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Il Paradiso degli Orchi
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DE FALSU CREDITU

Goffredo Popi

Non son legno di te

Architrave Editore, Pag. 212 Euro 14,80
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Si aveva consuetudine, sul far della sera, prima ancor di riposar le stanche membra, addurre i pochi a suggerir di motti, a celiare, quasi come sborniati e assai rilenti. Poi quando piombava il nero e tutt'attorno ancor friniva, ma non rilucean i raggi caldi dell'astro sol, ci si rinchiudeva in fila come bestie, passo dopo passo, quasi marziale, chiamati dagli appelli, chi di madri, chi di mogli, chi di sorelle.

Popi - prima ancora di scrivere, dipinge le sue scenografie, ma con un "elan" che richiama, senz'ombra di dubbi, l'arte contadina di Federigo Tozzi e gli slanci onirici di Silvio D'Arzo - riversa sulla storia la propria panoramica impressionista.

Il taglio è di stile ancor più antico dei suoi modelli di riferimento, ma volutamente: sembra chinarsi, nell'incedere, ad un'autorità ancora più remota, senza far mancare l'aggancio al suo presente.

Popi nasce ad Arezzo nel 1856. Giovanissimo, insieme alla famiglia, si trasferisce nella tenuta del Conte Zangotti, proprietario terriero e produttore vinicolo. Il padre, umile ed infaticabile fattore, provvederà alle necessità dei suoi pagando però a caro prezzo il suo giornaliero e massacrante impegno. Morirà a quarantadue anni di tisi.

Goffredo, ormai capo-famiglia, pur conservando un rapporto solidale col Conte, svilupperà bisogni propri ed impellenti. Sono infatti del 1873, pochi mesi dopo la morte del genitore, i primi racconti (ritrovati tra le sue carte nel venticinquennale della sua scomparsa), già sorta di sintesi delle tematiche che svilupperà nel futuro e che avranno come punto di forza e sorta di totem incrollabile, la tenuta Malipiero (chiamata così in onore del primogenito del Conte Zangotti morto dopo una rovinosa caduta da cavallo).

Non son legno di te (nel titolo già si scorge traccia dell'animismo dell'autore assertore anche di un proto-ecologismo che tutt'oggi fa la gioia dei lettori più attenti e "politicamente corretti") è una grande storia d'amore tra Roberto, il fattore della tenuta, e Liva (ebbene sì, non Livia, ma Liva, senza la "i", d'indecifrabile origine onomastica), destinata però, quasi per una sorta di ossequio a canoni romantici, ad una rovina prevedibile e lancinante.

Il richiamo del titolo, che fa pari con la frase che chiude definitivamente il legame dei due: gli occhi tuoi non vedono quel che il cuore non può suggerire (evidente richiamo questo al sonetto XXIV di Shakespeare: Però all'arte dell'occhio manca la miglior grazia: Ritrae quello che vede, ma non conosce il cuore) è anche un inno alla caducità dei sentimenti che nemmeno quando apparentemente sembrano saldi come querce, resistono alle intemperie e agli assalti delle violenze più subdole.

Goffredo Popi va riscoperto: non solo per la grazie limpida, quasi acquorea, della sua prosa e dei suoi rimandi (come non rimanere affascinati di fronte ad un passo come questo: dolean gli occhi, come giunture oppresse da cammin forzoso e mai accettato, come uomini razziati dal giogo della legge e poi disgiunti. Dolean gli occhi e le farfalle, nei campi e pei sentieri, a far frescura, col battito e la grazia del percorso – pag.88), ma anche per un, sembra paradossale, richiamo alla modernità.

Soprattutto nei romanzi successivi a questo, penso in primis a Nettezza, vi è un rincorrer di fremiti che porteranno Popi financo ad amoreggiar col futurismo.

Figura dunque appassionante ed originale. A noi non resta che assaporare questa vicenda apparentemente datata ed anacronistica, in realtà germoglio di sviluppi ancor più saporiti.

Chi mai può sottrarsi ad una storia d'amore tanto amara, ma di limpida consapevolezza, come segno ulteriore di un'attualità autentica?





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