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INTERVISTE

Paolo Cognetti

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E' una domanda che per noi è quasi un obbligo: cosa hai fatto prima dei tuoi esordi letterari?



Facevo quello che faccio ancora adesso: l'autore di documentari. A volte lavoro anche come montatore. Pubblicare un libro ti cambia la vita in tanti modi, ma non basta a sostenere l'economia domestica. E in fondo sono contento così, non vorrei scrivere per lavoro, sarebbe terribile l'idea di dover finire un libro per pagare le bollette.



"Una cosa piccola che sta per esplodere" parla unicamente dell'infanzia e dell'adolescenza. Perché una scelta del genere?



Il fatto è che ho un conto aperto - forse ce l'abbiamo tutti - con il me stesso ragazzo, pieno di desideri e senso di inadeguatezza, nutrito di miti romantici, disperato perché si sente invisibile agli occhi degli adulti e delle donne. Me lo ricordo bene, sembra ieri. E mi chiedo se davvero io abbia smesso di essere lui per diventare qualcun altro, e quanto l'uomo che sono oggi sia in debito con la sofferenza di allora. Ecco il punto: l'adolescenza è stata un momento fondante per la mia vita, quello che sono è cominciato lì, era necessario tornare indietro e raccontarla.



Del tuo precedente libro avevano scritto che si era "sfatata" l'idea che solo le donne potessero raccontar di donne. Come a dire che solo la lucida franchezza di un ragazzino può descrivere la propria infanzia?



Non lo so, non condivido quest'idea del diritto di raccontare. Scrivere narrativa è un processo di immedesimazione. O un'arte del mentire, che è un po' la stessa cosa. Ma in ogni caso è un lavoro simile a quello dell'attore, e usa gli stessi metodi: devi trovare la donna che vive dentro di te, o il bambino che è sopravvissuto, per poter scrivere con la voce di una donna o di un bambino. Se il cuore della storia che stai raccontando è pulsante - e lo è solo se quell'esperienza ti appartiene - allora non esistono limiti ai luoghi in cui puoi spingere l'immaginazione.



Nel tuo libro scrivi: La letteratura è diversa. E' la vita che non ha senso, mi capisci? La gente scrive delle storie per dargliene uno. Ma davvero è così?



Forse altri scrivono per altri motivi, e nemmeno per me finisce qui: c'è una lista infinita di risposte alla domanda sul perché scriviamo. Ma la mia scrittura non nasce dalla volontà di raccontare storie, quanto dall'esigenza di capire chi sono e come sono fatto. Scrivo per rimettere in ordine i miei ricordi e per fare luce suoi miei luoghi oscuri. Dare un senso alla mia vita, è proprio così: forse quella frase è la chiave di tutto il libro.



Come mai hai scelto finora unicamente la forma del racconto? Hai pensato ad un romanzo? Ci stai già lavorando?



Quando mi fanno questa domanda di solito mi imbufalisco. Pensami proprio con le narici fumanti e lo zoccolo che gratta nella polvere, pronto a caricare. Perché il sottinteso è che il racconto sia in qualche modo una forma minore di narrativa, un passatempo per scrittori affermati o un esercizio per esordienti, la stazione di transito prima di approdare al romanzo. Invece il racconto è una cosa diversa, che esiste per conto suo, con i suoi modelli e la sua storia. Giganti come Raymond Carver, Grace Paley, Alice Munro, in vita loro hanno scritto soltanto racconti. I lavori migliori di Cechov e di Hemingway erano racconti. E al di là del numero di pagine, io credo che la definizione migliore di racconto sia questa: una storia che si legge in una volta sola. Come succede con un film, una canzone, un quadro o una fotografia. In questo senso è il romanzo a essere anomalo, se ci pensi bene. Il racconto, per come lo vedo io, è narrativa nella sua forma più pura.



Cosa pensi di un lettore (anche se particolare) che ti dice di aver capito il senso ultimo di un tuo racconto alle sei e quarantacinque di mattina?



È difficile sentirsi capiti. Io per esempio, durante le interviste, passo il tempo a spiegare perché le donne, perché i racconti, perché non un romanzo - questioni lontanissime da quello che mi sta a cuore della scrittura (è un colpo basso, d'accordo: ma anche la domanda era una provocazione, o no?). Antonio Pascale, quel giorno lì, ha detto due o tre cose per cui mi sono sentito profondamente capito: avevo le lacrime agli occhi. E pensa che era la prima volta che ci vedevamo, non ci eravamo mai nemmeno parlati.



Ti hanno paragonato ad Alice Munro. Al di là di certi accostamenti quali sono le tue preferenze letterarie?



Davvero mi hanno paragonato a lei? Anche solo vedere scritti i nostri due nomi nella stessa pagina mi riempie d'orgoglio: in questo momento è la mia scrittrice preferita. In generale leggo libri di racconti, spesso di donne e quasi sempre di scrittori americani o canadesi. Un po' di nomi, oltre a quelli che ho già citato: Flannery O'Connor, John Cheever, Thom Jones, Annie Proulx. Tra i contemporanei Rick Moody. Ma è un elenco che si aggiorna continuamente, l'ultimo libro che ho messo nello scaffale dei capolavori è quello di Miranda July, Tu più di chiunque altro. E non mi interessa se è la mia casa editrice, e non dovrei dire questa cosa: gli scrittori americani pubblicati da minimum fax sono le fondamenta della mia libreria.



Angelo Guglielmi sull'Unità ha scritto che ti vedrebbe bene a lavorare come sceneggiatore. E' un sogno nel cassetto?



No, è un progetto accantonato. Dopo il liceo ho fatto una scuola di cinema, e ho scoperto che scrivere film è molto diverso dallo scrivere narrativa. Infatti non c'è nessuno che abbia fatto bene tutt'e due le cose. Adesso che conosco un po' meglio quel mestiere ti posso dire che non mi interessa: il mio unico sogno è scrivere racconti - ti potrà sembrare un'ambizione da poco, ma l'idea di cominciare una nuova storia mi getta ogni volta nel terrore.





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