloni di lino, si spostano i mobili per le grandi pulizie, per portare una ventata di fresco anche tra le quattro mura domestiche in modo che anche nel rifugio si goda del piacere del calore. La gente ha facce nuove, più distese e serene, ha voglia di vivere, di godere delle nuove energie che scorrono dentro senza che te ne accorga; si torna nei parchi, si pensa all'estate incombente d'avventure e imprevisti, d'incontri e d'addii. Vado nel parco e mi tuffo nella voglia di bellezza che pervade tutti in questo periodo, la voglia di stare bene: i cani che vagano randagi tra i castagni, sordi al richiamo dei padroni; giovani donne che spingono i passeggini sotto il sole, i bambini chiassosi al bordo del laghetto che gettano molliche alle anatre pigre, i giovani che fanno sega a scuola per imparare l'amore all'ombra delle fronde, le schiene scoperte, appena appena con un ombra di melanina frutto dei pomeriggi stesi sul prato. Io qui ci venivo a correre una volta, tutte le mattine dieci chilometri per rimettermi in sesto, per perdermi nei sentieri ombrosi tenendo un ritmo costante e lasciare la testa vagare in tutte le direzioni senza una meta. Un passo alla volta, guardando fisso davanti alla punta dei piedi mai più in là, sentire il sangue che affluisce irruente, i muscoli che si gonfiano sotto sforzo, il sudore che cola sulle tempie a testimoniare lo spurgo dei malumori, delle cattive serate, delle esagerazioni che gonfiano il fegato. Ci venivo tempo fa, prima di essere lasciato dal mio piede lungo la salita che si perde tra i pini, il tratto più duro della mia corsa, dove dovevo stringere i denti per arrivare in cima. Lo facevo tutti i giorni quel pezzo di salita, fuori del circuito tradizionale dove gli atri salutisti non vanno: mi dava piacere lo sforzo estremo, mi faceva sentire vincente lo spingere fino in fondo per raggiungere la meta, lassù in cima dove non c'è nessuno. Quel giorno correvo come sempre ad un ritmo costante, la strada la conoscevo alla perfezione: una crepa sulla sinistra da evitare, la radice un po' più avanti che ci inciampi quindi meglio prenderla di lato, i sassi più grandi nel centro del sentiero da evitare se non vuoi prendere una distorsione. Tutto quel tratto lo facevo sempre seguendo la stessa traiettoria, la più liscia e sicura. Quanto tempo è passato? Non lo ricordo più, mi sembra quasi impossibile eppure ora non corro, posso solo venire qua a passeggiare con il mio piede di metallo e fili, ricoperto di lattice. Certo cammino ma non è la stessa cosa: ero affezionato al mio piede, quello vero, così sensibile e delicato, così bisognoso di cure. Ora questo pezzo di metallo ha preso il suo posto e funziona bene, non lo nego, è ben calibrato, le articolazioni si piegano bene come quello vero, ma è inerte, non ha vita, non ha emozioni. Mi manca il prurito sotto la pianta, le unghie che crescono dure, i duroni da limare, le scarpe da scegliere comode...... Mi ritrovai con la faccia nella polvere all'improvviso, senza alcun segnale d'avvertimento; stavo percorrendo la salita per la terza volta, sicuro che tutto filasse liscio, niente affanno, niente gambe indolenzite, nessun dolore. All'improvviso persi l'equilibrio, come se mi avessero tirato via la terra da sotto i piedi: una vertigine, un baratro spalancato davanti a me e alla fine giù, a baciare il suolo. Confuso mi guardai in torno per capire cosa fosse successo, dove avevo inciampato su quella strada che conoscevo così bene e quando provai a rialzarmi mi accorsi di non avere più il piede destro: solo un moncherino che si fermava alla caviglia e nessuna traccia del piede. Saltellando tornai in basso per vedere se il mio arto fosse scivolato giù tranciato da qualche trappola inaspettata e insospettata, ma non ce ne era traccia. Trovai brandelli della tomaia, il calzino impolverato appeso ad un ramo, ma del mio piede niente, neanche l'ombra. Non mi diedi pace e saltellando più rapidamente arrancai fino alla sponda del laghetto appena in tempo per vederlo tuffarsi nell'acqua e sparire alla vista. Basito, rimasi lì in attesa che riemergesse ma fu tutto inutile, se ne era andato senza un motivo, senza contrattare il suo addio; scelse il modo più vigliacco per farlo, nel bel mezzo della salita, quando avevo più bisogno di lui. Rimasi in attesa per ore, cercando in tutti i modi di farlo ragionare: urlai spaventando i cigni che covavano, le tartarughe si tuffarono in acqua traumatizzate dall'urlo e sparirono alla vista ma lui rimase nascosto scegliendo la libertà. Da allora torno tutti i giorni al laghetto, nella speranza di rivederlo, per sapere come sta, come si sente a rimanere scalzo e bagnato, sempre all'addiaccio, per vedere com'è diventato con una vita così selvaggia, senza nessuno che si prenda cura di lui, che lo massaggi quando è indolenzito, che lo gratti quando prude, tagli le unghie spesse, ammorbidisca i calli. Oddio, sono tutte cose che farei ora, ora che sono stato abbandonato. Prima, quando se ne stava lì, attaccato alla caviglia, al suo posto, dove è stato progettato per stare, non ho mai pensato che avesse bisogno di cure, che fosse stato necessario fargli capire che a lui ci tenevo, d'altronde neanche lui ha mai fatto molto per farsi amare. Anzi, a ben pensarci ora che se n'è andato capisco che il nostro non è mai stato un rapporto idilliaco; io perlomeno ho sempre dato per scontato che lui dovesse essere lì, al mio servizio, a mia piena disposizione. Lui dal suo canto ha sempre mostrato una certa ritrosia a fare il proprio lavoro come si deve, come avrebbe dovuto. Fin da piccolo ha sempre dato problemi: avevo quattro anni quando, per colpa della sua ritrosia, del suo voler andare per conto suo, contro ogni regola, mi costrinse alle scarpette correttive. Aveva la tendenza a convergere verso il centro, a non andare in parallelo con il suo gemello di sinistra, anzi, sembrava sempre volergli intralciare la strada, porsi di traverso per farlo inciampare. Così i miei genitori furono costretti a ricorrere ai metodi duri: una visita ortopedica, radiografie, analisi e poi la decisione irrevocabile del medico di fare ricorso alle scarpette terapeutiche. Lo odiai: a scuola ero lo zimbello di tutti a causa sua, per colpa di quelle scarpe così brutte, massicce e scomode che mi costringevano a camminare come un automa. A ripensarci ora che lui ha preso la sua strada, mi rendo conto che non siamo mai stati bene insieme: è sempre stato motivo d'imbarazzo per me, poi si sa i bambini certe cose se le legano al dito, hanno memoria lunga...la storia delle scarpe ortopediche è durata anni, anni di sofferenza ed umiliazioni, di vergogna. Non potevo mai giocare a calcio con gli altri, mi escludevano sempre, anche nelle partitelle in cortile due contro due, perché il mio piede sbilenco intralciava il gioco, faceva cose che non doveva fare. Ad esempio, se c'era da tirare una punizione, io non potevo mai farlo, perché non si sapeva mai dove potesse andare a finire la palla. Io miravo alla porta, prendevo una bella rincorsa, calciavo, ma il pallone prendeva strani effetti e finiva sempre lontano. Così facendo mi metteva nei guai, perché quando la palla finiva nella macchia, o sotto la scarpata, vicino i binari del treno, toccava a me andarla a riprendere. Alla fine si è adattato, ha capito che doveva obbedire ed essermi fedele. Raggiunti i quindici anni mi sono ritrovato con il piede disciplinato: aveva smesso di intralciare il gemello, di comportarsi da anarchico irriverente e capriccioso. Pensavo che tra noi fosse nato un certo feeling, ci fosse comprensione e unione d'intenti, finalmente in grado di collaborare per gli stessi obiettivi; invece... Forse dei segnali c'erano stati, ma non li ho capiti; ad esempio negli ultimi tempi, prima che se ne andasse, non si adattava più alle scarpe. Qualsiasi tipo di scarpa indossassi la sentivo scomoda, troppo stretta. La sera trovavo il piede gonfio e indolenzito, quasi piagato laddove le cuciture della tomaia erano più spesse. E poi i calzini, sempre bucati, lacerati sulla punta: colpa di quell'unghia dell'alluce che cresceva in modo smisurato, tanto da costringermi a tagliarla sempre più spesso, quasi ogni mattina, per poi ritrovarla la sera di nuovo lunga e dura. Ma non credevo che si arrivasse a tanto, ad una separazione così traumatica e inspiegabile: avremmo potuto parlarne, contrattare un accordo, una soluzione pacifica. Invece è fuggito come un vigliacco, senza dare spiegazioni, mi ha piantato in asso come se fossi uno sconosciuto, disconoscendo i trent'anni passati insieme, senza capire che con la sua fuga non sarei stato più lo stesso. Questo avvenimento mi ha cambiato, mi ha spinto ad essere più attento, a non sottovalutare i messaggi che il corpo mi manda. Sto sempre all'erta perché non voglio risvegliarmi un giorno e scoprire che altre parti di me se ne sono andate, lasciandomi con quella sensazione d'ignoranza, di estraneità a me stesso. Ora sono preoccupato per il mio braccio sinistro: in apparenza sembra non ci sia niente fuori posto, risponde prontamente agli ordini, è sempre disciplinato e reattivo, eppure c'è qualcosa che mi turba. Sento che è diverso dal braccio destro: è meno forte, meno tonico, a volte ho la sensazione che non sia mio, che si trovi lì per caso, come un qualcosa di posticcio, di estraneo. E se se ne andasse anche lui? Se un giorno di punto in bianco decidesse anche lui di mollarmi? Già una volta ho ignorato dei segnali e tutti sappiamo come è finita: un capitombolo, la sostituzione con un arto artificiale... e se anche il mio braccio fosse stanco di me e decidesse di vivere solo, isolato dal resto del corpo? Qualcuno dirà che posso sostituire anche lui con un arto d'acciaio, ma poi a quel punto che ne sarebbe di me? E se altri organi prendessero la stessa strada? Penso al fegato, che ogni tanto s'impigrisce, o al mio stomaco, sempre più spesso rigurgitante bile, scosso da conati di acidità che arrivano fino in gola. Se tutti loro se ne andassero, alla fine, chi sarei io? Sarei la stessa persona? Avrei gli stessi desideri e le stesse necessità che ho oggi? Potrei ancora guardarmi allo specchio e riconoscermi? ormai vivo con questa paura, con l'ansia che mi assale ad ogni movimento, ad ogni sussulto: ora sto attento a qualsiasi cosa faccia per non infastidire i miei organi. faccio la manicure una volta a settimana, uso creme idratanti, ammorbidenti ed emollienti; mi guardo dal fare attività pericolose come affettare pane o prosciutto, visto mai che mi sfugga la lama e dovessi tagliarmi, già mi immagino di svegliarmi una mattina e non trovare più un dito o magari l'intera mano, magari proprio la destra! uso Pantene e Minoxidil per i capelli, li lavo anche tre volte al giorno, perché anche loro non cerchino la fuga, non decidano di piantare grane e mollarmi. Vivo come uno schiavo ormai, in perenne balia dei moti del mio corpo, delle esigenze e rimostranze di ogni singolo organo, sopraffatto da medicinali, creme, shampoo, balsami, unguenti, lozioni, cere, sciroppi, colluttori, colliri, miscele, tisane. avessi fatto prima tutto ciò, immagino che io e il mio piede saremmo ancora insieme, e ci ameremmo anche, avremmo cura e rispetto l'uno dell'altro. Ma so che ormai non mi vuole più, che tra noi è tutto finito. Torno spesso a cercarlo, qui nel parco, percorro tutto il lago fissando tra i cespugli, ma si è sempre nascosto alla mia vista, capisco che mi rifiuta completamente, non sono più nulla per lui, non abbiamo niente in comune ormai: ha scelto di vivere in modo diverso, selvaggio e aggressivo, restio a tutte le regole. Le mie passeggiate malinconiche ora sono un'inutile cerimonia che ripercorre i passi del nostro ultimo giorno insieme senza che il mio arto d'acciaio se ne risenta, lui è insensibile a tutto, non ha vita.





Gino Bianchi



Nato a Roma nel 1973.

Laureato in lettere, è dal 2003 membro della onlus 'Fotografi Senza Frontiere'. Ha realizzato diversi documentari e reportages con il regista Sergio Lo Cascio e il fotografo Giorgio Palmera.





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