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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Maura Chiulli

Per ingurgitare pezzi di me

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Il giorno nasce stanco quando

il mondo che ritrovi è quello che hai lasciato


Massimo Volume



Potevo percorrere con le dita la distanza, il confine pallido, ma profondo, che avevamo scavato tra i nostri corpi rigidi. Non c'era più il tocco lieve del calore quotidiano. Freddo, sentivamo gli arti intorpiditi e duri. Se mi avessero reciso le dita non avrei provato dolore. Ciò che importava adesso era scegliere. Resistere o partire? Chiudere gli occhi o cercare? Estranee, ci difendevamo con ostinazione dal desiderio. Non sentivamo le nostre voci, avevo persino dimenticato la forma perfetta dei suoi seni. Non m'importava percorrere i ricordi. Ero decisa a sopravvivere scordandomi di noi. La sofferenza era il mio unico nutrimento. Come avremmo potuto imparare a cedere il tormento in cambio della felicità?

Sapevamo che il giorno sarebbe rinato stanco. Dal primo sguardo capimmo che dopo l'ebbrezza, sarebbe arrivato il sonno. Attendevamo il momento per addormentarci e consegnare i nostri cuori all'incubo. Il vuoto emotivo rese la nostra unione un immenso buco nero, attraente e assassino. Galleggiare muniti di ossigeno e tute bianche nel mare inquinato dell' assenza. Era tutto quello che avevamo cercato. Esisteva una ragione sottesa all'atto, ma questa volta sarebbe stato impossibile trovarla nella limpidezza della coscienza. La malattia era scaturita quando io e lei ci eravamo esiliate dal nostro profondo luogo delle pulsioni. Avevamo cominciato negando i tratti più foschi di noi, presentandoci alla civiltà come donne perfette e appassionate. Ci attaccammo ad un'immagine falsa e immutabile di noi, dimenticando il veleno buono dell'inconscio, l'ardore sordo del battito. Pensavamo di proteggerci e ci siamo uccise.

Oltre ogni pavida volontà, oggi sfuggivamo ai cancelli della ragione. Qualcosa avvenne stanotte. Impossibile governare la rotta. Il vento era carico di sabbia e soffiava contro la nostra finestra, dal mare. La voce rotta della brezza mi svegliò. Ad occhi chiusi mi sfiorai il petto e mi parve di sentire un buco. Sussultai e appoggiai i piedi sul pavimento. Mi sedetti con i gomiti sulle ginocchia cercando aria buona. In quell'istante ritagliato e freddo percepii di non essere esattamente la donna che raffiguravo. Provai la sensazione di irreparabile che si ha quando si precipita. Corsi in cucina. Mi sedetti e ingurgitai il possibile. Ogni sforzo per saziare una necessità. Volevo rimangiare quei pezzi di me che avevo intuito quella notte, volevo ingoiarmi di nuovo, ma l'irreparabile s'era compiuto, una notte qualunque, nel bel mezzo di una rassicurante recita casalinga. Avevamo attaccato il disegno di noi al frigorifero e ogni giorno era speso nella replicazione di quell'immagine incrostata. La vita insieme si ammalò e offrì il desiderio alle fauci profonde della disperazione. Tentammo di salvarci da noi, non sapendo di sacrificare ogni tratto di esistenza in cambio di conservazione. Ci opponemmo al sentire, per ancorarci ad identificazioni rigide e civili. Le ragioni del cuore si opponevano a quelle della civiltà, ma non sapemmo capirlo in tempo. Cedemmo alla bieca logica della repressione. Ciò che ci interessò fu un'immagine stereotipata e confortante di noi.

D'improvviso fu come se il letto di fiori sul quale giacevamo cominciasse a putrefarsi. Il tanfo della natura morta ci stava dicendo di cambiare, di fuggire la malattia e il decadimento. Il tempo c'era, ma io lo percepivo consumato. Lei quella notte mi guardò ingurgitare la cucina, restò immobile dietro di me, senza parlare. Poi si sedette e quando iniziò ad ingollare i biscotti e a rubarli dalle mie mani compresi che eravamo giunte insieme al momento biblico della scelta: le acque si stavano spartendo, non restava che attraversarle o restare in balia. Avevo assecondato una deriva paranoica. Lei aveva causato i miei mali e a lei volli attribuire la responsabilità della mia salvezza. Dov'eravamo finite? Cosa nascondevamo, in silenzio, nell'occlusione irregolare delle nostre mascelle. E che cazzo era quel mare che si agitava tutto intorno?

Una volta facemmo l'amore selvaggio, quello che ti fa tremare. Una sola volta ci abbandonammo al desiderio dopo un giro all'inferno. Ricordo il pallore squallido del mattino, la noia e il dolore. Quello fu l'unico giorno in cui noi percepimmo la pericolosità della nostra mutazione. Ci ritrovammo la sera a distruggere foto, io gettai a terra tutti i miei libri, in un impeto ingovernabile. Una bestia s'era svegliata e finché teneva gli occhi aperti andava liberata. Ci scopammo per ore, bagnando mani e lenzuola. Aprii le gambe e mi lasciai sbattere gridando la pienezza. La notte si consumò e noi ci svegliammo di nuovo nei nostri panni, quelli che fino a stanotte non abbiamo abbandonato. Siamo lerce, puzziamo di carogna abbandonata sul ciglio di una strada. Le acque s'erano aperte, ma che cazzo c'era dell'altra parte di noi?

Decidemmo di restare a morire.





Maura Chiulli



Maura Chiulli nasce a Pescara il primo novembre 1981. Editorialista per diversi portali di informazione, pubblica i suoi racconti su celebri riviste letterarie ('Fermenti', 'Prospektiva') e si esibisce in performance dal vivo nei più bei locali italiani. Ha esordito con Piacere Maria edito da Socialmente e successivamente Maledetti froci&Maledette lesbiche, Ed. AlibertiCastelvecchi. Da anni combatte il pregiudizio e discriminazione e si batte al fianco di Arcigay, Associazione che l'ha eletta quest'anno Responsabile Nazionale alla Scuola, ai Giovani e alle Politiche di Genere.







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