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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Maria Luiza Marcílio

Orfani dei vivi

Città aperta, Pag. 103 Euro 11,00
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A volte sembra di sapere tutto di una situazione, di un problema, di una condizione umana. Chi, sentendo nominare il Brasile, non penserà ai bambini abbandonati, i bambini di strada? Qualcuno, forte dell'ultima inchiesta o della recente campagna per le adozioni a distanza (o similari), si spingerà a sfoggiare una certa competenza linguistica, chiamandoli "meninos de rua". E anche a esibire un minimo sapere sociologico sulle cause dell'abbandono: è la povertà, è il degrado della famiglia, è il capitalismo della "keen competititon" - secondo l'inclinazione politico-ideologica.

C'è, poi, chi di una condizione - nella fattispecie: dei bambini brasiliani - ne sa di più. Perché se ne occupa per scienza, oltre che per coscienza. Come l'Autrice di questo saggio storico - ella è fondatrice della scuola di demografia storica brasiliana, e attuale presidentessa della commissione dei diritti umani dell'università di São Paulo. Scritto nel quale si percorrono, con la brevità concessa dal dominio della materia, due secoli di storia dell'abbandono d'infanti in Brasile. (*) Cioè: questo libro racconta, diciamo così, il "prima". Come una società complessa - tanto da incrociare nella storia della sua formazione flussi diversi e opposti quanto l'eccessiva ricchezza (è l'ottavo paese industriale della Terra), la sterminata miseria, lo schiavismo, (**) la filantropia religiosa o "scientifica", lo "status" di colonia, di paese libero, di monarchia, di repubblica, di dittatura, fino all'attuale difficile ripresa democratica - ha affrontato e affronta l'evenienza dei bambini rifiutati.

Va subito detto che né i metodi né i risultati furono originali: il Brasile seguì, nella sua politica di assorbimento o compressione della devianza minorile, strategie ben collaudate altrove. Ad esempio, la "ruota degli esposti". Un marchingegno che consentiva alle famiglie, alle madri "colpevoli" (madamine della haute sedotte e abbandonate, o misere pluripare, o semplici prostitute), alle schiave usate dal padrone, alle vedove, ai tarati per morbo o eredità, di liberarsi della prole guasta o in sovrannumero - se povere -, o imbarazzante - se ricche - in modo anonimo. Non è infanticidio, ma poco ci manca: negli istituti la mortalità infantile raggiunge picchi dell'80/90% , (p. 99) perfettamente in linea con gli standard europei. Per conquistare la maglia nera, ci s'infiltra di tutto un po': le balie poco o nulla affidabili, l'affollamento delle case e la promiscuità coi malati affidati alle stesse, l'igiene a dir poco trascurata, il cibo scarso e qualitativamente discutibile, le tare che il bambino portava con sé (cagione del suo abbandono), gli antichi castighi, che provocavano ferite nuclei d'infezioni contro le quali v'erano - quando applicati - rimedi imperfetti come gli impiastri, o galenici come l'acido fenico di Lister o l'acqua del Deakin, e appunto lo stato premoderno della medicina (ricordiamo che ancora all'inizio del Novecento esistevano pochissime molecole attive davvero affidabili, e che, fino al Salvarsàn di Ehrlich, all' Eroina Bayer e ai sulfamidici di Domagk, erano perlopiù d'origine vegetale, quindi di produzione e purezza scarsa e variabile).

Ai sopravvissuti, bisogna dire, non va molto meglio. Se sono discoli, a dodici anni li arruolano in marina - un mozzo implume fa sempre comodo, tra uomini che non vedono donne per lunghi periodi. Gli altri maschietti, vanno a bottega, in vincoli che fan dire all'Autrice: "Si sfruttava il lavoro minorile senza nessuno scrupolo, d'accordo con la miglior coscienza borghese che si giustificava col fatto di star aiutando un piccolo abbandonato". (p. 79) E che però, dice lei, hanno il vantaggio, almeno, di creare "le condizioni per l'integrazione dell'esposto nella società". (ivi) Non voglio far polemica con Marcílio: solo, evidenziare come la comprensione delle strutture economiche imperanti sia doverosa, mentre tentare di afferrare il resto sia etichettato "sociologismo giustificazionista". Si scusa chi fonda la banca, non chi la sfonda.

Le femminucce non hanno destino migliore: anzi, la loro natura di piccole donne le espone - in una società machista - al meretricio. Per proteggerle, le istituzioni filantropiche le dotano, anche se, in alcuni casi, "la pezza è peggio der buçio": difatti, le fanciulle vengono impalmate da cacciatori di dote, spesso violenti e arraffoni. Inoltre, mentre i pischelli hanno una seppure vaga teoria della prassi del lavoro che faranno, le pischelle vengono lasciate a loro stesse, proprio dagli istituti che dovrebbero garantirne la professionalità. (cfr. cap. VI)

Ecco: l'ausilio datoci dal testo c'ha chiarito l'humus della moderna situazione che il Brasile prospetta ai suoi figli meno fortunati, percepiti come sovraccarico e non come opportunità - ma non è così nel mondo intero? Tanto che la prefatrice, Chiara Vangelista, ci pone un interrogativo: "i bambini di strada sfuggono al controllo delle istituzioni e della filantropia caritativa, costruendo fragili eppure complesse società parallele e tentando di creare, attraverso precarie reti di solidarietà interne ed escludenti, forme di protezione contro l'abbandono da parte della collettività". (p. 11) Come dire: visto che gli adulti se ne fottono di noi, o ci si fottono, oppure si interessano a noi solo quando gli conviene, contro o fuori delle loro regole noi inventiamo le nostre, senza supervisione e senza patrocinio. Il che, converrete, è pericoloso. Perché la nostra società basa il suo controllo sui devianti sul motto "gestire gli ignudi". (Lerici-Proietti) Ma se gli ignudi si gestiscono da soli, la società del controllo che fine fa?

Vàllo a sape'.



(*) Per saperne di più, fondamentale è la lettura di John Boswell, The kindness of strangers (Penguin, Harmondsworth, Middlesex England, 1988. Tr. it. L'abbandono dei bambini in Europa occidentale, Rizzoli, Milano 1991). La situazione italiana può dedursi da studi quali Maria Teresa Iannitto, La ruota della vergogna (Colonnese, Napoli 1999), oppure Volker Hunecke, I trovatelli di Milano (il Mulino, Bologna 1989). Un documento d'estremo interesse, relativo all'URSS dei primi anni, è Anton S. Makarenko, Poema pedagogico (Editori Riuniti, Roma 1977(8)) - tenendo naturalmente conto che non si tratta di uno studio rigoroso come i suddetti, ma d'una commossa ed entusiastica cronaca. Che risente anche dell'uso diffamatorio che del dramma dei "bambini randagi" nell'Unione si faceva all'estero;

(**) cfr. Roberto Marazzani, Quilombos (EDT, Torino 2003).



di Vera Barilla


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